Lunedì 29 settembre 1997

Dense nuvole si ammassavano nella mattina di quel fine settembre. C'era uno strano calore nonostante l'estate fosse finita e il cielo fosse coperto, basso, opprimente.

La porta era chiusa ormai da troppo tempo, il silenzio regnava. Il malessere nella donna, di minuto in minuto, era salito come la marea che pian piano tutto inghiotte.

Erano mesi che non aveva più quella sensazione e ora era tornata, inaspettata ma orribile, come il pendolo di Edgar Allan Poe.

Non s'era accostata immediatamente alla porta. Qualcosa la tratteneva, vi era in lei ancora un briciolo di speranza di veder schiudersi con solerzia quella soglia almeno per l'ultima volta, per restituirle appieno la luce dei suoi occhi. Quella gaia risata che risuonava per il giardino: «Mamma, mamma, guardami».

Alle volte la sentiva durante i penosi mezzogiorni o nei pasti consumati controvoglia, come se ogni boccone fosse solo un passo in più nell'allontanarsi dalla giovinezza, alle volte prima di dormire, quando le lame di luce e il rumore ferivano il suo desiderio, unico ed enorme, di dormire.

Infine, aveva vinto la resistenza e si era approssimata alla porta, nessun rumore, nessun sentore che vi fosse vita, respiro, cuori che battono, sangue che fluisce.

«Simone!» gemette disperata, «Si fa tardi! Esci da quel bagno!».

Simone, detto il Fara, era a sedere sul water, guardandosi distrattamente i peli pubici. Il suo scopo nemmeno tanto velato era quello di far trascorrere tempo sufficiente affinché perdesse il pullman e dovesse così, con calma, entrare alla seconda ora.

Ma la madre non demordeva, mentre sbrigava le faccende mattiniere: ogni quattordici secondi richiamava il figlio, che ogni tanto rispondeva con: «Arrivo!» oppure un più aulico «La cacca è dura, ci sto mettendo più del previsto!».

Nella mente del Simone intanto si stava visualizzando il pullman che stanco, girava per viale Tritone, imboccava viale Titano, e lui semplicemente non c'era. La madre guardava l'orologio in apprensione e appena lo aveva visto uscire dal bagno lo aveva aggredito seppur con premura.

«Svelto fai colazione che perdi il pullman!».

«Sì, mamma, sì, non ti preoccupare che non lo perdo!».

Stava ora caricando gli studenti, sprigionando la sua puzza di gas di scarico diesel, il ragazzo aveva finito il suo tegolino, si era lavato accuratamente i denti ed era uscito tutto bello vestito per dirigersi alla fermata, vi era rimasto solo pochi istanti, tornando a casa e assumendo l'aria più sconsolata che riusciva a sfoggiare.

«Ma', il pullman è già passato!».

La madre aveva sbuffato, asciugandosi le mani.

«Te l'avevo detto di sbrigarti! Adesso ti tocca aspettare il prossimo ed entrare alla seconda ora!».

Simone aveva riso sotto i baffi. Era al secondo anno dello scientifico e chi lo conosceva si domandava come poteva essere sopravvissuto fino a quel punto. Era un dritto, e su questo non si poteva discutere, ma da qui a cavarci le zampe da un liceo scientifico ce ne passava, aveva schivato alcune situazioni pericolose nella sua vita da studente, e aveva preso fiducia nella sua capacità di cavarsela sempre.

La materia dove aveva il peggiore rendimento era l'italiano, perché lui di studiare poeti trecenteschi proprio non aveva il sentimento. Al solo udire quell'italiano così arcaico, iniziava a sbadigliare così clamorosamente da diventare quasi fastidioso. E il professore, piuttosto all'antica, odiava vederlo a bocca aperta come un ippopotamo per metà del tempo.

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