11 - NC360 (1)

Alberto Recatto era stato condannato a due ergastoli per la brutale uccisione di due donne, avvenuta nel 2019.

Dopo il processo l'avevano spedito al carcere di Nuoro, dove era rimasto diciannove mesi, prima di essere trasferito senza nessun preavviso, senza nessuna spiegazione.

La mattina del 15 settembre 2021, nove mesi prima che il centro di Bologna venisse raso al suolo, fu prelevato e condotto a Olbia, dove fu messo su un aereo. Atterrato a Bologna lo fecero salire su un pulmino con le tendine abbassate e gli fissarono le manette a un gancio del bracciolo.

Davanti a lui c'era un tizio, a testa bassa, pure lui ammanettato; sembrava dormire. Al loro fianco due guardie, incaricate della sorveglianza; l'autista era nascosto da un plexiglass oscurato. Gli fu intimato di non aprire mai bocca e di non emettere nemmeno un fiato, neanche per chiedere di fare soste fisiologiche, perché non si sarebbero fermati se non all'arrivo.

Il viaggio durò sei ore e mezza e non aveva la più pallida idea di dove lo stessero portando, se non che erano diretti in un qualche posto di montagna. Nell'ultimo tratto, infatti, avevano affrontato una strada in salita e piena di curve.

Quando il pulmino s'arrestò era quasi sera.

Le guardie fecero scendere i due prigionieri e li consegnarono ad altri tre uomini che attendevano in uno spiazzo. Risalirono e se ne andarono.

I nuovi secondini formavano il gruppo più disomogeneo che Alberto avesse mai visto.

L'uomo di mezzo aveva lineamenti duri, a partire dalla mascella quadrata che circondava due labbra sottili; il naso era grosso e appuntito, i capelli corti e a spazzola, talmente ispidi da dare l'impressione di potersi forare nel metterci la mano sopra. Gli occhi erano piccoli e neri, privi di qualsiasi emozione. Era alto come lui, ma molto più largo di spalle. A prima vista pareva un tizio che era meglio non contraddire mai, tantomeno innervosire.

Alla sua destra stava un vecchio un po' ingobbito e con il viso ricoperto di rughe, tanto profonde da sembrare essere state tracciate con un pennarello.

La terza guardia era un ragazzo obeso, dalla faccia pulita e lo sguardo neutro. Al cospetto degli altri due, sembrava essere lì solamente per un puro caso.

L'aria era fredda e Alberto si ritrovò a battere i denti.

Il suo compagno di viaggio non aveva mosso un singolo muscolo per tutto il tempo e, anche ora, nonostante fosse in piedi, di fianco a lui, aveva una postura talmente abbandonata da sembrare essere sostenuto da un palo invisibile. Gli unici segnali di presenza li comunicava con la faccia: teneva la testa bassa, ma aveva gli occhi fissi sulle guardie, quasi senza sbattere le palpebre, e le labbra, tirate in un ghigno simile a quello di un clown, tremavano appena, conferendogli l'espressione di chi è del tutto terrorizzato, ma si sforza di non mostrare la propria disperazione ribollire come lava incandescente.

Erano stati scaricati davanti a un grosso massiccio, roccioso e innevato sulla cima che, scendendo, si addolciva in un declivio alberato di sempreverdi, interrotto dal largo piazzale sul quale si trovavano e fiancheggiato, sia a destra, sia a sinistra, dal proseguimento del bosco.

Alla base del pendio, a circa cinquanta metri da dove le tre guardie li avevano presi in custodia, si ergeva, minacciosa e dominante, una costruzione dai muri completamente bianchi, formata da più edifici che parevano essere stati costruiti altrove, portati lì successivamente e assemblati in tempi diversi. Tra loro spuntava un bel campanile con una guglia di ferro nero.

Poteva (e pareva) essere stata un'abbazia, se non altro per la posizione in cui era stata edificata; l'ultimo tratto di strada che avevano affrontato col pulmino era in forte pendenza, chiaro segnale che si trovavano sulla sommità di uno dei tanti monti che riempivano la vista tutt'attorno.

L'edificio era stato chiaramente ristrutturato e Alberto notò, con una rapida scorsa, che nessuna delle parti che lo costituivano sembrava fungere da chiesa. Gli risultò molto evidente che là dentro non avrebbe trovato nessun frate, nessun momento di preghiera (per quanto non fosse credente), tantomeno momenti di conforto e speranza.

«Dove siamo? Perché ci avete portato qui?» si azzardò a chiedere al carceriere coi capelli a spazzola, che l'aveva prontamente preso sottobraccio per scortarlo.

Nemmeno si accorse della mano dell'uomo scattata sul manganello che aveva appeso alla cintura; sentì solo un dolore lancinante al ginocchio sinistro, quando venne colpito. La gamba gli si piegò e si accasciò a terra.

«Tu parli solo se sei interrogato, stronzo di un ergastolano, chiaro? Altrimenti, la prossima volta il ginocchio te lo spezzo. E ti posso assicurare che stare qui dentro con qualcosa di rotto non è piacevole! Tiratelo su! E fateli muovere.»

Zoppicando e tacendo, sentendo in bocca il sapore dell'inquietudine trasformarsi velocemente in quello della paura, si avviò verso l'ingresso della prigione, circondato dalle tre guardie. L'altro uomo, al suo fianco, continuava a tenere la testa bassa.

Li accolse una vasta sala circolare con pavimento di marmo bianco e muri completamente candidi, in cui spiccavano numerose porte nere lungo tutta la circonferenza. Pareva di osservare un lunghissimo pianoforte ricurvo. Una grande scalinata fatta dallo stesso marmo, proprio al centro, portava a una balconata che correva sopra di loro seguendo il perimetro. Anche lassù si scorgevano numerose porte. Un grosso lampadario a bracci, tutto di vetro, pendeva dal soffitto, diffondendo con le sue candele elettriche un'intensa luce bianca. Nessun quadro era appeso, nessuna statua ornava la sala. La luce bianca dominava tutto e conferiva all'ambiente un inquietante e spettrale alone di disagio.

Sulla destra, da dove erano entrati, proprio a fianco del portone, c'era una minuscola guardiola, grande appena a contenere un tavolinetto con un monitor e un ometto seduto, intento a leggere il giornale. Era immerso dentro a un enorme giaccone col cappuccio, per ripararsi dall'evidente freddo che c'era nello stanzino. Alzò lo sguardo al loro passaggio e abbassandosi il cappuccio scoprì un testone di capelli grigi lunghi fino alle spalle che si mischiavano a una lunga barba incolta dello stesso colore.

«Ehi! Da quando anche i maiali scortano i prigionieri?» gracchiò, scagliando gocce di saliva sul vetro della guardiola che parevano forare il vapore acqueo che gli usciva dalla bocca. Col dito indicava il ragazzo grasso, ridendo e mostrando una fila di denti neri.

Il giovane gli rivolse uno sguardo carico di disprezzo e tristezza, ma non disse nulla.

La guardia dai capelli a spazzola diede un leggero colpo di manganello al vetro, sorridendo impercettibilmente.

«Smettila, René! Ubriacone di merda!»

Si voltò poi verso la guardia anziana e gli fece l'occhiolino. «È proprio stronzo, eh?»

L'altro rispose con un sorriso.

I due prigionieri furono condotti su per la scalinata, spinti a sinistra una volta giunti in cima, fino ad arrestarsi davanti a una delle porte nere.

«Fermi!» disse la guardia che aveva usato con così tanta maestria il manganello.

Sulla porta era avvitata un'unica targhetta, bianca con scritta nera: "DIR. FONTANA F.". La guardia bussò.

Passò quasi un minuto, poi dall'interno arrivò una voce squillante. «Avanti!»

La guardia aprì la porta e i due uomini ammanettati furono spinti all'interno di una grande stanza, rettangolare per tre lati, tranne la parete che seguiva la curva della balconata.

A differenza della sala era riccamente arredata. Il muro di destra era del tutto occupato da un'antica libreria in legno con vetrinette che mostravano mensole cariche di modellini di auto, monumenti e altri oggetti particolari. Di fronte a loro c'era un'enorme vetrata nascosta da una lunga tenda bianca e alcuni vasi di piante dalle foglie grandi e rigogliose. Al centro spiccava un divano a tre posti, bianco, di fronte a due poltrone anch'esse bianche e, in mezzo, un tavolinetto di vetro posto su un piccolo tappeto quadrato. Sulla base quadrata erano poggiati quelli che sembravano vestiti, ben piegati, color beige. Ai piedi del tavolino c'erano due paia di scarpe di tela, dello stesso colore. La parete di sinistra era occupata da un'ennesima porta, accesso a una stanza accanto. Discostata dal muro si trovava un'enorme scrivania in mogano, ricoperta di carte, cartellette e raccoglitori e una discreta quantità di articoli da cancelleria.

Seduta alla scrivania, con un largo sorriso che mostrava i quattro incisivi superiori appena più grandi della norma, c'era una donna, coi capelli castani raccolti in uno chignon e un grosso neo proprio sulla punta di un mento sottile e affilato.

Aveva gli occhi di un azzurro molto intenso che conferivano al suo sguardo la durezza e il gelo del ghiaccio, ma lo velavano a tratti anche di una dolcezza che sembrava tenuta nascosta, volutamente. Il naso era piccolo e grazioso, con la punta leggermente rivolta all'insù. Era il classico viso sul quale potevi scervellarti ore e ore a decidere se ti piacesse o no, finendo poi, a forza di pensarci, per innamorartene. Stava bevendo da una tazza.

«Buonasera, direttor Fontana! Ecco i due nuovi ospiti.»

«Molto bene! Venite pure avanti» disse la donna facendo il gesto d'accoglienza con la mano e appoggiando la tazza fumante.

La guardia diede una spinta ai due prigionieri e li condusse davanti alla scrivania per poi riunirsi alle altre due guardie, in piedi davanti all'ingresso.

Il direttore, sempre col sorriso stampato in faccia, squadrò i due nuovi arrivati per un po'.

«Spogliatevi! Completamente» disse, poi.

Alberto rimase per un secondo imbambolato, incapace di comprendere se avesse udito sul serio le parole che aveva effettivamente sentito.

Ma quando l'uomo di fianco a lui cominciò a togliersi i vestiti senza nessuna esitazione, lo imitò, memore di quello che poteva succedere se non si stava alle regole di quello strano posto. In meno di un minuto erano entrambi nudi, davanti alla donna che continuava a sorridere.

Nella stanza aleggiava un piacevole tepore ma, un po' per il freddo accumulato all'esterno, un po' per l'imbarazzo, un po' per il pesante senso di inquietudine che avvolgeva il suo cuore, Alberto continuava a tremare. Avrebbe voluto frizionarsi le braccia per scaldarsi ma, impedito dalle manette, non poteva. Per cui cercò di ovviare all'altro disagio che provava e si coprì il pene, mettendo le mani a coppa.

Le guardie cominciarono a ridere.

«L'ergastolano si vergogna!»

Solo il ragazzo grasso era rimasto serio.

La donna riprese la tazza e, bevendo un sorso, si alzò. Era di statura media, magra, con un portamento molto elegante e raffinato. Indossava una camicetta bianca, abbottonata fino al collo, sotto a una giacca scozzese, abbinata a una gonna della stessa trama. Aveva due scarpe nere col tacco e non portava le calze.

Passò davanti al primo uomo, squadrandolo dall'alto in basso, poi si fermò davanti ad Alberto, continuando a sorseggiare dalla tazza. Si accostò con la bocca al suo orecchio. Aveva un profumo delizioso.

«Quelle due donne... dici che hanno provato la stessa vergogna che stai provando tu adesso, mentre erano nude davanti a te? Prima di stuprarle e ammazzarle?» gli sussurrò, poi guardò verso le guardie facendo un cenno con la testa.

L'uomo col manganello si avvicinò e prima che Alberto potesse formulare anche un solo pensiero, lo colpì con violenza sul retro dello stesso ginocchio che ancora doleva per la legnata precedente. Con un gemito Alberto si piegò sulle gambe, scivolando su un fianco e cercando di raggiungere il punto colpito con le mani ammanettate.

«Se il direttore ti vuole nudo, tu fai vedere tutto, senza coprirti! Hai capito, assassino stupratore di merda?» e si preparò a colpirlo di nuovo, sollevando il manganello sopra la testa.

«Basta così!» intervenne la donna. «Tiratelo su.»

La guardia ripose il bastone e lo sollevò di peso.

«Ti consiglio di restare diritto in piedi, se non vuoi assaggiare il mio manico di nuovo, magari stavolta direttamente sulle palle!»

«Ho detto basta! Si discosti.»

«Scusi, direttore.»

La guardia ritornò a fianco degli altri due con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Alberto lo guardò di sfuggita e colse in quell'uomo puro sadismo, vero e proprio piacere nel far del male agli altri. Il suo tremore era aumentato, ma adesso dipendeva esclusivamente dal dolore al ginocchio e dallo sforzo di mantenere la gamba rigida ed eretta. Cercò, per quanto possibile, di spostare il peso facendo molta attenzione a tenere le braccia incollate al petto.

Il direttore si avviò verso la libreria, alle loro spalle, lasciando la tazza sul tavolinetto.

«Giratevi!» disse.

L'altro uomo, sempre a testa bassa, si voltò all'istante. Per Alberto l'operazione fu più faticosa.

«Vi piacciono i Lego?» chiese.

Aprì una delle vetrine e, delicatamente, estrasse una macchina da scrivere verde.

«Io li adoro! Puoi riprodurre qualsiasi cosa con una così minuziosa attenzione ai particolari! Guardate questo modello, guardate l'accuratezza delle linee, la precisione del meccanismo che fa muovere i tasti e il carrello! È appagante realizzare questi oggetti e aiuta un pochino a distogliere i pensieri dalla sorta di persone che ospitiamo qui. Personaggi come voi, infimi, meschini, inclini alla violenza più rude, più brutale, senza mai accondiscendere un solo istante alla richiesta di pietà che quelle vittime innocenti, senza dubbio, vi avranno ripetutamente richiesto e che invece avete voluto opprimere così ingiustamente. Ma ora siete qui, davanti a me, nudi e tremanti, desiderosi di un gesto clemente, pieni di rimpianti e rimorsi, riconoscendo alfine lo stato di patetica vergogna in cui vi trovate.»

Alberto scorse "Il Cattivo" (aveva battezzato così la guardia col manganello), trattenere a fatica la risata. Era rimasto esterrefatto nel sentire com'era cambiato il tono e l'argomento di quel discorso in così poche parole e rimase molto colpito da come si esprimeva quella terribile e affascinante donna. Era glaciale e inquietante, ma allo stesso tempo intrigante, quasi irresistibile. Non riusciva a capire se fosse seria o se li stesse solo prendendo in giro e questo, almeno ai suoi occhi, la rendeva anche piuttosto enigmatica. Scoprì con terrore che stava avendo un'erezione. Cercò subito di concentrare tutti i pensieri altrove per bloccare l'afflusso del sangue che, quasi per dispetto, sembrava invece deciso a scivolare, nella totalità dei suoi sei litri, laggiù.

«La cosa la eccita, signor Recatto?»

Alberto aprì gli occhi che aveva chiuso nel tentativo di imprimere maggior consistenza allo sforzo, e scoprì che lo stavano fissando tutti o, meglio, fissavano il suo pene che aveva raggiunto la sua massima estensione. Le guardie ridacchiavano; anche l'altro uomo, sempre a testa bassa, lo scrutava con la coda dell'occhio. La donna, invece, era molto seria.

«Cosa del mio discorso, nello specifico, la intriga di più? Il ricordo delle suppliche non ascoltate? O dello stupro stesso, magari. O forse le è piaciuta in modo particolare la macchina da scrivere? No, no, fermo! Non importa.»

Il direttore aveva bloccato la guardia che stava per dirigersi su Alberto con la mano già sul manganello.

«Li voglio attenti e concentrati, per il momento.»

Rimise l'oggetto al suo posto nella libreria e si diresse verso il divano. Si sedette e li guardò per un po' senza proferire parola.

L'eccitazione di Alberto si era un po' attenuata. Poi, di punto in bianco, riprese a parlare.

«Come avrete capito da soli, questa, un tempo, era un'abbazia. È stata fondata nel dodicesimo secolo da nobili svizzeri ed è sopravvissuta, nel corso degli anni, a parecchie disavventure: due incendi, la peste, le guerre. Nel 1922, il fascismo intraprese un processo di italianizzazione, così i monaci dovettero andarsene e solo alla fine della Seconda guerra mondiale i benedettini riuscirono a riprendere le loro attività monastiche e a istituire perfino un convitto. Quando nel 1975 morì l'abate, l'abbazia venne chiusa e tale rimase per tre anni, finché una ricchissima abitante della zona contattò la "Congregazione benedettina di Svizzera", proprietaria dell'immobile, e la comprò. Quella donna era sposata con un notissimo architetto e aveva tre figli, due maschi e una bambina, la più piccola, nata nel 1976. Nella primavera dell'anno dopo, madre e figlia si trasferirono per una settimana in Piemonte, a casa dei genitori di lei, mentre il marito e i due ragazzini, per motivi lavorativi e scolastici, restarono a casa. La sera del 28 marzo 1977 due balordi s'introdussero nella loro abitazione mentre l'uomo e i bambini guardavano la televisione. Minacciando i ragazzi con dei coltelli, pretesero tutti i soldi e i gioielli che c'erano in casa, e che venisse aperta la cassaforte. L'uomo collaborò e li implorò di non far del male ai suoi figli. Consegnò loro tutto, ma quando sembrava che fossero soddisfatti e che se ne sarebbero andati, cominciarono a ridere in faccia al poveretto e davanti ai suoi occhi tagliarono la gola ai bambini. Poi si avventarono su di lui, lo pugnalarono a entrambi gli occhi e gli infersero diverse coltellate all'addome, lasciandolo morente sul pavimento. Quando arrivò l'ambulanza era spirato.»

Aveva la tazza in mano, sospesa, ma non bevve.

Rimase impassibile, a fissarli, con lo sguardo perso nel vuoto. Nessuna lacrima le scendeva da quegli splendidi occhi di ghiaccio, ma Alberto poteva giurare che tante ne aveva versate in passato.

«Quell'uomo era mio padre. Quei bambini, i miei fratelli» disse, infine.

«Mia madre, donna forte e risoluta, invece di chiudersi in un penoso e inutile lutto, come avrebbe fatto più o meno chiunque, si diede da fare. S'informò, trovò questo posto e lo comprò, trasformandolo in una vera prigione, e voglio che sia chiara la parola vera! Lo ripeto: una prigione VERA! Un posto dove pagare VERAMENTE i propri sbagli.»

Bevve un sorso di tè, li guardò sorridendo e riprese.

«Ovviamente, la società ipocrita e benpensante che abbiamo non avrebbe mai accettato una cosa del genere. Anche un assassino deve avere dei diritti, per loro. Così, gente come voi, viene rinchiusa dentro ad alberghi pagati dai contribuenti, a scontare una pena in ciabatte, leggendo il giornale, guardando la tv, mentre fuori, chi è stato ingiustamente privato dei propri affetti, si logora nel cercare una giustizia che non arriverà mai. Sono più ergastolani loro di voi, prigionieri per tutta la vita di un dolore di cui non si libereranno mai. Mia mamma ha messo fine a tutto questo. Dovette per forza ricorrere a molte delle risorse di cui disponeva; aveva fiumi e fiumi di denaro e se hai il denaro hai anche potere. Lavorò sodo, creò una ristrettissima cerchia di persone fidate e il primo giorno dell'anno 1980 l'abbazia riaprì le sue porte. Io sono arrivata qui nel 1998, appena laureata e l'ho affiancata fino alla sua morte avvenuta nel 2014. Da allora, comando io.»

Il direttore Fontana allargò la bocca in un largo sorriso mostrando i suoi quattro grossi incisivi che parevano risplendere alla luce della stanza. Le viscere di Alberto si contorsero; cominciava a capire come stavano le cose.

Quando fu condannato all'ergastolo (due per la verità), davanti a lui si era spalancato un abisso; aveva 35 anni e pensare a tutti gli interminabili giorni che avrebbe dovuto passare dentro a una piccola cella, gli aveva procurato una punta di rimorso. Rimorso dettato più dalla situazione in cui si era venuto a trovare che da un pentimento vero e proprio per quello che aveva fatto a quelle due donne; in realtà gli era piaciuto parecchio e aveva tratto più godimento dal poter decidere sulla loro vita che dall'atto sessuale in sé.

Era un bell'uomo e aveva sempre avuto successo con le donne. Era alto, magro, con un fisico atletico mantenuto da palestra e squash. Aveva occhi verdi, magnetici, che calamitavano gli sguardi di tutte le donne che incontrava, inseriti in un viso affilato, spruzzato da un'incolta barba bionda, come i suoi corti capelli. Fin da ragazzino aveva fatto numerose conquiste, spezzato tanti cuori e si era infilato nei letti di ragazze anche più grandi di lui.

Quella sera si era recato alla festa di compleanno di un'amica di un suo amico e subito era stato abbordato dalle due donne, quarantenni e sposate e, tra malizie, ammiccamenti vari, avevano ingollato parecchi cocktail.

Era stata una delle due a proporre una cosa a tre e lui le aveva portate nel suo covo o, come era stato battezzato ironicamente una volta da una delle proprietarie dei tanti cuori che aveva infranto, "Il Trappolo". Stavolta però divenne una trappola vera e propria, per le due donne, ma in fondo, anche per lui.

Non aveva avuto nessuna cattiva intenzione all'inizio; voleva solo divertirsi. Aveva fatto sesso con donne molto più belle di quelle due, ma non erano male. La mora, soprattutto, aveva le tette più grosse che avesse mai visto, anche se inserite in un corpo non proprio longilineo. L'altra era più magra e dotata di un gran bel sedere.

Erano già nudi, ma solo ai palpeggiamenti, quando l'amica della mora, forse per un improvviso senso di colpa pensando al marito, aveva deciso che non poteva farlo. Alberto aveva fissato l'altra: nei suoi occhi c'era il desiderio, la voglia di trasgredire per una sera, e aveva ripreso a baciarle il collo, massaggiandole i grossi seni. Ma anche lei lo aveva fermato.

«No! Carlotta ha ragione. Siamo sposate» e aveva fatto il gesto di alzarsi.

Era partito il raptus.

Successivamente Alberto non era riuscito a spiegarsi come e perché si fosse scatenata quella furia che mai, in passato, aveva manifestato.

Le due donne furono colte alla sprovvista. Aveva colpito la mora, lasciandola appena tramortita e preso per i capelli l'altra mentre cercava di alzarsi, trascinandola di nuovo giù. Cadendo aveva sbattuto la fronte contro la testata di legno del letto

In un attimo fu sopra a tutte e due, senza controllo, con gli occhi iniettati di sangue e di alcool e aveva cominciato a prenderle a pugni, facendole svenire. Aveva recuperato una corda da un cassetto, aveva legato loro le mani alla testata e le aveva imbavagliate con lo scotch da pacchi.

Dopo alcuni tentativi era riuscito a svegliarle e per due ore se le era scopate con gusto, ancora più eccitato dai loro gridi soffocati e dal terrore che vedeva nei loro occhi gonfi di lacrime. Poi, quando la voglia era scemata, le aveva uccise, strangolandole. Le aveva infilate in due sacchi neri, quelli grandi per l'immondizia, le aveva caricate in macchina, sfruttando il buio dell'ora ancora tarda e le aveva scaricate in un fosso, nella campagna fuori città. Era sicuro che l'avrebbe fatta franca, ma era ubriaco e del tutto fuori di sé; così, nemmeno per un secondo, gli era venuto in mente d'aver lasciato tracce di sperma dentro di loro.

La detenzione nel carcere di Nuoro, comunque, si era rivelata abbastanza tranquilla. Certo non era una vacanza, ma si adattava, dopotutto, al suo stile di vita. Passava quasi l'intera giornata nella sua cella che non condivideva con nessuno. Aveva tv, libri da leggere, riviste di enigmistica e mangiava tre volte al giorno. Non era sposato, i suoi erano morti e non aveva mai avuto veri amici. Nessuno lo avrebbe mai cercato e lui non avrebbe cercato nessuno. La vita lì dentro si allineava ogni giorno sempre più a quella che faceva fuori. E in pochi mesi la punta di rimorso era sparita.

Poi, un giorno, era stato convocato dal direttore che gli aveva comunicato che l'avrebbero trasferito in un altro penitenziario.

«Ma... perché? E dove per la precisione?» aveva chiesto.

L'uomo aveva sollevato un secondo gli occhi dagli incartamenti che teneva in mano.

«Ordini superiori. Ordinaria amministrazione» aveva risposto e l'aveva liquidato.

Ora si trovava completamente nudo davanti a degli estranei, in un posto sconosciuto, senza sapere dove si trovasse. L'avevano picchiato già due volte, solo per aver fatto una domanda e per essersi coperto gli organi genitali. Non prometteva nulla di buono. Guardava dritto negli occhi quella donna, tanto affascinante quanto terribile e qualcosa di molto simile al rimorso, cominciò a crescere in lui.

«La faccenda è molto chiara» riprese il direttore. «Recuperiamo ergastolani, possibilmente senza famiglia, o almeno senza nessun parente prossimo, gente che nessuno viene a cercare, per dirla con parole più semplici. Gente pronta a morire qui dentro, portandosi nella tomba il nostro segreto. Come farete anche voi due... In quasi quarantadue anni di attività ne abbiamo raccattati quasi quattrocento. Non male, vero?»

Sorrise, prese la tazza e diede un'altra sorsata.

«Abbiamo avuto alcune eccezioni, pochissime per la verità. Alcuni dei nostri ospiti avevano ancora degli affetti sparsi in giro, ma avevano commesso cose talmente orribili che siamo riusciti a farli "sparire", diciamo così.»

Sfregò il pollice e l'indice, nel gesto inequivocabile di mimare i soldi.

«Erano pezzi pregiati che volevamo assolutamente nella nostra collezione, pur sapendo di correre dei rischi. Uno è ancora con noi. Un altro, che è stato anche il primo ospite in assoluto a entrare qui, fu uno dei due meschini che trucidò la mia famiglia. Fece l'enorme stupidata di farsi trovare e arrestare. Mia mamma piombò su di lui come l'aquila sul topolino. Signor Masi, sarebbe così gentile da portarmi qui la teiera, se non le dispiace?»

«Subito, direttore.»

La guardia col manganello si mosse, prese la teiera appoggiata sulla scrivania e la ripose sul tavolinetto, raggiungendo poi di nuovo la sua posizione, lanciando piccoli sguardi torvi. La donna si versò altro tè e diede una nuova sorsata, continuando a guardare i due uomini nudi.

«Inutile dirvi che già dopo due giorni di permanenza, si era pentito amaramente delle sue azioni. L'altro, il suo degno compare, è stato più furbo di lui. Si è fatto ammazzare durante una rapina, circa un mese dopo aver massacrato la mia famiglia.»

La freddezza che dimostrava, associata allo charme che emanava, la rendevano sempre più inquietante e intrigante. Lo sguardo di Alberto si era posato, involontariamente, sulle gambe nude, magre e atletiche e di nuovo aveva sentito qualcosa muoversi in basso. Poggiò volutamente tutto il peso sul ginocchio picchiato, procurandosi una lancinante fitta di dolore e interrompendo l'erezione ormai prossima.

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