55.
Era un momento molto inappropriato, ma il mio stomaco aveva iniziato a brontolare rumorosamente. Chissà perché poi ho sempre fame nei momenti sbagliati, pensai tenendomi la pancia con la mano libera.
Feci una veloce sosta nella cucina per cercare qualcosa da mangiare. Ogni mensola della stanza era almeno parzialmente occupata da alcolici. Il cestino straripava di bottiglie di ogni genere di bevanda forte.
Aprii alcuni armadietti, trovando solo pacchi di pasta e ortaggi che andavano cucinati. In un cassetto vidi una boccetta di sonnifero e la scatolina di un farmaco chiuso.
Mentre addentavo una focaccina notai una mela gialla abbandonata sul tavolo.
Mi venne in mente lo strano consiglio del cannibale, quello di portarmi sempre dietro delle mele, e la reazione di Tiwaz quando glie l'avevo tirata contro. Ipotizzai che il frutto potesse essere una specie di arma da usare contro i mostri. Forse avremmo potuto costruire delle armature e delle armi in mela per combattere.
«Che idea stupida.», mi rimbeccò la voce. «Perché mai tutti i mostri dovrebbero avere paura di un frutto così buono?»
Aveva ragione, era un'idea stupida e non avevo bisogno di lui per capirlo. Se sconfiggere i mostri fosse stato così facile lo avrebbero già scoperto tempo fa.
Mi affrettai ad arrivare zoppicando in palestra, sperando che le liti più intense si fossero già concluse. Quando entrai nella stanza mi ritrovai ad assistere a un'intensa partita a carte. Sembrava che si fossero tutti dimenticati del problema principale, cioè me.
Mi avvicinai lentamente a un Artemide intenta a giocare una partita contro il dottor Anubi. Si accorse di me solo quando le sussurrai a un orecchio che Ishtar si era uccisa.
«SUICIDATA?!», sbraitò stupita.
Tutti nella sala si girarono verso di noi, fiutando l'odore di una nuova disputa.
Mi ritrovai in poco tempo a scappare dalla setta di seguaci guidati direttamente da Thor, il loro capo. Nel corteo era compreso anche il cane, Lucky, che sbavava sul pavimento facendo scivolare a terra gli altri.
A quanto pareva avevo di nuovo sottovalutato la loro stupidità e il loro singolare modo di ragionare. Stringevo la spada a me, ma l'utilizzo mi avrebbe procurato solo molti più guai. In verità non avevo ancora ben capito il perché quell'arma non mi avesse ancora ucciso. Ipotizzai che per morire dovessi prima usarla, o per davvero non avrebbe fatto del male a un Protagonista; il che non spiegava la fine che aveva fatto Hester.
La luce del sole pomeridiano mi accecò per alcuni attimi e avendo già usufruito abbastanza della mia dose di fortuna giornaliera andai a sbattere contro qualcosa di morbido. Quel qualcosa, scoprii quando riacquistai la vista, era un qualcuno.
Grandi corna da cervo su una testa dal mento molto appuntito. I lunghi capelli rossicci nascondevano con una frangetta gli occhi. La parte inferiore del corpo era ricoperta da una folta peluria scura, e al posto dei piedi aveva un paio di zoccoli.
«Salve, popolo di umani. Io sono Messer Nap e sono qui per dare inizio alla centoquarantaquattresima crociata indetta dai mostri.», salutò. Si prese una piccola pausa per osservare da dietro la tendina dei capelli i nostri volti basiti, poi riprese a parlare con gesti teatrali. «Se non sapete le regole... A mezzanotte precisa un esercito di creature mostruose vi attaccherà e ucciderà. Voi dovrete solo tentare di difendervi, e morire penosamente schiacciati dalle nostre forze. Tutto chiaro?»
«Cosa minchia ha appena detto?!», esclamò qualcuno, evidentemente l'unica persona che aveva trovato abbastanza forza per parlare.
«Mezzanotte, voi morite, noi vinciamo.», ripeté il mostro prima di girarsi e prendere a camminare verso la fine delle rovine. Poi sembrò come ripensarci e si girò aggiungendo: «Ah, e non provate a scappare. Fidatevi, non funzionerebbe.»
La stessa persona che prima aveva parlato doveva aver deciso che tutto questo non gli andava molto a genio. Scagliò quindi un'ascia contro il mostro. Sfortunatamente per lui Nap sapeva schivare le armi mal lanciate e anche rispedirle indietro al loro proprietario con molta precisione. Thor si ritrovò così senza più il braccio destro e un sanguinante moncherino attaccato alla spalla che diede vita alla maggior parte delle imprecazioni che pronunciò quel pomeriggio.
In pochi secondi la mia presenza fu di nuovo messa da parte e tutti si diressero frettolosamente verso la palestra. Solo io e il braccio di Marte fummo esclusi da quella riunione strategica e costretti ad aspettare fuori.
Per la prima volta osservai con attenzione la protesi. Il metallo era liscio e non troppo pesante. Tra le fredde dita era rimasta della cenere di sigaretta.
Sospettavo che da qualche punto sarebbero partiti dei razzi, o come minimo il timer di una bomba, quindi cercai di non toccarla troppo.
Voltando l'arto trovai le piccole iniziali "H.C." incise all'interno. Ci passai distrattamente il pollice sopra, sentendone i bordi.
Secondo il piccolo orologio del corridoio erano le diciassette, mancavano precisamente sette ore a mezzanotte. Approfittai di quel tempo per farmi una doccia, che dopo molte fatiche avevo trovato vicino alla stanza di Ishtar.
I vestiti che portavo, ormai non si potevano più considerare tali. Strappati in alcuni punti e ricoperti di sangue, vomito di brillantini, macchie di olio e spazzatura varia. Saltando da una mente all'altra dovevo aver perso anche il cerchietto che Ishtar mi aveva dato, ma la collana con la stella sfortunatamente si trovava ancora al mio collo. Anche se non ci rimase per molto.
Mi levai lentamente le fasce sporche stando attenta a non farmi troppo male. Le ferite non erano serie e ormai avevano smesso di sanguinare, lasciandomi però lunghi segni rosa sulla carne. L'unica parte del corpo dalla quale usciva ancora quel liquido caldo era il mio organo genitale, ma per quello non potevo fare niente.
Mentre l'acqua mi scivolava sulla chiara pelle nuda pensavo a un piano per salvarmi da quella scomoda situazione. Artemide tempo prima mi aveva detto che erano in pochi tra loro a saper realmente combattere. Calcolando anche in quanti erano morti o feriti il nostro esercito sarebbe stato facilmente dimezzato in quello scontro.
«Nostro?», sottolineò la voce. «Da quando ne facciamo parte anche noi?»
«Da quando siamo bloccati su un'isola con dei mostri.», lo informai.
«Devi prendere il controllo della situazione o rischierai di morire.», mi ammonì.
«Sì, è ciò che intendo fare.», risposi.
Uscii dalla doccia con addosso il primo grosso asciugamano che mi era capitato a tiro e legai con un codino i capelli bagnati. Avevo finalmente capito il motivo del perché Ishtar era il mio Amico di Terzo grado: entrambe usavamo lo stesso shampoo alla mela e vaniglia. Non era molto, ma in tutta la mia vita ho sempre e solo incontrato persone che utilizzano shampoo al cocco o frutti di bosco, e trovare qualcuno con i tuoi stessi gusti è rincuorante.
Rubai dei vestiti dal camerino della ragazza, e per mia fortuna, sotto alla pila di gioielli e fermacapelli trovai una specie di armatura in pelle. Passai una decina di minuti a cercare di capire come si indossasse e altrettanti minuti provando a stringerla sulla vita.
Stufa di portarmi continuamente in giro oltre che la spada anche il braccio di Marte decisi di andare a portarlo nel suo studio. Solo quando ormai ero a pochi passi dalla porta blindata mi venne in mente che avevo dimenticato il codice per aprirla.
Avrei dovuto chiederlo ad Artemide, mi dissi mentre appoggiavo il braccio metallico alla porta. Quando lo feci essa si smosse un po' e mi accorsi che in realtà era aperta.
Entrai nella sala d'aspetto arancione e per curiosità controllai la rivista che Vulcano stava sfogliando il giorno prima. In verità non era niente di speciale, solo una normale rivista di articoli da campeggio. Mi colpì solo il fatto di averla trovata in mezzo alle riviste di armi e attacchi alieni.
Anche la porta dello studio dell'Esperto d'armi era aperta e all'interno il faro di luce della lampada illuminava la scrivania su cui era poggiato il cappello dalla grande visiera e la collana con la foto. Evidentemente Ishtar doveva essere passata lì prima di togliersi la vita, lasciando giù gli oggetti che Marte le aveva affidato.
Misi il braccio di fianco al piattino scheggiato e uscii diretta verso la riunione.
Davanti alla porta trovai Vulcano intento a rigirarsi tra le dita un angolo della stretta fasciatura che gli aveva fatto Anubi alla testa. Non sembrava essere molto migliorato rispetto a prima. Evidentemente anche lui era stato sbattuto fuori dall'importante discussione.
Lo scavalcai e spalancai con forza le porte per ottenere un attimo di attenzione, cosa che accadde. Tutti i presenti si erano voltati in direzione del rumore, ritrovandosi a guardare me. Una ragazzina in armatura che stringeva in pugno una grossa e pericolosa spada.
«Perché siete ancora tutti qui a discutere?! Dovreste solo prepararvi a difendere con tutte le forze questo posto.», esclamai cercando di mantenere la mia voce con un tono alto e deciso. «Volete forse morire?»
Dalla folla si alzò un brontolio distinto di voci che negavano alla mia domanda.
«Allora armatevi di qualcosa e preparatevi a lottare per le vostre vite!», ordinai.
La folla esplose in un urlo di approvazione e corse verso l'armeria.
"Se era davvero bastato così poco per convincerli a combattere allora perché ci stavano mettendo tanto per decidersi?", mi domandai.
Artemide, come leggendomi nuovamente nel pensiero mi diede la risposta: «Stavano decidendo a chi sarebbe spettato il ruolo di comandante dell'esercito, ma a quanto pare toccherà a te.»
«Cosa?», domandai più confusa che sorpresa.
«Devi prendere il posto di Marte e stare davanti a tutti durante la battaglia.», spiegò lei, dandomi una pacca sulle spalle. «Probabilmente sarai la prima a lasciarci le penne.»
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