PER TE, NADINE!

POV ALEC

Lord Geneviev ci raggiunse che ormai era sera. Le sue incombenze lo avevano tenuto lontano dal campo di battaglia per quasi tutta la giornata e gli scontri fortunatamente si erano interrotti, aprendo una piccola e momentanea parantesi tra urla e morte, che indubbiamente giovò allo spirito di entrambi gli schieramenti. 

Il campo dinnanzi a noi riportava i segni evidenti di quanto era accaduto fino al giorno prima: al posto del villaggio sorgevano macerie fumanti, intervallate da alcune case che erano resistite all'attacco dei cavalieri e da alcune mure di cinta fortificate recentemente. Il ruscello tranciava di netto le postazioni dei clan dei Cambpell da quelle del mio clan, mulinando interrottamente in piccoli vortici impetuosi che scendevano a valle, trasportando con sé il sangue di uomini valorosi che avevano perso la vita in modo eroico. Se le loro gesta non sarebbero state scritte in qualche libro di storia, di certo non sarebbero state dimenticate da tutti noi che avevamo combattuto fianco a fianco. Avremo ripagato le mogli o i figli, donando loro terre e abbastanza denari da consentir loro una vita decorosa.

Tutto ciò che era stato compiuto segnava l'inizio di una nuova era, apparentemente favorevole alla causa regale. Soltanto io e lord Geneviev eravamo a conoscenza di quanto sarebbe accaduto nell'immediato futuro e per questa ragione, a differenza degli altri cavalieri, quella sera non ci unimmo ai festeggiamenti. 

"Avete portato a termine i vostri impegni?", lo interrogai, raggiungendolo al limitare del campo.

Lord Geneviev balzò giù da cavallo, affondando i propri stivali nel terreno fangoso. Con una smorfia guardò verso il basso. "Dannata pioggia! Mi ha perseguitato per tutto il viaggio. Sia all'andata che al ritorno".

"Siete stato via a lungo", osservai, guardando la posizione della luna nel cielo plumbeo. Si riusciva a scorgere solo uno spicchio tra le spesse nubi violacee ma mi bastò per capire che eravamo ormai prossimi alla mezzanotte. "Avete incontrato problemi?".

"Parliamone davanti ad un boccale di birra", propose, stremato dalla lunga cavalcata.

"Non c'è tempo. Il nemico si nasconde all'interno di una di quelle case". Gliene indicai alcune che spiccavano nella vale rasa al suolo. "Se li raggiungiamo possiamo eliminarli senza difficoltà".

I suoi occhi si restrinsero, ispezionando l'immensa vallata. "E sia. Avete intenzione di partire immediatamente?".

"Se il vostro fisico vi consente un ultimo sforzo".

Un sorriso goliardico segnò la sua bocca, tesa fino a quel momento per la stanchezza. "Dopo una simile giornata ho proprio bisogno di rilassare i nervi uccidendo qualcuno".

"Mi racconterete mentre cavalcheremo fin laggiù".

Con un fischio chiamai il mio stalliere e in breve lo informai di portarmi il cavallo. Si allontanò tra gli alberi, diretto verso il torrente dove avevamo lasciato gli animali a riprendersi dalle fatiche e ad abbeverarsi, e i suoi passi rimbombarono nel silenzio della notte.

"La situazione non è delle più rosee, mio Signore", attaccò, appena lo stalliere si allontanò a sufficienza.

Mi voltai corrucciato, cercando di interpretare l'espressione sul suo volto. Nonostante la penombra, la preoccupazione era talmente evidente da farmi scattare un campanello d'allarme. "Parlate".

"Vi vogliono morto".

Scrollai le spalle. "Questo lo sapevo già".

"Quello che non sapete è che vogliono servirsi di vostra moglie per uccidervi".

Sentii un ringhio incondizionato salirmi nel petto fino a trasformarsi in un urlo. "Se oseranno toccarla...".

"Non potranno riuscirci. Ma comincio a credere che il vostro piano di affidarla alle cure di Renuar non sia stato poi così avventato. I ricatti di Renuar non potranno mai competere contro l'odio che il Signore dei Campbell nutre nei vostri confronti".

Il rumore di alcuni ramoscelli spezzati ci zittì e contemporaneamente ci voltammo verso un arco di rami, dai quali l'ombra dello stalliere si confuse nella notte mentre procedeva verso di noi.

"Il vostro cavallo, mio Signore. Non ho potuto sellarlo e...".

"Sparite", tuonai.

Lo stalliere retrocesse, inchinandosi frettolosamente in segno di rispetto e in un batter d'occhio si infilò tra i bassi rami, scappando da dove era venuto.

"Non siate troppo duro coi vostri uomini", mi ammonì lord Geneviev, fissando corrucciato il punto in cui la sagoma dello stalliere era appena scomparsa. 

"Dannazione!", imprecai, scalciando un sasso che rotolò contro un tronco lì vicino.

"Arginate la vostra rabbia, mio Signore", cercò di placare la mia ira. Quindi mi lanciò un pugnale e inclinò la testa verso la vallata per incitarmi a sbrigarmi. 

Nascosi il pugnale nello stivale destro e con un balzo montai in groppa allo stallone. La bestia sbuffò, scalpitando sul terreno e si calmò solo quando tirai le redini verso di me e l'incitai a partire al trotto con un movimento degli stinchi.

Bastarono poche falciate per lasciarci alle spalle il fitto manto scuro della foresta e uscire allo scoperto della radura. Con lo scudo proteso verso l'alto indirizzammo gli animali verso alcune pietre calcaree che avrebbero aiutato il buio della notte a mantenere nascosta la nostra presenza. Nascosti la dietro ci fermammo per valutare la direzione più breve e sicura che ci avrebbe condotti agli edifici integri.

"Vi avevo detto di andare a riprendervela", continuò il discorso, modulando la voce ad un sussurro.

Concentrato sulla radura di fronte a me impiegai qualche secondo per far sì che le sue parole avessero presa su di me. Staccai gli occhi dal campo e li posizionai verso i suoi. Mi scrutava preoccupato, quasi incerto se continuare o meno.

"Ma farlo", scrollò le spalle, "mio Signore, farlo equivale a metterla in rischi ben peggiori che lasciarla nelle mani di Renuar. Se la riporterete al castello ve la porteranno via. Prima o poi ci riusciranno".

Tornai a fissare il grande prato, senza in realtà vederlo. La mascella così serrata che a stento riuscivo a respirare. "Le conoscenze che ha appreso nel futuro saranno la sua condanna a morte. Più di un uomo non si farebbe scrupoli a torturarla pur di ottenere informazioni".

"L'avevate previsto e scioccamente avevo giudicato le vostre scelte eccessivamente prudenti. Ora comprendo". Abbassò il tono, mortificato. "Non siete un vile, mio Signore. E se lei lo penserà, lasciateglielo credere".

Mio malgrado sentii nascere un sorriso sulle labbra. Durò il frammento di un secondo, ucciso sul nascere dall'apprensione e dalla sensazione sempre più concreta che nel mio futuro, il volto di mia moglie era destinato a restare confinato nelle mie memorie.

"Darle la famiglia che tanto desidera, stare accanto a lei, sarebbe l'atto più egoistico che potrei mai commettere nei suoi confronti", mormorai al vento.

"Lei ha rinunciato a tutto per amore di voi. Spero che voi, mio Signore, sappiate fare altrettanto".

Era lei il mio tutto. E ci avevo già rinunciato.

Chiusi la mano in pugno e la feci scattare verso la pietra. Alcuni frammenti di roccia si staccarono, rimanendo incastrati tra le mie nocchie insanguinate. 

"E' ora di andare", mi ricordò con pazienza.

Investito dalla gelida consapevolezza che da lì a poco la punta della mia spada si sarebbe strappata l'anima di alcuni cavalieri, spronai il cavallo a proseguire la corsa, direzionandolo lungo il tragitto prestabilito. Sapevo che non sarei morto lì, su quel campo. Ma ciò non bastò a rincuorarmi, poichè il mio cuore aveva cessato di battere ben molto tempo prima.

Lasciammo i cavalli al lato ovest di un edificio intonacato che si affacciava su un cortiletto mal messo e dopo un'occhiata d'intesa discendemmo silenziosamente le scale che portavano ad un sotterraneo.

Il sangue pulsava nelle mie tempie e si riverberava nel petto mentre procedevamo a tastoni, scivolando con le schiene posate contro il muro di uno stretto corridoio. Era freddo, umido e molto stretto, ed era particolarmente difficile procedere rapidamente senza provocare alcun rumore. Se avessimo palesato la nostra presenza troppo presto, le cose sarebbero state molto più difficili. Quando eravamo in minoranza numerica, come in questo caso, preferivo avere dalla mia l'elemento sorpresa.

Svoltammo verso un altro corridoio, disseminato di pietre grezze e con le pareti più umide. Una ragnatela mi sfiorò il volto, incastrandosi tra i capelli che avevo raccolto sulla nuca con un nastro di pelle. Me la tolsi dal volto con uno scatto repentino del braccio e mi voltai di scatto, attirato da un lieve rumore: un topo scorrazzò vicino al mio stivale ma non gli badai più di tanto e ripresi la mia avanzata.

Il corridoio portava verso una porta ricoperta da un arazzo incompleto, macchiato sui bordi e quando infine udimmo alcune voci mi mossi furtivamente lungo il muro sporco, facendo segno a Geneviev di restare fermo immobile. Con un cenno del capo gli indicai un'altra porta massiccia lasciata accostata, forse di proposito, e dalla quale proveniva la luce oscillante di alcune candele.

"Fate attenzione", mi raccomandai. "Siamo a conoscenza della data della mia morte ma non della vostra. Procedete dietro di me".

Appena mi affacciai all'ultimo angolo, stringendo impetuosamente l'elsa della spada, l'ombra di Geneviev si accostò alla mia, facendomi intuire che non sarebbe stato nelle retrovie.

"Uccidiamoli in fretta e portiamo a casa quest'altra vittoria".

Lord Geneviev sollevò la punta della spada e l'accostò alla mia. "A vostra moglie".

Annuii e posizionai la mano sulla maniglia, spingendo cautamente la porta. 

All'interno quattro teste bionde erano chinate su un tavolo intente ad esaminare una mappa e scattarono soprese quando il tacco del mio stivale scricchiolò sulla pietra. 

Li puntai, uno dopo l'altro, nell'esatto ordine in cui erano messi, quindi inspirai, preparandomi alla lotta.

"A te, Nadine", mormorai tra me e me prima di urlare: "A morte i Campbell!".


POV NADINE

Il mare era mosso, vittima di un temporale che dal largo della costa stava riversando la propria furia sulla terra scozzese. Le onde si infrangevano sulle scogliere a picco, levigandole goccia dopo goccia, e lasciando il marchio di un'epoca che aveva assunto le basi su cui scrivere il nostro futuro. Nella propria potenza, urlavano al posto mio un grido di protesta che nulla avrebbe potuto fare per fermare quell'assalto.

Le labbra ruvide di Renuar si uniformarono alle mie, pretendendo una concessione che non sarei mai stata disposta a dargli. Attaccavano il mio orgoglio, mutilando i miei sentimenti che, macchiati dai suoi preconcetti, in qualche modo riuscivano ancora a brillare in quell'esistenza talmente buia che nemmeno un asteroide sarebbe riuscito ad illuminare.

Allo stesso modo in cui la terra non poteva sottrarsi alla furia della natura, io non potevo fermare quell'assalto ormonale che marchiava la mia pelle senza alcun diritto, con il semplice intento di prendere senza dare nulla in cambio.

Per questo restai immobile, concentrata sul rumore dell'oceano, lasciando che la mia mente si staccasse dal corpo per lasciarsi portar via dalla corrente. La lasciai vagare lontana da quella stanza, al riparo dalle labbra bramose di Renuar, alla ricerca di una pace che non mi apparteneva più. Ci riuscii fin quando con la punta della lingua mi stuzzicò il labbro inferiore, spronandolo ad aprirsi per lui e facendo scattare la molla che teneva a bada la rabbia.

Fu solo a quel punto che i tuoni cessarono, ripristinando la calma della notte e creando una bolla di silenzio nel quale la mia mente si tuffò, sgomitando e annaspando nel tentativo di risvegliarmi da quello stato di assoluto shock.

Sollevai entrambe le braccia, posizionandole contro i fianchi di Renuar, e con tutta la forza che avevo in corpo cercai di spingerlo indietro per creare un varco tra i nostri corpi.

"Come osi?", sbraitai, consapevole di avere il fiato corto.

"Oso quello che più mi aggrada", ribatté, per nulla dispiaciuto di ciò che aveva appena fatto. Sembrava compiaciuto, come se quel bacio rubato fosse stato in grado di placare, almeno per il momento, il suo desiderio.

"Non provarci mai più o...".

"... O?", rise. "State davvero cercando di convincermi che non vi è piaciuto? Perchè in tal caso lasciate che...". Le sue labbra si tesero in una smorfia che non riuscii a decifrare e impiegarono una manciata di secondi a schiudersi per riprendere ciò che stava dicendo: "... che io vi...".

Di nuovo le parole vennero sostituite da un ansimo, lievemente più roco di quello precedente. La fronte si corrugò, confusa, mettendo in evidenza alcune gocce di sudore che fino a quel momento non avevo notato.

"Stai bene?", mi sentii dire.

Renuar vacillò indietro, fino a sbattere con la schiena contro lo stipite della porta. "Io non...".

Lo fissai attentamente, cercando di comprendere cosa gli stesse succedendo e di malavoglia mi avvicinai a lui per sentirgli la temperatura. Fu solo quando sollevai la mano per posarla contro la sua fronte madida che lo vidi: il sangue, corposo e denso, scivolava in un macabro percorso tra le linee della mia pelle, fermandosi nelle giunture. 

Strabuzzai gli occhi contro le mie dita e con uno scatto veloce lo spostai contro il fianco sinistro di Renuar. La camicia di lino era macchiata di altro sangue nello stesso punto in cui la mia mano si era posata per respingerlo.

"Renuar", mormorai di sasso, quasi fosse la prima volta che vedevo del sangue in vita mia. "Stai sanguinando".

Sul suo volto pallido, due occhi scuri e lucidi per la paura mi cercarono in una muta richiesta d'aiuto. Quindi annuì lievemente e deglutì, ricacciando in gola un gemito di dolore.

"Ho allontanato un uomo ieri mattina. Vi cercava con testardaggine e con la...", scrollò la testa, stringendo la mascella, "... la stessa testardaggine si è rifiutato di allontanarsi di propria volontà".

In un lampo il dottore che era in me emerse, per nulla ostacolato dal fatto che mi ritrovassi in un'epoca in cui la medicina era ancora una scienza ignota. Mi accucciai al suo fianco e sollevai un lembo di camicia, esaminandone lo squarcio. "Lo hai affrontato? Quando pensavi di dirmelo?".

A quel punto abbassò lo sguardo, scrutandomi dalle folte ciglia. "Siete una donna. Non dovreste venire a conoscenza di certe argomentazioni".

Sbuffai e avvicinai il volto alla ferita. Lo squarcio gli attraversava il fianco, aprendosi di un paio di centimetri lungo le vertebre. "Lo hai fatto disinfettare?".

"Temo che dovrete usare termini diversi se volete che vi risponda".

"Pulito. Lo hai pulito?".

"Ci ho messo dell'acqua", rispose ovvio.

"Acqua?", lo sgridai, pronta a cantargliene quattro.

Ma le mie parole rimasero incastrate in gola, uccise da un ricordo vago cui non sapevo dare una collocazione ma che mi gettò in uno stato di dejavù:

La stanza era simile, stessi odori, stessa luce delle candele, ma il luogo era diverso. Era un castello o almeno sembrava esserlo per vie delle dimensioni. Davanti a me Alec mi fissava scettico e innervosito.

"Ora parla chiaro, moglie. Cosa stai cercando di dirmi con le tue futili e fastidiose parole? Mi hai fatto venire il mal di testa a furia di blaterare".

"Cercherò di essere breve".

"Grazie a Dio".

"Tu però cerca di ascoltare senza interrompermi. Quello che devo dirti ti lascerà sorpreso ma è la verità".

Inarcò un sopracciglio. "Avevi detto che saresti stata breve".

"Le ferite al costato se non sono disinfettate...".

"Disinfettate?", mi interruppe, senza capire il termine.

"Ti ho chiesto di non interrompermi", mi spazientii.

"Ed io di essere breve. Tu non hai fatto ciò che ti ho chiesto, di conseguenza io non sono intenzionato a fare ciò che mi hai chiesto tu".

"Cosa hai messo su quella ferita?", chiesi, indicandola.

"Acqua e sapone. E' ben pulita".

"E' infetta. Se non la disinfetti andrà in setticemia".

Il suo sopracciglio non accennò ad abbassarsi. "Come sai queste cose?".

"Le ho studiate". 

Il suo sguardo scattò nuovamente contro di me. "Da chi? Chi ti ha messo queste assurdità in testa?".

"Non capiresti".

"Non credo che capire sia nelle priorità delle mie cose. Voglio tuttavia che mi spieghi come mai ti intendi di ferite".

"La medicina mi ha da sempre appassionata. Fin da bambina".

"Non è la risposta che cercavo".

"Lo so. Ma è l'unica che ti darò".

"Chi sei, donna?". Il sospetto gli riempiva lo sguardo e gettava me nel panico.

"Sono un dottore"...

"Sono un dottore", ripetei la stessa frase che avevo appena sentito in quel ricordo inaspettato, sollevando lo sguardo verso gli occhi ormai vitrei di Renuar. "Lo hai dimenticato? Avresti dovuto farti medicare prima invece di attendere che si infettasse".

"Mmm", mugugnò di dolore, posizionando le mani sopra le mie spalle per sorreggersi. "Resterei ad ascoltarvi tutto il giorno, Nadine Low, ma temo dovrete rimandare le vostre invettive a quando mi risvegl...".

"Oh Dio, non osare svenirmi addosso!", scattai in piedi, vedendolo barcollare.

"... mi risveglierò", terminò a fatica, mangiandosi l'ultima sillaba.

Con prontezza gli infilai le braccia sotto le ascelle nel momento stesso in cui il suo capo si piegò in avanti e gli occhi ruotarono, scomparendo dietro le palpebre ormai ridotte in due minuscole fessure.

"Merda!", imprecai fuori di me.

Piantai i piedi a terra e contrassi i muscoli dello stomaco nel fare leva contro la sua massa muscolosa ormai completamente inanimata che stava scivolando inesorabile contro di me.

"Stuart!", urlai. "Clark! Correte qui! E porca miseria, Renuar, non potevi aspettare di stenderti su quel maledettissimo letto prima di svenire?".



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