QUEL Sì STRAPPATO
POV NADINE
Il freddo aumentò appena la palla infuocata del sole sparì completamente, masticata da un ammasso di nubi gonfie di pioggia che abbracciavano le cime innevate delle montagne.
Una raffica di vento creò un piccolo vortice di foglie secche che planò davanti ai miei piedi. Strinsi le braccia attorno alle gambe, spingendole contro il petto per difendermi dal freddo e posai il mento sulle ginocchia. Accanto a me il respiro di Alec si trasformava in piccole nuvolette bianche. A volte si disperdevano subito nell'aria gelida, altre volte restavano lì, sospese come le parole che si rifiutavano di uscirmi di bocca.
"Non mi sento mai tranquillo quando pensi troppo", il mormorio di Alec fu appena percettibile.
Sospirai e restai incantata ad osservare il cielo nel punto in cui era ancora un po' chiaro, illuminato dai timidi raggi del sole che, sfidando la notte, si aggrappavano agli ultimi istanti del giorno.
"E' diverso". Col mento indicai il panorama. "E' tutto diverso qui. Mi fa pensare alle difficoltà che hai dovuto affrontare quando sei stato nel futuro".
Sembrava assorto mentre osservava il mio stesso punto, cercando probabilmente di intuire cosa mi stesse affascinando così tanto. Dopo tutto si trattava di un cielo. Ma era un cielo che sarebbe scomparso per sempre nella storia.
"Sono rimasto nel XXI secolo per un tempo troppo breve per potermi interrogare sui miei sentimenti ma ammetto che la doccia è un'invenzione che ha stravolto la mia concezione di toeletta". Mi fissò per un istante, alla ricerca di qualcosa sul mio volto. "Ti manca?".
"La doccia?".
"Tutto quello che hai lasciato", precisò.
Ci pensai un po' su, senza permettere alla mia mente di fossilizzarsi sugli aspetti negativi che avevano storpiato la bellezza di questo posto, destinata a non venir tramandata nei secoli. Perchè non c'era libro o poeta che potesse trascrivere su carta la bellezza mozzafiato di questi panorami né penna capace col suo inchiostro di raccontare con quanta tenacia ed eleganza la gente di questo posto sopravviveva alla povertà e alle malattie.
"Nel futuro abbiamo le macchine per muoverci...", attaccai. La mente sospesa tra passato e futuro, incapace di decidere da quale sponda buttarsi. "... Gli aerei per viaggiare. Ci muoviamo sfidando i confini del mondo ma non siamo più capaci di meravigliarci per un tramonto. Lo si vede da ogni angolo del pianeta ma per osservarlo ci costringiamo a percorrere migliaia di chilometri, convinti che da sopra casa nostra non sia altrettanto bello. Abbiamo l'acqua potabile, limpida e salutare, ma preferiamo le bevande gassate. Abbiamo il microonde per cucinare in fretta perché non abbiamo tempo per mangiare. Il tempo, Alec. E' quello che noi del futuro non abbiamo più. I secondi passano, le ore si rincorrono ma dentro di noi le lancette del tempo sono ferme, immobili tra un impegno e l'altro. E allora corriamo, corriamo, corriamo. Vogliamo raggiungere le nostre mete per poterci poi voltare e guardare indietro al passato col rimorso, perché mai, nemmeno per un momento, abbiamo concesso a quelle lancette di scoccare in avanti". Scrollai le spalle per scacciare la malinconia.
"Avete le medicine", buttò lì. La postura tesa smascherava il suo tentativo di fingersi calmo. Era difficile intuire cosa stesse pensando ma qualunque cosa fosse lo preoccupava. "Avete telefoni per comunicare senza attese. E' tutto pulito e le conoscenze sono un privilegio per tutti, non solo per i ricchi".
"Sì", mi limitai a rispondere.
"Voi donne avete ottenuto una parità che in quest'epoca non è nemmeno contemplata". Mi fissò, concentrato, scavando attentamente nelle emozioni che sfociavano sul mio volto. "Potete lavorare, governare un intero popolo, siete indipendenti. Per certi versi vi siete trasformate in uomini".
"E tu non comprendi questo nostro bisogno di mostrarci forti", non era una domanda.
"Ci ho provato".
Ci fu un movimento nel buio, a distanza. Qualcosa di chiaro si mosse tra alcuni alberi scuri e poi si bloccò.
"Non si può dire che lady Clark sia una persona abile nella mimetizzazione", commentò critico, guardando oltre la sua spalla per un secondo. "Posso sapere il motivo che la spinge ad essere così guardinga nei miei confronti?".
Guardai anche io la sagoma chiara della ragazza, ancora immobile tra i bassi rami degli alberi. "Le ho chiesto io di seguirmi sempre".
La sua espressione cambiò rapidamente, marmorizzandogli ogni lineamento del volto. "Non ti senti al sicuro qua?".
"Ma sì, certo", lo rassicurai in fretta. "La zona è molto tranquilla e da quando sono qua, a parte qualche gruppo di stranieri, non si è avvicinato nessuno".
Le sue mani si chiusero a pugno lungo i fianchi. "Stranieri?".
"Nessuno di pericoloso". Posai una mano sopra la sua, cercando di distendergli le dita. I nervi vibrarono sotto i miei polpastrelli con una forza al limite dell'umano. "Non devi preoccuparti. lord Stuart e lord Renuar sono stati molto abili nei loro turni di guardia e nella perlustrazione della zona. E in ogni caso so difendermi".
"No, che non ne sei in grado".
"Grazie della fiducia, eh!".
"Non si tratta di sfiducia ma di queste". Aprì le mani, spalancando le dita callose contro le mie braccia. "Sei così fragile. Così piccola che a volte temo di spezzarti con una carezza. La tua lingua lunga è un'ottima arma, te ne do atto, ma contro un uomo sarai sempre svantaggiata".
"Basta", lo interruppi. "Non c'è niente di cui preoccuparsi. Ho chiesto a Clark di seguirmi da quando Renuar ha mostrato un certo interesse nei miei confronti. Ma questa zona non è mai stata pericolosa".
Alzò gli occhi al cielo. "Tu non sei esattamente la persona più idonea per valutare i rischi cui potresti andare incontro".
Fissai il suo sguardo, sulla difensiva; gli occhi erano cerchiati e la pelle sulle guance tesa fino a diventare quasi lucida. Le occhiaie erano profonde e nere. Era stanco. Stanco e preoccupato. Ma da quando ero tornata nel passato, questa era la prima conversazione pacifica che avevamo iniziato e non ero ancora pronta per lasciare che terminasse.
"Perchè lo pensi?", indagai, spinta più che altro dall'orgoglio piuttosto che da una banale curiosità.
"Vivevi da sola".
"E questo cosa centra?".
"Una donna che sa riconoscere i propri limiti sa anche quando ricorrere all'aiuto di un uomo. Lasciatelo dire, Nadine, ma tu e tuo padre siete stati degli irresponsabili nel prendere l'assurda decisione di farti vivere senza protezione".
"E qui ritorniamo alla mia domanda iniziale".
Mi lanciò un'occhiata confusa.
"Non approvi la parità dei sessi", spiegai meglio. "Né che una donna possa avere il desiderio di badare a sé stessa".
"E come potrei? Uomini e donne sono di fatto differenti. Una donna che non ammette la propria sottomissione ad un uomo è una donna frivola e senza carattere".
"E' proprio perché non siamo nè frivole nè con poco carattere che abbiamo bisogno di non essere sottomesse a voi", lo smentii.
Rise, allungando le muscolose gambe davanti a se. "E' quindi poco frivolo ignorare la vostra debolezza fisica? Ed è il vostro forte carattere che vi porta a sminuire i rischi che vi minacciano?".
Gli diedi una spallata che nemmeno lo spostò. "Sei irritante quando rigiri ogni cosa che dico a tuo favore".
Mi restituì la spallata e dovetti piantare le mani nel terreno per non cadere di lato. "Ammetti piuttosto che ti irrito perché riconosci che ho ragione".
"Non hai ragione. E se vuoi saperlo è proprio questo ciò che mi manca del futuro".
"Vivere senza protezione?", ipotizzò, quindi col pollice cercò di tirare su l'angolo della mia bocca imbronciata per obbligarmi a sorridere. "Se insisti tanto ti porterò sul campo di battaglia con me".
"Non ci sarebbe nulla di strano se vivessimo nel XXI secolo", ignorai la sua ironia.
Il suo sguardo mutò ancora e mi sembrò di scorgere una strana luce nei suoi occhi, qualcosa che non avrei dovuto vedere. Non sapevo dire cosa fosse. Preoccupazione, forse. Per un secondo lo scambiai addirittura per panico.
"Il tuo egocentrismo ti porterà alla morte", mi avvertì.
"E' il tuo senso di protezione ad essere la mia più grande minaccia. Se non mi insegnerai a difendermi...".
"Difenderti?", si spazientì, incapace di trattenere una risata che mi offese.
"Certo. Se non fossi così pieno di te e non avessi l'egocentrica arroganza di credere che io dipenda dal tuo aiuto, riusciresti a capire che posso imparare a reagire all'attacco di un uomo. Se la miglior difesa sta nell'attacco, dovresti insegnarmi ad attaccare".
"Non pensarci neppure. Non ti insegnerò a combattere". Ribolliva di disapprovazione, glielo si leggeva chiaramente in faccia.
"Perchè no?".
"Perdio siete una donna!!!", passò al voi. Un riflesso incondizionato di quando stava per perdere le staffe.
Odiavo quando voleva mettere simili distanze tra noi, ma non avrei ceduto facilmente. "E con questo?".
"Fatemi il favore, Nadine, non voglio neanche parlarne". Tirò un respiro profondo per calmarsi e si sollevò in piedi, allontanandosi di qualche passo. "Vado a vedere se riesco a sistemare le cose con Renuar. Voi aspettatemi nella vostra stanza".
Mi aggrappai al suo braccio ma era come cercare di trattenere un camion in discesa. Mi aveva trascinata di un paio di metri prima di accorgersi che ero appesa al suo polso.
"Scommetto che stai pensando che come donna sono brava solo a cucire i tuoi stupidi pantaloni", brontolai.
"Se provvedere a vostro marito vi sminuisce, potreste occuparvi delle erbe. Siete abile come guaritrice", liquidò il discorso.
"Se davvero hai intenzione di riportarmi al castello prima o poi dovremo affrontare i Campbell e preferirei essere pronta quando ciò accadrà. Se tu mi allenerai...".
Sgranò gli occhi, retrocedendo come se fosse stato pugnalato al costato. "Vi state opponendo a una mia decisione?".
"Non voglio darti contro ma la tua decisione è stupida".
La mia schiettezza riuscì a farlo infuriare. "Non vi guarderò mai come un bersaglio. Non a voi. La discussione finisce qui".
Senza difficoltà si liberò dalla mia stretta e tornò ad allontanarsi. Ricacciai in gola la rabbia per la fretta con cui mi aveva liquidata e alla cieca tastai a terra, afferrando un bastone e lanciandoglielo contro la schiena. I suoi piedi si arrestarono di colpo, sprofondando nel terreno umido di neve e anche da lì vidi ogni singolo muscolo della schiena irrigidirsi.
"Tentate di colpirmi di nuovo e vi prometto che sarò più rapido di voi... vi garantisco che l'effetto sarà maggiore". Il tono era dolce ma risuonò come una mortale minaccia.
Acciuffai un altro bastone e lo scagliai contro di lui, colpendolo miseramente all'altezza del polpaccio. "Sei solo un egocentrico e barbaro vichingo".
Con uno scatto fulmineo tornò a voltarsi verso di me. Non avevo mai visto prima d'ora una rabbia così cupa sul viso di un uomo. I suoi movimenti furono così veloci che quasi non riuscii a registrarli. Un terrore sbigottito seguì la sorpresa mentre mi attirava a se, bloccandomi i polsi dietro la schiena così forte che temevo potesse spezzarli.
"Che intenzioni hai?", mi ritrovai a balbettare.
Nel silenzio che seguì vidi chiaramente il suo cervello lavorare frenetico.
"Forse dovrei prendervi", mormorò infine, incerto, osservando il mio seno premuto contro il suo pesante mantello.
Mi sfiorò la guancia con i polpastrelli, facendo poi scivolare le dita lungo la gola e richiudendole infine sul mio seno. Voltai la testa di lato quando iniziò ad accarezzarlo senza fretta, muovendo ritmicamente il pollice sul capezzolo.
"Sì", confermò, quasi stesse parlando con sé stesso. "Potrei strapparvi i vestiti di dosso e toccarvi. Sarebbe un gesto violento e selvaggio ma vi farebbe capire quanto siano deliranti le vostre pretese".
"Non lo faresti mai".
Il suo sorriso mi fece rabbrividire. L'uomo dolce e paziente con cui avevo parlato fino a poco prima sembrava essere scomparso. "Volevate un assaggio della brutalità di un uomo... eccovi accontentata".
Sollevandomi da terra mi gettò furiosamente al suolo. Senza respiro restai immobile, con i capelli che mi ricadevano tutt'intorno come un ventaglio stropicciato e ormai rotto. Lui mi si avvicinò, piazzando i piedi ricoperti da pesanti stivali ai lati del mio corpo e schiacciando ciocche intere di capelli sotto le suole. Poi lentamente si inchinò verso di me, inginocchiandosi a cavalcioni sotto il mio ventre e bilanciando il peso sui talloni. Alzai i pugni per colpirlo ma le sue mani furono più rapide delle mie e mi afferrarono i polsi, bloccandomeli saldamente sopra la testa. Il suo corpo premeva sul mio, possente e vibrante.
"Siete fortunata ad avere dentro di voi mio figlio perché nient'altro, in questo momento, vi avrebbe salvata da una dimostrazione esemplare di ciò che accade alle sventurate che hanno l'ardire di avvicinarsi ad un campo di battaglia, dove cavalieri sono lontani dalle proprie donne da mesi se non anni. Credete che vi sfiderebbero a duellare? Oh no, mia ingenua moglie, quello che il vostro cervello non vuole comprendere è che più uomini contemporaneamente si scaglierebbero su di voi, e non per combattere. Non riuscite nemmeno a tenere a bada me, che sono da solo, come pensate di poter tenere testa a cinque, dieci uomini che vi userebbero violenza?".
"Ho capito benissimo la lezione", ringhiai, sconfitta e umiliata. "Ora puoi lasciarmi".
"No, mia Signora", rispose piano, guardandomi sfacciatamente il petto. Si chinò ancora, sfiorandomi la bocca con una delicatezza stonata. "Non finché morte non ci separi".
"Lasciami ho detto o chiamerò Clark".
Arcuò un sopracciglio. "Ottimo piano quello di chiamare un'altra donna per difendervi".
Strattonai i polsi ottenendo una sua occhiata gelida.
"Le vostre mire ambiziose porteranno solo guai", mi sgridò. "Volete forse causare una guerra così violenta da inondare la nostre terre col sangue di innocenti? Perchè è questo ciò che accadrà se non sarete in grado di riconoscere quale sia il vostro posto; ed è in casa, mia Signora. Siete una donna. Fate la donna. Abbandonate la fantasia di aiutarmi nella guerra contro il clan dei Campbell perchè vi assicuro che la prossima volta in cui voi metterete in dubbio le mie scelte, la punizione sarà durissima".
"Bene!", acconsentii, socchiudendo gli occhi per fargli intuire quanto poco fossi d'accordo con lui. "Vuoi che me ne stia in disparte? Lo farò. Ma non chiedermi di comportarmi come una codarda quando sarà il momento di tirare fuori le unghie. Non resterò nascosta ad aspettare che qualcuno accorra a difendermi. Non sverrò a comando, non piangerò se un soldato cercherà di prendermi né fingerò di non avere un cervello per dimostrare al mondo che tu ne hai uno".
Con le dita sempre strette intorno al mio polso si risollevò, trascinandomi con se. I suoi occhi neri, imbestialiti dal desiderio implacabile della mia resa, sembravano aspettare di cogliermi in fallo per dimostrarmi che i suoi pensieri erano di gran lunga più sensati dei miei. La rabbia gli deformava la mascella, assottigliendo le labbra in una lunga linea dura e facendole quasi completamente scomparire sotto il velo di barba bionda. Malgrado ciò, per un istante - un istante così breve che mi venne il dubbio di essermelo sognato - vidi nei suoi occhi un'espressione di autentico terrore, come quello di un cervo preso in trappola. Ma subito quell'espressione scomparve e sebbene stesse soffocando la rabbia per non colpirmi, sembrò sul punto di dimenticare lo scontro. La sua stretta si stava allentando e ne approfittai per liberarmi e posizionarmi a distanza di sicurezza.
"Se è una donna malleabile che vuoi, vai a prendertene una". Con un gesto ampio del braccio indicai l'intera vallata, spoglia di qualunque tipo di luce. Imprigionata nella notte sembrava essere l'unica testimone di questo scontro verbale. "Perchè non sarò mai come tu mi vuoi. Non rinuncerò a ciò che sono per compiacerti".
"Dovrei farlo io, invece?", rivoltò la frittata, composto e serio. "Cos'è che vuoi Nadine? Un uomo che si finga così vile da lasciare che la propria donna affronti un bastardo, figlio di buona donna che vuole strappargliela via?".
"Non è ciò che hai fatto con Renuar?", lo schernii.
"Era diverso, dannazione!". Si passò entrambe le mani tra i lunghi capelli, girando su sé stesso per voltarmi le spalle. Percorse un tratto di strada, pestando bene i piedi a terra, quindi tornò sui suoi passi, fermandosi ad una spanna da me. "Avevo paura. Paura di perderti. Paura che la gente del popolo non mi avrebbe creduto".
Deglutii, assorbendo lentamente le sue parole. "Creduto a cosa?".
"Ho sparso la voce tra la gente che il tuo funerale è stata una semplice messinscena, atta a depistare l'attenzione del nemico. Nessuno ti crederà una strega in questo modo. Ma avevo bisogno di tempo per farlo e non potevo riuscirci mentre eravamo sotto assedio". Mi afferrò le spalle, guardandomi disperatamente negli occhi. "So che non potrai mai comprendere le mie scelte ma spero tu riuscirai a perdonarle. Soprattutto quella di essere venuto a riprenderti. Sto commettendo un errore a riportarti al castello e non mi importa. Sto mettendo il mio cuore davanti alla tua sicurezza e non mi aspetto che tu possa comprenderlo". Quindi abbassò lo sguardo, deviando il mio. "Ma te ne prego, perdona ogni mia scelta e accetta di venire con me".
Esitai. "Posso accettare tutto, Alec. E so che ti perdonerò. Ma non chiedermi di farlo ora".
"Verrai al castello con me, quindi? So che ti sto chiedendo molto ma...".
"Non ho mai voluto altro. Vivere nascosta e sola, non è vivere".
Un sorriso raggiante gli abbellì il volto stanco. "Partiremo tra qualche giorno allora, è deciso. Potrai muoverti liberamente nelle nostre terre, soprattutto in queste prime settimane in cui il mio clan e quello dei Campbell saranno impegnati in battaglia. Quando tornerò...".
Sospirò, in preda ad un'improvvisa ansia. Se non lo avessi conosciuto bene non mi sarei accorta che c'era anche una lieve tensione. Mi prese una mano e giocherellò con le mie dita. "Ricordi cosa ti chiesi prima di partire dal futuro?".
Il ricordo spuntò dal nulla, come se non l'avessi mai confinato in un angolo della mente. Sapevo a cosa si stava riferendo e il respiro mi si bloccò.
"Sì", ansimai.
"Vuoi ancora sposarmi?".
"Tecnicamente lo siamo già", blaterai in imbarazzo. Quest'uomo era una contraddizione vivente: un attimo prima mi stava minacciando, quello dopo mi chiedeva di sposarlo. Stare dietro ai suoi sbalzi d'umore era sfiancante.
"Rispondi alla domanda", mi incalzò, dolce. "O preferisci che mi inginocchi?".
"No", inorridii. "Non farlo. Non... non serve".
Il vento soffiò nel nostro silenzio, curioso anch'esso di ascoltare la mia risposta.
Guardai la sua mano sulla mia. Non trovavo le parole. Sapevo di avere i suoi occhi addosso e avevo paura di guardarlo in faccia.
"Sei arrossita?", si sorprese.
Non alzai lo sguardo. Mi schiarii la gola, nervosa, gli occhi fissi su una piega della mia gonna. "Io, forse... credo...".
"Nadine", il suo tono di rimproverò mi ricordò quanto dovesse odiare questa mia incertezza.
Quando prima di partire mi aveva fatto la proposta non avevo avuto alcun dubbio nel rispondere ma ora c'erano troppe cose, troppe scelte in attesa di essere perdonate e superate. I nostri cuori piangevano ancora una perdita che si sarebbe potuta evitare, ma d'altra parte, per quanto non riuscissi a passarci sopra, non potevo ignorare che se mi aveva allontanata era stato esclusivamente per difendermi. Mi sentivo in bilico, nauseata dall'irrequieto trambusto di sentimenti che mettevano sottosopra il mio cuore. Dentro di me stava avendo luogo una vera e propria battaglia e non potevo rispondere senza prima sapere quale sentimento ne sarebbe uscito vincitore.
"Non credo sia il momento migliore per un matrimonio", mi decisi finalmente a guardarlo.
I suoi occhi si colmarono di stupore. "Stai rifiutando la mia proposta?".
"La sto solo rimandando".
In un attimo me lo ritrovai addosso, le labbra a un centimetro dalle mie. "Rispondi di nuovo. Rifiutami ancora. Ma questa volta sii più convincente".
Mi sforzai di mantenere un tono fermo e regolare. "No".
"Cosa? Sì!!!", ribattè, oltraggiato.
Scrollai la testa, in combutta con me stessa. In reazione alla confusione che lesse sul mio volto si abbassò per sussurrarmi qualcosa all'orecchio. "Dimmi di sì", mormorò dolce.
"No".
"Sì", alzò la voce, rendendola leggermente più dura.
"No", mormorai, così poco sicura da trasformare la mia risposta in una specie di domanda.
Il sorriso beffardo che intravidi sulle sue labbra mi fece intuire che non se l'era bevuta. Sapeva che stavo tergiversando. "E' il più bel no che mi abbiano mai detto".
"Era un no, no. Non un no, sì", protestai, cercando di spingerlo via.
Il suo petto vibrò in una risata contro i miei palmi. "Mi sembri un po' confusa".
"Sei tu che mi confondi".
"Quindi era un no sì?".
Sostenni il suo sguardo con decisione. "Esatto".
Il sorriso aumentò e mi accorsi in ritardo che era riuscito a confondermi a tal punto da portarmi ad acconsentire inconsapevolmente.
"Cioè, era un vedremo", mi corressi.
"Nadine?", mi chiamò, baciandomi la punta del naso.
"Sì?".
Ridacchiò, perfido fino in fondo, ma in un batter d'occhio tornò serio. "Sposami".
Deglutii. Non avevo scampo quando mi guardava in quel modo. Gli lanciai un'occhiataccia, cercando di decifrare l'emozione che covava. Anche lui mi guardò e all'improvviso ogni accenno di finzione tra noi sparì. Il suo sorriso fu così accecante che per un attimo gettò in ombra tutto ciò che ci aveva tenuti separati. Cercando di ignorare la reazione del mio cuore al suo sorriso, mi schiarii la voce e con un tono tombale risposi finalmente come lui desiderava.
"Te lo chiederò tutti i giorni della nostra vita ma spero che a lungo andare, con un buon allenamento, arriverai a dirmi di sì senza tante cerimonie", respirò contro le mie labbra, deciso a baciarle.
Ma appena le sfiorò, il rumore sordo e ancora lontano di un cavallo al galoppo lo misero sul chi va là. Restò immobile ad esclusione delle sue mani che mi strinsero lievemente il fianco. Mi lanciò uno sguardo d'intesa, suggerendomi di non emettere alcun suono, quindi con la freddezza tipica di un cavaliere tornò ad indossare la maschera glaciale e distaccata che odiavo tanto.
"Resta dietro di me e non rivelare il tuo nome", mi istruì.
"Credi sia un soldato dei Campbell?".
"Ho molte virtù ma non sono ancora in grado di riconoscere il suono degli zoccoli di un cavallo nemico".
Dalla foschia si cominciò ad intravedere la sagoma di un cavaliere seduta in sella ad uno stallone lanciato a tutta velocità contro di noi. Con un gesto automatico del braccio, Alec mi spostò dietro di se parandomisi di fronte a mo' di scudo.
La sua concentrazione intensa non tradiva ombre di incertezza, malgrado non avesse un'arma con se. E poi, mano a mano che la sagoma acquistava tratti sempre più nitidi, ogni suo muscolo si rilassò. L'espressione tesa lasciò il posto allo stupore.
"E' Geneviev", mi informò, lasciando che un sorriso balenasse veloce sulle sue labbra. Durò appena un secondo ma bastò per tranquillizzarmi.
Feci un passo di lato guadagnandomi un'occhiata ammonitrice da parte di Alec. "Non occorre che ti ricorda di non guardarlo in faccia e di non parlargli senza il mio consenso, non è così?".
"Mi sfugge il senso di questa pretesa".
"Hai appena acconsentito senza esitazioni a sposarmi", mi ricordò, ovvio.
"Veramente ho esitato. L'ho fatto eccome. E continua a sfuggirmi il senso di ciò che stai dicendo".
I suoi occhi non persero di vista il cavaliere. "Una donna sposata non può guardare un altro uomo".
"Oh", mi finsi comprensiva. "Ora è tutto più chiaro. Ma stai tranquillo", gli diedi due colpetti rassicuranti sulla spalla. "Se mai dovessi guardargli involontariamente la punta sensuale dei suoi stivali stai pur certo che non mi farò filmini pornografici durante la notte".
"Non tirare la corda, Nadine", mi ammonì. "Cos'è un filmino pornografico?".
"E' una salsiccia", lo presi in giro, certa che comunque non avrebbe capito.
"Perchè dovresti pensare alle salsicce?".
Feci per rispondergli ma a quel punto Geneviev ci aveva quasi raggiunti e preferii tapparmi la bocca.
"Ci tengo a questo cavaliere, perciò evita di fare qualcosa che implichi la sua possibile morte", aggiunse in fretta, freddandomi con uno sguardo gelido.
Abbozzai. "Sarò mite come un agnellino".
"Disse il lupo", concluse.
Quindi fece un passo avanti e si arrestò appena il cavallo di Geneviev si impennò sulle zampe anteriori a pochi metri da noi.
"Porto notizie, mio Signore", esordì. I suoi occhi si posarono su di me per qualche istante senza tradire alcuna emozione e subito dopo tornarono contro Alec. "Vedo che siete in compagnia".
"E' mia moglie", specificò.
A quel punto Geneviev distolse immediatamente gli occhi da me, evitando di fissarmi. Scese da cavallo e lottò contro l'animale per qualche istante, obbligandolo a restare fermo al suo fianco.
"Vi sarei grato, mio Signore, se potreste chiedere a vostra moglie del vino e qualcosa da mangiare".
Sentii la mascella aprirsi lentamente per lo sbalordimento. Stava davvero rivolgendosi ad Alec come se io non fossi presente? La gelosia doveva essere una cosa tremendamente seria in quest'epoca.
"Certamente. Ma prima, ditemi, avete incontrato lady Mary Campbell?".
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