57.


La paura del ragazzo era divenuta realtà, Vulcano si era trasformato in un mostro.
Vidi in quei suoi grandi occhi da predatore una superficie luccicante di tristezza. Stava cercando l'Esperto di mostri. L'ultima persona che sapeva avrebbe potuto aiutarlo, ma di lei non c'era alcuna traccia.

«Artemide è là fuori.», gli risposi indicando la breccia nel muro.
Lui sembrò inizialmente non capire, probabilmente stava ancora subendo gli effetti della ferita alla testa.

Poi, lentamente e ondeggiando, si diresse verso la porta sfondata. A tratti inciampava e altre volte ululava malamente alla Luna, forse in cerca di una risposta che non arrivava.
Il sangue che aveva sugli artigli pareva quasi nero visto sotto la luce del satellite.

Mi aveva lasciato scappare, o più semplicemente si era dimenticato di me. Andai con le mani al cristallo, mia unica difesa in caso di un attacco. Era ancora al suo posto.

Mi alzai e guardandomi continuamente intorno attraversai lo spiazzo di terra con le tende distrutte che mi separava dalla porta di metallo. Quando la spinsi essa si aprì cigolando, rivelando il corridoio illuminato dalla luce scoppiettante di un pannello.

Richiusi dietro di me la porta e iniziai a camminare lentamente, trattenendo quasi il fiato per non essere sentita.
Dalla cucina provenivano sinistri rumori di mandibole e mascelle che schioccavano nella carne.

Il bravo cane, Lucky, con gli occhi rossi e la bava colante, stava mangiando il suo padrone semisvenuto. Thor era sdraiato tra i rifiuti, quasi privo di coscienza. Tremava e faticava quasi a respirare da sotto il muso del suo poco fedele segugio. Il sangue appariva molto più viscoso di quanto avrebbe dovuto essere, ma forse era dovuto all'eccessiva salivazione del cane.

La bluastra gamba esposta del piccolo uomo portava sul polpaccio il tatuaggio di un cinghiale che qualcuno aveva più volte tentato di strappare via con un coltello, lasciando così delle bianche cicatrici. Thor cadde in una sorta di coma per mancanza di aria nei polmoni, ma il suo animale non si fermò.

Passai oltre a quella disgustosa scena, ma ancora non mi ero completamente ripresa che già ne trovai un'altra simile. Ebisu si trovava a pancia in giù in mezzo al corridoio e dava l'impressione di essere diventata un grande tubetto di dentifricio. Tutto ciò che doveva essere dentro era ormai fuori. Aveva vomitato e rigurgitato tutti i suoi organi, e il sangue era colato a fiotti sul pavimento.

Delle piccole farfalline verdi stavano posate su di lei, e parevano continuare a pungerla con il loro corpicino a forma di chiodo.
L'intero corridoio era una scia di sangue, sul quale camminai a grandi passi per produrre il meno possibile lo spiacevole suono dei miei stivali sui suoi rossicci organi tumefatti.

Fui in fine costretta a passare sopra il suo corpo inquietantemente dimagrito, ma per mia fortuna le farfalle non decisero di attaccare anche me.
Il peggio arrivò quando il corridoio iniziò a diramarsi in altre uscite. Da una di esse proveniva lo strano rumore di ali che si agitavano velocemente nella mia direzione.

Fu lì che capii perché le farfalline non mi avessero inseguito. La loro madre stava volando rapidamente verso di me. Era incredibilmente più grande delle sue figlie e, a differenza loro, lei aveva anche due grossi occhi gialli e un becco d'aquila.

Mi infilai in un altro corridoio e presi a correre per la mia vita, ma qualcosa fu molto più rapido. Venni afferrata e trascinata in uno sgabuzzino. La mia bocca fu con forza tappata da una mano che indossava un guanto di lattice.

La grossa falena dalle ali di foglie sbatté con forza contro la porta dello stanzino facendomi sobbalzare. Poi, come ripensandoci, se ne andò via agitando le sue ali per tutto il corridoio.

Mi strinsi al camice bianco di Anubi e per la prima volta dopo tanto tempo diedi sfogo alle mie emozioni. Volevo urlare e sbattere forte la testa contro il muro. Tutta la frustrazione accumulata nell'ultimo giorno si riversò sottoforma di lacrime e colò lungo i guanti del dottore.

Era tutto così sbagliato, una ragazza della mia età non dovrebbe subire tutto questo. Persone che morivano da un momento all'altro e nessuno che si preoccupava nemmeno di fargli un funerale. Esseri umani che senza motivo si trasformavano in veri e propri mostri distruttori di vite. Tutto questo non può essere la realtà, perché se davvero lo fosse sarebbe terribile.

«Perché piangi?», domandò lui abbassando la fredda mano dal mio volto. «Hai qualcosa di rotto?»
«Non è giusto...», mi lamentai. «Tutto questo non sarebbe mai dovuto accadere.»

«Piangi perché sei triste?», chiese esitando.
«No, io non sono triste.», negai tra le lacrime.

Il mio respiro colmava il silenzio durante il quale Anubi pensava a cosa dire. Stringendo il suo lungo abito sentivo lo sfrigolare della carta delle caramelle nella tasca. I suoi capelli lilla, non più stretti in una coda, arrivavano ora a solleticarmi il volto arrossato dal pianto.

Come me, lui, non doveva essere molto bravo a consolare le persone. Probabilmente le sue conoscenze si limitavano alla cura dell'aspetto fisico piuttosto che quello mentale, ma ciò non gli impediva di fare dei tentativi.

«Sei turbata o ti senti umiliata per qualcosa?», tirò a indovinare.
«Sì, più o meno...», recuperai un po' di contegno. «Cioè, non è vergogna. È solo che sono successe troppe cose. Cose che non si accettano facilmente. Hai presente?»

Sentii il suo braccio alzarsi verso il suo volto e sfilarsi la mascherina che ricadde dolcemente sul terreno. Tentai di alzare la testa nel semi buio per vederlo, ma lui con l'altra mano mi tenne il viso fermo contro il suo addome. Quello doveva evidentemente essere il suo penoso tentativo di calmarmi.

«Quando ero piccolo la mia città fu coinvolta in una guerra tra umani. La mia casa fu bombardata, la mia famiglia fatta a pezzi. Ricordo di aver percorso quelle strade, trascinandomi affamato e sporco in viso, fino a trovare i soccorsi. L'orfanotrofio era affollato di bambini che come me avevano perso tutto. I giorni sembravano tutti uguali e la lotta sembrava non finire. Durante le feste la tristezza si faceva sentire ancora di più, non c'erano regali per bambini come noi.», prese a raccontare. «Pensai che se fossi riuscito a diventare qualcuno di importante avrei potuto cambiare le cose, rendere il mondo più giusto.»

In genere durante questi miei sfoghi preferisco non avere contatto fisico con nessuno. La mia mente è come in fiamme, mi infastidisce il peso di un corpo esterno. Al momento però mi sentivo troppo debole per ribattere. Volevo solo rimanere in silenzio, ma qualcosa mi diceva che il dottore voleva dialogare.

«Scappai da quel luogo morto e cercai lavoro. Iniziai come semplice assistente, ma in poco riuscii a scalare le classifiche. Sentivo di poter davvero migliorare la vita alle persone. Non ero più un debole bambino che piangeva sui resti dei genitori. Avrei risolto tutte le ingiustizie, e salvato chi aveva bisogno di aiuto. Ah, Come ero ingenuo...», sospirò. «Stavo attirando troppo l'attenzione, e questo non piacque ai miei colleghi invidiosi. L'ultima invenzione che progettai avrebbe portato i sorrisi sui volti di tutti, e ridotto uno spreco di soldi. Per questo fu manomessa.»

Ascoltai in silenzio la storia dell'uomo che cercava di consolarmi. Non stava facendo un buon lavoro, potevo sentire le lacrime continuare a scendere sul mio volto. Il mondo sembrava essere ancora più crudele e maligno di quanto credessi.

«Il fallimento fu colossale, ne rimasi molto turbato. La vergogna di quello che avevo causato mi ha completamente trasformato e portato a diventare ciò che sono oggi.», raccontò sfilandosi anche gli occhiali e ripiegandoli lentamente nella tasca. «Con il tempo ho capito che era stata mia la colpa di tutto. Fidarmi di quelle persone fu una mossa sciocca, mi rese patetico. La debolezza era dovuta alla mia condizione, e ancora una volta non mi sentivo più a mio agio con il corpo.»

«Hai fatto un intervento chirurgico?», domandai interrompendolo.

«Più o meno.», accennò sfilandosi con leggiadria un guanto e facendo cadere anch'esso al suolo. «Il mio intelletto non era adatto al corpo in cui mi trovavo. Così mi sono visto costretto modificarlo e per farlo ho dovuto ritirarmi dal mondo e rinunciare alla mia importante carriera scientifica.»

«Eri importante?», evidenziai, nella speranza che continuando a sentirlo parlare mi sarei distratta almeno per un po' dal senso di ansia che mi bloccava il respiro.

«Oh, sono sicuro che anche tu conosca il mio vecchio nome. La mia invenzione ha riscosso una certa popolarità, per quanto sia stato un errore disastroso.», parlo sfilandosi anche l'altro guanto e lasciandolo andare.

La situazione era diventata stranamente inquietante e già intuivo che non sarebbe finita bene come speravo. La voce nella mia testa accese il campanello d'allarme intimandomi di scappare all'istante.

«Allora credo di averlo capito.», iniziai a tremare.
«Dillo.», ordinò Anubi.
«Eri il Dottor Hedy Conium, l'inventore della nuvola che piove acido?», risposi quasi senza muovere le labbra.

Il petto era immobile, e le sue dita fredde scorrevano tra i miei capelli provocando molti brividi. Lui mi alzò la testa e io potei così vedere ciò che avevo davanti.
«Esatto.», affermò.

Il suo occhio sinistro si accese illuminando il viso di color ciano. Un lato della bocca era mancante e lasciava vedere dei denti argentati e i cavi colorati nella gola. Il respiro mi si bloccò nei polmoni e scolpii nel cervello a caratteri cubitali il proposito di smettere di dare fiducia alle persone.

«S-sei un mostro?», mormorai.
«Per diventare la versione migliore di sé stessi bisogna fare dei sacrifici.», rivelò il cyborg.

Mi guardai frettolosamente intorno in quel piccolo stanzino, ma oltre che scope e detersivi non c'era altro.

«Ho aiutato gli altri a fare le scelte che da soli non sarebbero mai riusciti a fare.», continuò Anubi. «E ora ho intenzione di aiutare anche te.»

Per miracolo vidi un condotto dell'aria aperto, la mia unica via di fuga dato che la porta era bloccata da quel semi-robot. Dovevo solo riuscire a strisciare per terra e infilarmi nello stretto cunicolo buio dietro di me.

Mi preparai mentalmente per un intenso inseguimento nei condotti dell'aria, anticipato dalla mia penosa fuga da quella stanza.
Anubi, come intuendo il mio piano, tentò di fermarmi, afferrandomi per il braccio. Io indietreggiai fino a sbattere le spalle contro allo scaffale di detersivi e spray per ambienti alla violetta.

La botola si trovava proprio nel piccolo spazio tra il muro che avevo dietro e l'altro che c'era alla mia destra.
Il dottore si lanciò su di me e io mi buttai verso il condotto, arrancando al suo interno per cercare di allontanarmi il più possibile. Il mostro mi afferrò la gamba e prese a tirarmi verso l'esterno. Io premetti con forza le unghie e le braccia nello stretto e levigato spazio che avevo intorno cercando di fare pressione.

«Avanti, questa resistenza è completamente inutile.», pronunciò la sua fredda voce.
«Lasciami andare!», urlai, scalciando e dimenandomi con la gamba libera.

Facendo così riuscii ad assestargli un calcio sotto il mento e per pochi attimi, nonostante fosse solo una macchina, diminuì la presa. Quei pochi secondi mi permisero di liberarmi dalla sua morsa e aumentare la distanza che gli permetteva di raggiungermi.

«È inutile che scappi, ti condurrò comunque verso la giusta decisione. Diventerai anche tu la versione migliore di te.», minacciò.

Arrancai lungo lo scivoloso cunicolo freddo, spingendomi con i gomiti e le gambe per andare avanti. Non riuscivo a vedere molto bene in quella semi oscurità, tastavo le pareti di metallo in cerca di un uscita che sembrava non esserci.

«Apollo sarebbe diventato un mostro immortale, ma ha preferito togliersi la vita.», rimbombò la voce di Anubi nelle pareti, conducendomi così verso una piccola grata. «Agni ha lasciato prendere il sopravvento alla parte migliore, Tiwaz... Un peccato che ora siano entrambi morti.»

Continuai ad andare verso la luce stando attenta a non farmi sentire, cosa difficile dato che i pannelli si piegavano rumorosamente sotto il mio peso.

«Marte ha deciso di prenderti con sé per rimediare ai suoi errori, e si è sacrificato per tutti come l'eroe che voleva essere.», continuò a raccontare il robot mentre camminava per i corridoi in cerca di me. «Ishtar ha capito che il mondo sarebbe stato meglio senza di lei, quindi si è tolta la vita.»

Dovetti fermarmi perché Anubi si trovava proprio nel corridoio sotto di me. Le lucide scarpe facevano riecheggiare i suoi passi nella struttura e il suo occhio risplendeva sinistramente nel semi buio del corridoio.
Mi asciugai una lacrima che ancora colava sulla guancia. Dovevo averle arrossate, perché sentivo il viso scottare.

«Artemide, da brava amica, ti ha seguito là fuori ignorando il suo intuito, e con questo ha segnato la sua condanna a morte. Vulcano ha ceduto alla sua vera natura di mostro, anche se presto verrà ucciso.», fece risuonare nelle mie orecchie.

Man mano che proseguiva con il discorso la sua voce diventava sempre più metallica e finta. «Ebisu ha ascoltato solo ciò che voleva sentire e ha continuato a fare quello che più le piaceva, mangiare fino a scoppiare.»

Le sue lunghe dita d'acciaio sfregavano contro il muro sotto di me, mentre lui proseguiva la sua ricerca.

«Thor cercava un modo per sentirsi meglio con sé stesso, e ha accettato per medicina anche del veleno.», rivelò.

Avevo ripreso a strisciare il più silenziosamente possibile, ed ero quasi riuscita a raggiungere l'uscita che dava sul corridoio dei distributori. Aprii la cigolante grata di ferro e scivolai fuori dal condotto dell'aria, atterrando maldestramente a terra.

«Hanno tutti seguito i miei consigli e sono diventati persone migliori.», concluse il dottor Anubi, silenziosamente arrivato a pochi passi da me.

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