Lunedì 17 novembre 1997

Simone fu costretto a vestirsi meglio del solito, per poi presentarsi a casa Balzani per incontrare il suo destino.

Nonostante fossero passati solo due mesi dall'inizio della scuola, fu evidente che non ce l'avrebbe mai fatta senza un aiutino. Per cui la madre, senza nemmeno chiedere un parere al suo consorte, lo aveva messo davanti al bivio:

«Ti servono ripetizioni e ti serve tempo per farle, quindi puoi scegliere se lasciare il calcio che già adesso praticamente non ci vai, oppure lasciare il motorino parcheggiato, fino alla patente».

Era ovvio che il sacrificio fosse chiesto al calcio. Il padre discusse mille e mille volte con la madre per quella questione, ma lei fu irremovibile e quel lunedì si presentò a casa Balzani per incontrare la signorina Erica, universitaria e bisognosa di qualche soldo in più, talmente bisognosa da prendersi cura di un personaggio come Simone.

L'Erica non si aspettava un tipo del genere. Lui non era un adolescente scazzato che arrivava sciatto e spettinato. Non è che arrivasse desideroso di studiare, ma era esuberante, parlava di continuo e, in buona sostanza, lei fece fatica a gestirlo.

Molta.

****

Sabato 29 novembre 1997

Angelo parlò poco con le due amiche nei giorni successivi, chiudendosi in camera sua più ancora che in biblioteca. Le due ragazze non affrontavano l'argomento nemmeno tra di loro, come se non parlandone, non ci fosse.

Sabato 29, invece, il ragazzo telefonò dopo la scuola a entrambe chiedendo di vederle perchè, sue testuali parole:

«Non posso reggere tutto questo da solo».

Si videro al parchetto di via Palazzone, lui arrivò con una faccia che nemmeno al funerale di un parente stretto. Tra le mani la sua macchina fotografica.

«Sentite, io ve lo dico chiaramente: ho iniziato io questa storia e ogni giorno me ne pento, sto cercando di capire, leggendo e documentandomi, se esiste un modo per uscirne, e non vi chiedo certo di partecipare a questa ricerca, non voglio caricarvi di lavoro inutile. Ma siete sempre venute anche voi e non potete scaricare tutto su di me, non è giusto».

Le ragazze invece avrebbero tanto voluto scaricare tutto su di lui e non avere più nulla a che fare con quella storia. Lui si frugò in tasca, estraendo una polaroid.

Era una foto del letto di Angelo, sulla testiera capeggiava una scritta: era nera, sembrava bruciata, così come erano bruciate quelle che si leggevano sulla lapide:

HO FRETTA

«Non sapete la fatica che mi è costata 'sta foto, volevo cancellare tutto e subito. Ma l'ho fatta, perché è meglio della sola parola. E potete anche pensare che l'abbia scritto io per continuare a tenervi dentro questa storia. Non mi interessa, fate come vi pare, ma dopo che se la sarà vista con me, verrà da voi. E lo sapete. Se è venuto da me, verrà anche da voi», iniziò ad avere una voce piuttosto rotta, senza molto ritegno, «e poi non dite che non ve l'avevo detto».

«E cosa ti aspetti che facciamo?!» aveva detto la Vale, sbiancata alla vista della foto.

«Per lo meno darmi supporto mentre affronto questa cosa, io lo vedo, lo sento. E ha scritto a me. Dovrò continuare su questa strada ma per lo meno, ragazze» e gli si ruppe definitivamente la voce, «statemi vicine!».

La Vale rimase in silenzio.

«E dobbiamo tornare là?!» chiese la Cinzia, sospirando.

«Credo di si».

****

La sera stessa, nella sua camera, la Cinzia guardava il soffitto attendendo che in casa si facesse silenzio. Si chiese mille volte perché ancora ascoltava Angelo in quella storia sempre più incasinata, perchè semplicemente non abbandonava tutto quello. Forse era perchè non voleva abbandonare lui che sembrava in difficoltà, anche se ci si era messo con le sue mani. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Non poteva abbandonarlo. e forse non voleva abbandonarlo.

Di lì a poco si ritrovarono tutti e tre al cimitero, con un nervosismo palpabile, tanto che persino salire oltre il muro di cinta fu un'operazione lunga e quasi penosa.

Le due ragazze rimasero giù dalla tomba di famiglia mentre lui salì, fece tutti i gesti molto lentamente, con evidente ansia, che lo faceva essere estremamente goffo. Il cimitero era freddo, spettrale in quel novembre in cui le foschie davano tregua ma la temperatura no. Si rabbrividiva al solo tocco di un qualsiasi oggetto: un portafiori di metallo, un'iscrizione cromata, un piano di gelido marmo bianco.

Poi improvvisamente Angelo sussultò, portandosi di nuovo le mani alla bocca e annaspando con le gambe per farsi più indietro. Dopo attimi di panico, si rimise in posizione e prese la candela dallo zaino, avvicinandola alla lapide.

Comparve una scritta perentoria.

ORA

«Ora cosa devi fare?» chiese la Cinzia preoccupatissima, torcendosi le mani.

«Ora darò il mio sangue».

«Ma, sei pazzo!» disse la Vale con una voce isterica.

«Devo, lo ha detto».

Con uno sguardo pieno di urgenza, tolse un coltellino dallo zaino, poi si chinò su sé stesso e si procurò una ferita che immediatamente gli rigò di sangue il polso e la mano. Tremando, porse il braccio striato di brillante rosso alla lapide. Dopo pochi attimi, come colpito da un'onda, sbalzò indietro, a un passo dal cadere dalla tomba. La Cinzia iniziò a mormorare l'Avemaria con la voce rotta.

«Non posso!» urlò e dopo pochi attimi, con voce quasi isterica urlò di nuovo «Non posso!».

Cadde a terra, supino, rimase immobile per un tempo che parve infinito, non si capiva nemmeno se respirava. La Vale rigò il volto di lacrime, singhiozzando, era certa che lui fosse morto. L'altra ragazza voleva fare qualcosa, ma non si azzardava a spostarsi, non voleva diventare una nuova vittima dell'entità.

Il ragazzo iniziò a rantolare, a espellere affannosamente l'aria, alzando la mano come a cercare aiuto, la voce continuava a cambiare intonazione, passando dallo sforzato, quasi isterico, al gutturale. Poi tacque, per un altro tempo che parve infinito. Il cimitero era completamente immerso nel silenzio buio e freddo di fine novembre.

«Oddio, Cinzia, è morto» iniziò a piangere la Vale, mentre l'altra era sempre più combattuta: scappare o soccorrere? Ma Angelo, con una voce straziante urlò:

«Il vostro sangue!».

Silenzio. Poi di nuovo lui, sofferente.

«Sa che siete qui, vuole il vostro sangue. Sangue di femmina, ha detto!».

Alzandosi a fatica, fece avvicinare le due ragazze, singhiozzava.

«Vuole sangue di femmina, sa che ci sono femmine» poi iniziò a piagnucolare veramente, «ma io non voglio ferirvi!».

Poi, colto da un nuovo scossone, aveva cercato la candela spentasi nella concitazione, l'aveva riaccesa e avvicinata alla lapide con la mano malferma.

IL SUO CICLO

Le due ragazze si erano guardate, la Vale aveva un viso sconvolto.

«Come sa...?».

Angelo aveva una faccia funerea, iniziò a farfugliare che voleva andare via, facendo per recuperare lo zaino, ma un nuovo sussulto, come se fosse stato colpito da una mano invisibile, lo fece cadere riverso in un rantolo.

Si rimise a sedere e, con la testa tra le mani, iniziò a piangere sommessamente, poi i singhiozzi aumentarono.

«Scusate, scusate per questo orrore... è colpa mia» poi, alzandosi, andò a carponi fino alla lapide e vi appoggiò il polso insanguinato dal taglio. Poi si girò verso le ragazze con sguardo implorante.

«Per favore...».

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