ZOE

POV NADINE

5 mesi più tardi....

Ci furono passi leggeri, un mormorio e lo spostamento d'aria di una nuova presenza accanto a me. Voltai la testa alla ricerca di un volto ma i miei occhi si rifiutavano di mettere a fuoco.

"Come procede?", sentii Renuar rivolgersi alla levatrice.

"I dolori sono molto forti, mio Signore. Ma Nadine sta affrontando tutto con molto coraggio. Vorrei alleviare la sua sofferenza ma non so come".

"E' normale tutto questo sangue?".

"Non preoccupatevi".

Di cosa stavano parlando? Di che sangue stavano parlando? Perchè non riuscivo a vedere? Non era questo che avevo studiato all'università.

La mia mente annebbiata dal dolore si rifiutò di trovare una risposta. Tornò vigile solo quando, all'improvviso, contro ogni logica, il dolore raddoppiò di intensità. La parte bassa della mia schiena si incendiò, come se la fiamma di una candela fosse stata depositata direttamente lì e il mio urlo riecheggiò tra le pareti della stanza. La mia reazione automatica fu di voltarmi e tornare supina. Alcune mani si posarono sulle mie caviglie, tenendole ferme.

Il dolore crebbe, aumentò, raggiunse un apice e si placò. E di nuovo. E ancora. E ancora. Mi masticava dall'interno, creandosi un percorso lungo la spina dorsale.

I passi si fecero più vicini e sentii una pressione sulla fronte.

"Nadine, amore, mi sentite? Ditemi cosa posso fare. Ditemi come posso aiutarvi", implorò.

"Uccidimi", abbaiai. "Dannazione a te, prendi un coltello e uccidimi".

"E'... è normale?", tentennò, tornando a rivolgersi alla donna.

La sentii ridere, lieve. "Di norma, con un dolore simile, voi cavalieri vi uccidereste da soli. Quindi presumo sia normale". Un sospiro bloccò la sua risata, simile ad un sussulto. "Spostatevi. Via, via, via, via".

"Che succede?".

"Guardate".

"Oh Dio, mio Signore".

"Nadine?", mi chiamò la levatrice. "Nadine, ora! Forza, forza!".

"Brucia!", singhiozzai. "Dannazione! Toglietelo!".

Contorsi le dita dei piedi e cercai di vincere contro l'intensità del fuoco con un urlo talmente devastante che mi urticò la gola.

Lo sentii rimbombare a lungo prima che il silenzio calasse nuovamente su di noi. E nella calma, avvertii la sensazione di star riprendendo pian piano il controllo della mente e del corpo. 

Sollevai la testa e tutto il dolore divenne un ricordo appena vidi mia figlia. La levatrice l'adagiò contro il mio petto e subito il suo piccolo corpicino si rannicchiò contro di me, alla ricerca di calore. 

Restai senza fiato quando i suoi piccoli occhi scuri si spalancarono curiosi e sconcertati contro i miei, instaurando un legame che solo la morte avrebbe potuto spezzare. Il cordone ombelicale, ancora da tagliare, pulsava contro il mio ventre al ritmo dei battiti dei nostri cuori, sincronizzati alla perfezione.

 Il viso minuto e totalmente proporzionato era indescrivibilmente bello. Più bello ancora del volto di Alec. Ne aveva assunto i tratti, lasciando a me l'onore di donarle la forma degli occhi e delle labbra. Era un miscuglio esatto dei suoi genitori. Sapevo che mi avrebbe ricordato ogni istante della mia vita ciò che avevo perso.

"Ciao, piccolina mia", singhiozzai. "Ciao Zoe".

"Zoe?", chiese la levatrice. "Che nome particolare. Perchè non la chiamate Mary? O Benedetta?".

Strappai via a forza gli occhi dal visino di mia figlia e lo puntai contro la donna che mi aveva aiutata a partorire, comunicandole con la violenza dello sguardo quanto gradissi in quel preciso istante che se ne andasse, lasciandomi sola con Zoe e l'uomo che a tutti gli effetti era diventato suo padre.

La levatrice capì al volo. "Con il vostro permesso, tornerò tra qualche istante a lavarvi e sistemare vostra figlia".

"Grazie", bofonchiai, tornando all'opera d'arte che stavo stringendo tra le braccia.

Appena udii la porta chiudersi alle sue spalle, allungai il braccio verso l'uomo che mi aveva aiutata a sopravvivere in questi ultimi cinque mesi, invitandolo ad avvicinarsi.

"Vieni", lo implorai col sorriso nella voce.

Zoe cominciò a piangere: un autentico inno alla vita.

"State bene?", si informò Renuar.

"Mai stata meglio. Vieni vicino. Vieni a vedere nostra figlia, Renuar".

Renuar esitò, lanciando un'occhiata fugace alle macchie di sangue sul pavimento, infine prese coraggio e si inginocchiò al mio fianco, osservando rapito la piccolina con un tale grado di orgoglio che mi fu davvero difficile ricordare che non fosse il vero padre. 

"E' perfetta", si complimentò, il sorriso autentico.

Un sorriso che per cinque mesi mi aveva sorretta, scavando dentro di me per far riemergere la vasta gamma di emozioni che Alec mi aveva strappato via a forza. Un sorriso che mi aveva sorretta, lasciandomi cadere solo quando avevo il bisogno di ricordarmi che accanto a me c'era un uomo disposto ad aiutarmi a rialzarmi. Sempre. Ogni istante. 

"Chi taglierà il cordone ombelicale?", mi informai, sentendo la paura tornare.

Qui si partoriva come fra gli animali, come una vacca che ha il basto nella stalla. Ma le vacche sapevano cavarsela da sole, io invece ero alla mercé di una vecchia che per tutta la durata del parto aveva intonato una litania per tenere lontani gli spiriti maligni e che di certo non aveva alcuna competenza medica.

"Tra poco la levatrice tornerà", mi rassicurò, accarezzandomi la frangia umida di sudore.

Nel panico mi sollevai sui gomiti e mi guardai attorno, individuando a fatica un pezzo di spago che purtroppo aveva tutta l'aria di essere rimasto a contatto con il terreno per lungo tempo. 

Lo indicai. "Potresti avvicinarmelo?".

Lo tagliai coi denti e lo avvolsi al cordone ombelicale, attaccandolo alla gamba.

"Perchè fate così?", chiese, sviando lo sguardo pudicamente quando le mie parti intime tornarono visibili ai suoi occhi.

"Per impedire che venga risucchiato all'interno del corpo". 

Il mio ventre era diventato come una muta pietra, poi sentii qualcosa, come un piccolo accenno ad un'ennesima contrazione.

"Dov'è la levatrice?", chiesi.

Renuar fissò la porta, in silenzio, poi si sollevò per andare a spalancarla: con orrore mi resi conto che fuori non c'era nessuno. 

"Solleva la candela, ho bisogno di vedere bene". Stavo per piangere. 

Renuar ubbidì all'istante e dal modo in cui la fiamma traballò, capii che stava tremando. Si sforzava di non guardarmi, lanciando occhiate sempre più inquiete verso la porta.

"Levatrice!!!", tuonò. "Clark! Che vi sta succedendo, Nadine?".

Senza fiato per il dolore avvolsi Zoe in una coperta e l'adagiai sul pavimento freddo, accanto a me. 

"Devo far scendere la placenta", balbettai tra gli spasmi.

"Cos'è? Cosa vi serve?".

"Aiutami ad alzarmi".

"No, dovete restare stesa. Avete perso troppo sangue", si impuntò. "Levatrice! Dove diavolo è quella donna?".

"Non c'è tempo, Renuar", singhiozzai, gettando un'occhiata a Zoe.

Mi invase un senso di tenerezza e insieme di fierezza. Poi invece mi prese un'ondata di odio. Pensai a chi mi aveva fatto fare questa bambina. Non era sua, non gli apparteneva affatto. Avrei voluto cancellare il suo ricordo con un colpo di spugna in modo che sparisse per sempre dalla mia vita. Invece restò lì.

Renuar adagiò la candela sopra il tavolo e con movimenti meccanici allungò le braccia per sorreggermi. "Non posso fare questa cosa".

"Sì che puoi. Se non faccio scendere la placenta morirò".

I muscoli delle sue braccia si irrigidirono con ancor più forza, tanto che per un momento diminuirono la presa attorno ai miei fianchi e mi ritrovai a vacillare. Avevo le vertigini, non ce la facevo a stare in piedi. Dovevo ristendermi, anche se questo mi avrebbe fatta morire. Volevo stare stesa e basta. 

"Vado a cercare la levatrice", annunciò quando caddi sulle ginocchia.

"No!", urlai, sgranando gli occhi su di lui. "Non lasciarmi sola".

Scrollò la testa. Non l'avevo mai visto così spaventato. Nemmeno quando gli avevo comunicato, mesi prima, che per settimane intere sarebbe dovuto starsene paralizzato a letto. Eppure doveva essere abituato alla vista del sangue. 

"Nadine, io non...", attaccò.

"Devi spingere sulla mia pancia", lo istruii, mettendomi carponi.

"No, no, no. Nadine, non ne sono in grado".

"Morirò", biascicai, le palpebre sempre più pesanti. "Non lasciare che mi addormenti".

Un istante dopo le sue mani furono sul mio ventre, delicate come petali di rosa. Con la mente annebbiata cercai di ricordare le lezioni ostetriche che avevo seguito nei primi due anni di facoltà. Il soffitto ondeggiava paurosamente, la terra sotto di me tremava. Avevo perso la nozione del tempo. 

"Più forte. Spingi più forte".

"Dannazione", imprecò, guardandosi attorno come a cercare una via di fuga.

Ma poi quel coraggio che caratterizzava il suo carattere tornò, guidando le sue dita che, con violenza, premettero il mio ventre provocandomi un dolore più terribile di quello del parto.

Appena urlai le sue mani si staccarono da mio corpo. "Nadine?".

"E' tutto okay. Respira Renuar. Fai due lunghi respiri".

"Lavatrice!", gridò disperato, inginocchiandosi di fronte al mio volto. "La ucciderò. Vi giuro che la ucciderò".

"E' uscita la placenta?".

"Non so nemmeno come sia fatta", scrollò frenetico la testa. "Nadine mi state facendo fare una cosa che non...".

"Lo so", singhiozzai. "Non perdere la calma. Promettimelo, Renuar. Devi respirare. E' normale avere attacchi di panico i questi casi. Tu respira. Fallo insieme a me. Uno, due, tre... respira. Ripeti con me. Uno, due, tre... respira...".

"Uno, due, tre...", inalò l'aria lentamente e con ancor più lentezza la lasciò andare.

"Ancora".

"Uno, due, tre...", inalò di nuovo.

"Mostrami le tue mani". Dovevo controllare che il tremore non fosse così forte da renderlo incapace di utilizzarle con fermezza. Il tremore c'era.

"Cos'altro posso fare?".

"Devi togliere la placenta da dentro".

"Come?".

Chiusi gli occhi, esausta e umiliata. "Devi mettere le dita dentro di me e...".

"Nadine", si scioccò.

La mia mente tornò agli anni trascorsi in ospedale e ogni parte di me si staccò da questa situazione, riprendendo possesso di quel senso di distacco e professionalità che provavo ogni volta che percorrevo le lunghe corsie gremite di pazienti. Ero tornata ad essere la dottoressa Low, tirocinante in chirurgia, affiancata purtroppo da un cavaliere che non sapeva nemmeno cosa fosse un'aspirina e che avrebbe dovuto mettere in atto il secondamento manuale.

"Tieni il cordone teso verso il basso e accertati che non si liberi dallo spago". Strinsi i denti per il dolore, ignorando la sua espressione sempre più stravolta. "Dovrai inserire la tua intera mano nella cavità uterina per distaccare la placenta dalla sua inserzione e quindi estrarla".

I suoi occhi si sgranarono e con orrore vidi la pelle del volto sbiancare. 

"Non osare svenire come una donnetta", lo ammonii. "Fai come ti ho detto, ti guiderò io".

Impiantai bene le mani e le ginocchia sul pavimento e seguii attentamente i movimenti lenti e incerti di Renuar che annebbiato dal terrore stava spostandosi verso la mia vagina.

"C'è... c'è... sangue", tartagliò.

Sospirai, chiudendo gli occhi in imbarazzo. "E' giusto che sia così. Prendi quello straccio e puliscimi".

La stoffa graffiò sulle mie labbra uterine lacerate dal parto ma il dolore fu niente in confronto a ciò che sentii appena la mano di Renuar cercò di divaricare l'apertura per crearsi un passaggio.

"Vi farò male", tentennò.

"Togli quella cazzo di placenta!", sbottai.

L'istante successivo sentii le sue dita frugarmi dentro, abbarbicandomi le viscere. Il dolore fu tale da farmi prendere una totale coscienza di ciò che stava accadendo. Vidi il volto di Renuar contratto per lo sforzo. Stava sudando emanando un odore acre che si mescolava a quello delle candele. Mi dava il voltastomaco. 

"Si è mosso qualcosa", mi avvertì, immobilizzando la mano dentro di me.

"Strappala", urlai per il dolore. "Tira. Toglimela da dentro".

Finalmente arrivò la liberazione: la tasca sanguinolenta uscì da me. La percepii come tanti pezzi di carne mollicci che venivano sospinti da un fiotto di sangue fuori dal mio ventre.

Cascai supina, coprendomi gli occhi con un braccio e mi presi il tempo di bearmi di quella sensazione di integrità mentre la voce del mio professore nei meandri della mia mente mi ricordava passaggio dopo passaggio tutto ciò che bisognava eseguire in una sala parto.

"Controlla se è integra", biascicai, ricordandomi all'ultimo che Renuar non poteva comprendere cosa gli stessi chiedendo. "Ricomponila ed esaminala per vedere se eventuali frammenti si sono staccati".

Gli occhi di Renuar saettarono contro le sue mani, evidenziando delle occhiaie che fino a poco prima non c'erano. 

"Sembra sia intera", azzardò.

"Devi esserne certo. Se dentro di me sono rimasti alcuni pezzi potrebbero provocarmi delle emorragie e morirei di setticemia".

Esitò per un lungo momento, soppesando la gravità delle mie parole pur non capendone il significato, quindi sorrise. Un sorriso così piccolo che pensai di essermelo sognato. "Ogni parte combacia con l'altra".

Tirai un sospiro di sollievo, voltandomi verso Zoe. "Dio ti ringrazio".

"State bene?". Tornò a inginocchiarsi accanto a me.

Annuii, riconoscente.

"Mi avete fatto tremare come un marmocchio", ridacchiò.

"Ho avuto molta paura anche io", ammisi, stringendomi al petto mia figlia. "Ha bisogno di essere lavata prima di mangiare".

I suoi occhi si socchiusero, divenendo due fessure spaurite. Sembrava un topo in cerca di un riparo, braccato dall'alto dagli occhi vigili di un falco.

"Lo farei da sola ma non credo di reggermi in piedi". Le palpebre mi si abbassarono per un istante e dovetti fare violenza su me stessa per riaprirle. "Ho bisogno di chiudere gli occhi solo per un istante. Un istante solo".

Gli occhi di Renuar scivolarono veloci da me a Zoe e si spalancarono terrorizzati appena l'allungai verso le sue braccia. 

"La stritolerò", annaspò, scuotendo frenetico la testa. "E' così piccola rispetto a me".

"Renuar", lo rimproverai. "Ti prego".

Le sue braccia si sollevarono dai suoi fianchi con una lentezza snervante, allungandosi ancor più lentamente verso il piccolo fagottino. 

"Reggile la testa", mi raccomandai.

Gli occhi di Renuar tornarono di nuovo a cercare i miei, supplicandomi in silenzio di esonerarlo da quell'incombenza. Infine cedettero quando coi polpastrelli entrò in contatto per la prima volta con Zoe. La paura sembrò scivolargli di dosso in meno di mezzo secondo. Ogni sua movenza acquistò certezza, divenendo sicura e abile mentre prendeva la bambina. 

"E'...", attaccò, bloccandosi subito con la voce rotta dall'emozione.

"Lo so", sorrisi, comprensiva.

"Avete bisogno d'altro? Devo portarvi qualcosa?".

"No, grazie. Ho solo bisogno di riposare un momento prima di allattare Zoe".

"Vi lascio. Vado a controllare se è tornata Clark, così mi aiuterà a lavare la bambina".

Inchinò la testa e retrocesse. Solo quando spalancò la porta sembrò esitare. Con la mano ferma sullo stipite tornò a voltarsi verso di me. La faccia ancora stravolta dalla tensione per ciò che aveva visto.

"Grazie Renuar".

"Sono io che ringrazio voi, Nadine Low. Non mi sono mai sentito così uomo come in questo momento con voi".

Arrossii, colma di gratitudine. Era ingiusto. Non era lui l'uomo che avrebbe dovuto assistermi e salvarmi la vita. Non era lui l'uomo che avrebbe dovuto lavare Zoe per la prima volta. E non era nemmeno l'uomo che avrebbe dovuto crescerla. Eppure non aveva mai provato rancore verso il mio cuore, ancora schiavo dell'amore che provavo verso Alec. Lo aveva accettato e senza esitazioni si era preso carico di un fardello che mio marito aveva abbandonato. Alec aveva preferito combattere per la propria gente, pur consapevole che la vittoria non sarebbe mai arrivata. Il suo troppo amore per me lo aveva reso cieco e così protettivo da arrivare a lasciarmi ad un uomo che, nonostante la propria ristrettezza mentale, era riuscito ad ignorare l'umiliazione di ricoprire un ruolo che non gli apparteneva per diritto e che gli avevo concesso solo come ripiego. Non potevo odiare Alec per ciò che avevo fatto né potevo smettere di amarlo. Ma di certo avrei odiato ogni singolo secondo speso ad amarlo. Perchè questo mi avrebbe impedito di legarmi a Renuar. E solo Dio poteva sapere quanto lo avrebbe meritato. 

"Non sei stato un uomo", mi sentii dire, piena di ammirazione. "Sei stato un eroe".

Perchè solo un eroe avrebbe rinunciato ai propri ideali per continuare ad amare un cuore che non sarebbe mai stato suo. 


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