SONO IL TUO PADRONE
POV NADINE
"Le voci corrono, mia Signora", esordì Renuar.
Si mise a sedere sul divano che ingombrava buona parte della parete e con un gesto della mano mi invitò a imitarlo. Scolò fino all'ultima goccia la coppa in rame che aveva in mano e restò ad osservarla con attenzione prima di continuare.
"A quanto pare la Chiesa non ha concesso l'annullamento del matrimonio che vi tiene legata ad Alec O'Bramm".
Trassi un profondo sospiro. Non sapevo se di sollievo o di felicità. Probabilmente di entrambe le cose. "Perciò il testamento in tuo possesso non ha più valore?".
"Vi prego di non interrompermi di nuovo finché non avrò finito. Vi è chiaro?", domandò, brusco.
Annuii con un cenno della testa e istintivamente abbassai lo sguardo contro il polso. I segni rossi delle sue dita erano ancora visibili contro la pelle pallida e fungevano da promemoria, ricordandomi di essere cauta di fronte a lui e soprattutto di tenere a freno la lingua. Odiavo la paura che sentivo ogni volta che Renuar entrava nella mia stessa stanza, mi faceva sentire impotente e sola. Aveva fatto affidamento alla violenza fisica per ottenere da parte mia un timore reverenziale, e in parte aveva raggiunto il proprio scopo. Non lo riverivo, questo no di certo. Ma indubbiamente lo temevo. Bastava una sola parola sbagliata da parte mia perché l'ira sopita in lui esplodesse a mie spese. Per questa ragione mi cucii la bocca e restai in attesa. Lo sguardo basso come lui desiderava.
"Come dicevo vi ritrovate in una situazione spiacevole". Si sollevò dal divano e barcollò in avanti, alla ricerca di qualche bottiglia sopra il tavolo. "L'invalidità del testamento vi lascia senza la mia protezione poiché per legge avete il diritto di essere assistita solo da O'Braam. Ma vostro marito non c'è. Vostro marito vi ha lasciata". Sbirciò nella mia direzione per un secondo. "Lo avete compreso, non è così?".
"Sì", farfugliai. Cercai di deglutire ma la saliva restò incastrata in gola, insieme alla sofferenza.
Renuar afferrò il collo della bottiglia e la scagliò contro lo spigolo del tavolo, facendomi sussultare. "Sì, cosa?".
Annaspai alla ricerca della voce. "Sì, mio signore. Ho compreso".
"Bene", annuì, sollevando un'altra bottiglia per controllare se fosse piena. "Infondo O'Braam ha agito saggiamente. Posso comprenderlo, sapete? Il vostro ritorno nella nostra epoca potrebbe dare adito a molte voci spiacevoli sul vostro conto. Voci che potrebbero gettarvi al rogo. Tenervi nascosta agli occhi della gente è la soluzione più sensata, come del resto lo è quella di tenervi lontana da lui. Non vi è posto in Scozia in cui voi due potreste stare accanto senza che qualcuno possa insospettirsi". Portò la bottiglia alle labbra e ingurgitò un lungo sorso di vino. "Le spie dei clan ribelli sono ovunque e di certo ce n'è qualcuna che segue molto da vicino i passi di Alec. Se lui tentasse di raggiungervi, impiegherebbero poco a comprendere che siete ancora viva". I suoi occhi scattarono contro i miei, seri. "E voi sapete che ogni uomo nemico brama di entrare in possesso delle vostre conoscenze storiche e mediche. Quindi, sì", ingurgitò altro liquido prima di continuare, quasi cercasse nel vino la giusta ispirazione, "ribadisco che le scelte di Alec O'Braam, sia quella di abbandonarvi che quella di ottenere l'annullamento, siano sagge e razionali".
"Intuisco un ma nel tuo discorso".
Con due gradi falcate mi raggiunse, afferrandomi il mento per stringerlo con violenza tra le proprie dita. "Non vi avevo forse detto di stare zitta?".
Annuii, cercando di indietreggiare. Il terrore mi fece venire la nausea e il cuore mi balzò in gola, martellando al ritmo del mio respiro. Era difficile nascondere il mio stato d'animo quando mi stava così vicino, e l'unica cosa che riuscii a fare fu quella di non distogliere lo sguardo. Ero in mano ad un folle.
"Come avete detto?", mi beffeggiò ad un palmo dal volto.
Il tanfo di alcol mi fece serrare i denti. "Ho detto di sì".
"Sì, cosa?", scandì lentamente. La voce tremolante nello sforzo di controllarsi.
Cacciai il mio orgoglio sotto i tacchi delle scarpe. Non perché potessi schiacciarlo bensì per difenderlo dalla pazzia di quest'uomo. "Sì, mio Signore".
Le sue dita si staccarono di colpo, lasciandomi la mandibola formicolante ed ne approfittai per dargli le spalle. Le lacrime mi appannavano gli occhi, rendendo sfocati i contorni delle cose. Riassumevano esattamente quello che era diventata la mia vita. Alec era stata la luce che mi aveva guidata ed ora, senza di lui, le ombre delle tenebre si allargavano sempre di più, giorno dopo giorno, inghiottendo la mia anima. Ad ogni respiro entravano dentro di me, sempre più in profondità, cingendo il cuore in una morsa gelida che rendeva doloroso ogni battito. Era questa la mia vita: una perpetua eclissi che non conosceva la luce ma solo le infinitesimali sfaccettature del grigio.
E fu solo quando sbattei le palpebre un paio di volte che la vista riuscì in qualche modo a ridare la giusta profondità ad ogni oggetto, focalizzandosi contro la sagoma di una persona che si spostava furtivamente oltre la piccola finestra, come fosse in attesa di qualcosa. Affinai lo sguardo per riconoscerne i tratti ma la scarsa luce non mi permise di mettere a fuoco il volto.
"La vostra unica via di salvezza sono io", riprese Renuar.
La sua voce mi arrivò distante, quasi distorta, come se le mie orecchie fossero state riempite d'acqua. Sbattei di nuovo le palpebre e la sagoma scomparve.
"Ma di certo mi è stata negata la possibilità di fare di voi mia moglie".
"Ed io che credevo che un Dio non esistesse", borbottai tra i denti.
Le sue sopracciglia scattarono verso l'alto. "Come avete detto?".
"Che mi dispiace molto", mentii prontamente.
"Non ho motivo di dubitarne. Fate molto bene a dispiacervi, poiché attualmente siete senza un uomo, senza un titolo, senza un soldo e con un figlio nel ventre". Posò entrambe le mani sul bordo del tavolo e restò con la schiena china per un lungo istante, perso dietro i suoi pensieri.
"A cosa stai pensando?", chiesi quando il silenzio divenne più irritante di un'orticaria.
"A cosa farne di voi. Quale uomo vorrebbe tenersi la donna di un altro?". Sembrava stesse parlando con sè stesso, in combutta tra le varie sensazioni che si riflettevano sul suo volto. Riconobbi solo la stanchezza ma sapevo che da qualche parte vi era una buona dose di rabbia a malapena trattenuta. "Ma abbandonarvi? Dannazione, come potrei?".
Si voltò di scatto, squadrandomi da testa a piedi con una lentezza che mi fece formicolare ogni punto in cui i suoi occhi si posavano. "Certo, potreste diventare la mia puttana".
Tremai. Non era una domanda, era chiaro.
"Affidandomi il vostro corpo, se sarete abbastanza abile nelle arti amatorie, potrei prendere in considerazione l'idea di mantenere voi e vostro figlio".
"E' questa l'opzione che mi proponi?". Non sapevo nemmeno se sentirmi indignata o se scoppiargli a ridere in faccia.
"E' l'unica".
"Perciò dovrei venire a letto con te per avere protezione?". La proposta era così assurda che sentii la necessità di una conferma da parte sua.
Renuar fece schioccare la lingua tre volte. "Non dovrete fare solo questo. Dovrete essere abile e seducente, in modo tale da non lasciare mai che il mio desiderio si sopisca".
"Sei consapevole di fare schifo?".
Un muscolo gli pulsò furiosamente sulla mascella. "Nadine, vi avverto, non sono disposto a tollerare la vostra linguaccia. Dovrete imparare a mostrarmi rispetto!".
"Rispetto!", ridacchiai, disgustata, avendo comunque la prontezza di retrocedere. Stavo sfidando il fuoco, ne ero consapevole, ma il mio orgoglio aveva vinto su tutta la linea contro la paura. "Vuoi rispetto dopo il modo in cui mi tratti?".
"In questa epoca, quando una donna mostra una mancanza di rispetto nei confronti di suo marito, viene picchiata".
"Tu non sei mio marito".
"No", concesse. "Ma sono come un marito per te. Sono il vostro signore e voi sarete presto la mia puttana. Se preferite che vada a prendere una frusta e vi costringa a mettervi a schiena nuda davanti a lord Stuart, sarò lieto di insegnarvi come comportarvi. Altrimenti porgetemi le vostre scuse".
"No", balbettai.
"Dormirete fuori dalla porta", confermò.
"Non farmi questo", cercai di farlo ragionare.
"La notte vi porterà consiglio. Attenderò la vostra decisione domani all'alba. Ma tenete bene a mente che senza di me la vostra vita è come se si fosse conclusa il giorno in cui lord Stuart vi ha riportata nel XVII secolo".
Spalancai la bocca ma la richiusi subito, intimorita da suo sguardo.
"Volevate dirmi qualcosa?".
Chinai il capo, sconfitta. "No, mio signore".
Quindi afferrai la coperta e a passi lenti puntai la porta.
"La prossima volta vi suggerisco di non lanciarmi invettive. Io vi salvo la vita e voi mi ripagate offendendomi? Siete proprio stolta, donna".
Chiusi la porta alle mie spalle, lasciando che le sue ultime parole uscissero con me, disturbando il calmo silenzio della notte. Mi avvolsi la coperta sulle spalle e mi accucciai a terra, spingendo le ginocchia contro il petto e dondolando avanti e indietro. Il freddo era pungente e filtrava nelle ossa, costringendomi a tremare contro la ruvida parete esterna della casa.
Chiusi gli occhi per una manciata di secondi e lasciai che il futuro che conoscevo tornasse alla mente sotto forma di flashback felici. Avevo bisogno di aggrapparmi a ricordi che mi strappassero a forza, seppur solo per qualche istante, da quel posto dove le leggi erano fatte dagli uomini e per gli uomini.
Da quando Renuar aveva adottato il sistema della violenza per arginare ogni mio tentativo di ribellione, sempre più spesso il sistema di autoconservazione della mia mente andava in standby, mettendosi sottosopra e lasciando che un costante senso di allerta mi logorasse i nervi, come se il pericolo di essere picchiata potesse presentarsi da un momento all'altro. Ero divenuta una bambola rotta e solo i ricordi della mia vita passata sembravano fungere da collante per i pezzi che andavano disintegrandosi, restando tuttavia, miracolosamente, al proprio posto. Guardandomi dall'esterno, nessuno avrebbe potuto dire quanta sofferenza ci fosse in me. Ma dentro... dentro ero in mille pezzi. Pezzi insani, marci, che si beffavano del mio dolore, trovando in esso la forza per proseguire la loro lotta per l'autodistruzione.
Una singola lacrima lavò via un ricordo legato a mio padre e all'ultima cena del Ringraziamento in cui si era cimentato nella mia cucina per la preparazione dell'arrosto più disgustoso che avessi mai mangiato.
"Dove sei Alec?", chiesi a una stella.
Pulsava un po' meno rispetto alle altre e sembrava quasi essere inghiottita dal buio della notte. Calai la mano sopra il ventre e lo accarezzai. Il mio bambino era sempre là dentro, silenzioso e nascosto al mondo. La mia ancora di salvezza. Tastai alla ricerca del battito e lo trovai nel punto esatto in cui era sempre stato. Il mio punto fermo.
"Non giudicarmi", gli dissi. "La mamma non ti lascerà solo. Ma per farlo deve accettare il più terribile dei compromessi. Non giudicarmi, amore mio".
"Ed io che credevo di essere il tuo unico amore", sentii una voce al mio fianco.
Mi voltai di scatto e fu a quel punto che vidi un'ombra muoversi veloce lungo il perimetro della casa. Mi raggiunse in un battito di ciglia e prima ancora che avessi il tempo di urlare una mano calò sopra la mia bocca.
"Non urlare", l'ombra bisbigliò al mio orecchio con un tono talmente basso che riuscii a sentirlo a stento. "Vieni con me".
Con una lieve pressione sotto le ascelle mi tirò su, schiacciandomi la schiena contro il poderoso petto. La mano non accennava a staccarsi dalla mia bocca e per un istante temetti di svenire.
Appena tentai di divincolarmi la pressione aumentò. "Non temere alcunché. Sono io. Sono Alec".
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