56.
Mi ero ufficialmente messa nei pasticci da sola. Non sapevo come spiegare al piccolo esercito che avevo davanti che io non ero capace di combattere.
Nel tempo che rimaneva prima dello scontro avevano costruito una specie di barricata fatta con delle rocce trovate tra le rovine. Il campo era illuminato da grosse torce, ma anche senza di esse la luce della luna avrebbe fornito il necessario per vedere.
Scoprii che tra quelle persone c'era un bravo architetto che aveva magnificamente diretto le operazioni per la costruzione del muro che ci avrebbe diviso dai mostri. Questa piccola muraglia aveva due strane porte ai lati, che sarebbero state sigillate una volta che le nostre truppe fossero uscite all'esterno.
Il piano da me orchestrato era semplice. L'elicottero avrebbe prima bombardato i nemici facendoli arretrare, poi due gruppi sarebbero usciti e gli altri avrebbero fornito supporto da dentro le mura. Artemide sarebbe dovuta stare all'interno della barricata e tirare con l'arco, ma aveva deciso di mettersi alla testa del secondo gruppo per fornirmi supporto là fuori.
Vulcano fu messo quindi al suo posto e costretto da Anubi a non gettarsi troppo nella mischia. Il dottore sarebbe rimasto nelle retrovie per aspettare i feriti da guarire al più presto, o almeno ciò che gli sarebbe arrivato di essi.
Thor, nonostante la sua grave ferita insisteva a voler partecipare alla guerra contro quelli da lui definiti "Bastardi in costume", e fu quindi messo nel gruppo di supporto più agguerrito.
Eravamo un totale di quarantadue persone e un cane, e avremmo dovuto affrontare probabilmente l'inferno in persona.
Strinsi a me Xeròbio, la spada di cristallo che era appartenuta al precedente Protagonista e che si trovava adesso sottoforma di collana. Non avevo idea di come avessi fatto a riportarla a quello stato, so solo che desideravo così tanto non doverla usare che si era improvvisamente rimpicciolita e trasformata in un pendaglio.
Adesso però ero costretta a combattere con un'altra spada meno scintillante e pericolosa, ma anche molto più fragile di quella. Valutai più volte l'opzione di riportare Xeròbio alla sua forma più utile e alla fine decisi che ci avrei provato solo in caso di vero pericolo.
Per smaltire l'ansia che mi attanagliava le viscere all'idea di star per morire pensai al perché quest'arma avesse un nome così strano. Xeròbio, da quello che avevo appreso cercando la parola sul computer del campo, è un aggettivo usato per descrivere un luogo molto arido, quindi scarso di acqua; ma quel lucente cristallo mi ricordava proprio la superficie acquosa di una limpida sorgente. Scossi la testa e mi dissi che probabilmente si trattava di un ossimoro o qualcosa del genere. Qualcuno doveva semplicemente averlo trovato divertente.
«Mancano venti minuti!», urlò una voce femminile dalle retrovie. Si trattava di Ebisu che stava posizionata sulla porta d'ingresso del tempio, osservando il piccolo orologio che teneva tra le mani.
Ci avvicinammo al muro, e potei così sentire gli strani rumori e versi che provenivano in lontananza dall'altro lato. Mi voltai verso il gruppo che stava appena dietro di me. Mi avevano assegnato tredici persone per l'attacco.
I due gemelli che il giorno prima avevo visto giocare nella palestra si tenevano adesso le mani tremanti per darsi forza l'uno con l'altro. Un uomo sulla trentina con una benda sull'occhio sinistro stava ripulendo il proprio gigantesco fucile nero con uno straccio sporco.
Una donna minuta dai rigidi lineamenti era intenta a scrivere qualcosa che assomigliava vagamente a un testamento su un lungo pezzo di carta igienica. Quattro ragazzi punk armati fino ai denti e con più piercing che tatuaggi stavano bevendo delle lattine di birra mentre canticchiavano nervosamente vecchie canzoni rock.
C'era anche un emo che guardava distrattamente il cielo e si grattava via lo smalto nero dalle unghie, ma non avrei saputo dire a che sesso appartenesse. E altri quattro individui sul punto di una crisi isterica, con tendenze suicide e con le lacrime agli occhi. Questi ultimi speravano forse di impietosire qualcuno e convincerlo a dargli il proprio posto nelle retrovie, ma senza alcun successo.
Alzai lo sguardo alla grande Luna piena che illuminava la scena proprio come avrebbe fatto il sole in una splendente giornata estiva.
«Sette minuti!», ci informò Ebisu.
L'esplosione delle mine anti-mostro ci avvisò che i rivali avevano già cominciato ad avanzare nella nostra direzione. L'elicottero prese quindi il volo ed entrò nel territorio nemico, sganciando bombe e sparando proiettili ad alta velocità.
Il manico della spada era rigido sotto alla mia stretta ferrea. Presi molti respiri profondi per cercare di calmare i muscoli delle gambe che si erano fatti tesi. Le porte stavano per essere aperte e noi saremmo sicuramente finiti al macello.
«Cinque!», esclamò Ebisu.
Voltai lo sguardo a destra verso l'altro gruppo che stava davanti alla seconda porta. Lì vidi che Artemide si sentiva esattamente come me in quel momento. Molte volte aveva rischiato la vita contro i mostri, ma questa sarebbe stata la missione più pericolosa a cui avesse mai fatto parte.
Aveva passato le ore precedenti a istruirci su vari tipi di creature che avremmo incontrato. Nonostante questo, là fuori c'erano mostri che lei non aveva neanche mai visto e di cui non poteva sapere niente. In quella situazione si sarebbe trovata quasi al nostro stesso livello.
La Luna si dischiarò completamente in quel momento, facendo in modo che i suoi lunghi capelli bianchi luccicassero, insieme all'arco e l'armatura d'argento che indossava. Lei alzò lo sguardo verso di me e, a dispetto dei nervi tirati, mi rivolse un sorriso di incoraggiamento.
Quella fu probabilmente l'ultima volta che vidi davvero Cinzia Moonbeam.
Le due porte furono aperte, e anche la nostra battaglia ebbe inizio. Chiamatemi pure codarda, fifona o come più vi garba. Sappiate che, dopo essere inciampata nella buca di una mina esplosa a pochi passi dall'ingresso, e aver perso la spada nel processo, non mi alzai più dal suolo.
Erano passate solo poche manciate di minuti, ma a me parvero ore. Il terreno odorava di budella di mostri esplosi, e quello che vedevo vicino alla mia faccia era un occhio che ancora roteava su sé stesso.
Il mio vero piano, suggeritomi dalla voce, era quello di fingermi morta e aspettare il momento buono per scappare. Purtroppo così non andò.
Un grande troll munito di mazza chiodata si stava divertendo a schiacciare tutto ciò che trovava vicino. Solo quando l'arma arrivò a qualche metro da me mi convinsi a correre da un'altra parte.
Le porte erano state immediatamente richiuse dietro di noi per evitare un assalto. L'unica via percorribile era quindi quella occupata dai mostri.
Una grigia nebbia oscurava il campo di battaglia illuminato dalla fredda luce lunare e dalle esplosioni che spruzzavano detriti e parti del corpo addosso ai combattenti.
Schivai per miracolo una fata in armatura che veniva respinta con forza da un'esplosione e saltai oltre il cadavere mezzo mangiato di un uomo.
Non sapevo dove stavo andando, ma stare fermi non era un'opzione accettabile. Ogni tanto mi parve di intravedere la chiara chioma di Artemide, ma il più delle volte si trattava di uno zombie con le mesh.
L'elicottero fu distrutto quasi subito, trascinato in mare da lunghi tentacoli assieme al pilota. Vidi anche il gruppo di ragazzi punk che combatteva ferocemente contro un grifone con occhi laser. La piccola donna stava cercando di domare un massiccio aracnide dalle sottili zampe munite di tacchi a spillo.
C'era anche un vampiro dalla carnagione violacea che andava trascinandosi per tutto il campo da battaglia con una freccia conficcata nel collo.
Dei due gemelli solo il maschio era ancora in vita e stringeva il corpo morto della sorella. Vicino a loro stava una piccola creaturina simile a una bambola di pezza dal viso verdognolo e dai grandi e inquietanti occhi neri. Tutto ciò, unito al suo sorriso e alle piccole corna rosse, creava un effetto molto disturbante.
Solo dopo che un'esplosione mi ebbe stordito e costretto a girarmi notai le porte del muro sfondate con una terribile forza. Mi precipitai verso esse, sperando che nessun mostro mi stesse guardando o provasse ad attaccarmi.
Come temevo alcuni nemici erano già entrati, lo deducevo dal sangue a terra e dalle impronte frettolosamente lasciate sul terreno sabbioso.
I rumori risultavano più ovattati in quel luogo deserto, anche se le esplosioni e le urla giungevano chiare alle mie orecchie.
Scattai verso l'entrata del tempio, ma una grossa e artigliata zampa mi spedì di nuovo contro al muro. Caddi con il sedere a terra, e alzando lo sguardo vidi una gigantesca ombra stagliarsi tra me e la Luna.
Un licantropo dalla pelliccia tendente al nero stava a una decina di centimetri dal mio corpo. Dalle fameliche mascelle colava copiosamente la saliva. I suoi vestiti erano messi male, ma più di tutti il modo in cui era ridotta la maglietta arancione che stava indossando. I suoi occhi dorati mi mandarono uno sguardo di disperazione che mai prima d'ora avevo incrociato. Sulla sua spalla sinistra, leggero e quasi invisibile da sotto tutto quel pelo, c'era il tatuaggio di un leone.
«A-aRt-y?», domandò con voce quasi supplichevole.
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