NON SONO UN VILE
POV ALEC
Quando avevo sedici anni mio padre mi aveva convocato nel proprio studio per parlarmi da uomo a uomo. Era stata la nostra prima vera chiacchierata su argomenti che prima di quel giorno, per tacito accordo, non erano mai stati affrontati.
Ero giovane, fin troppo per una simile chiacchierata, tuttavia aspettavo quell'incontro da giorni, esattamente da quando mi ero portato in camera da letto la figlia del nostro vicino, macchiando la sua reputazione. Non era successo nulla che potesse mettere in pericolo la sua verginità, poiché non ero così idiota da crearmi una situazione che mi avrebbe compromesso e obbligato a richiedere in moglie una donna di facili costumi.
Ma mio padre, come previsto, si era sentito in obbligo di farmi un discorsetto punitivo dopo aver ripagato l'offesa subìta al nostro vicino, offrendogli un'ingente somma di denaro. Abbastanza ingente da consentire a lui e alla sua famiglia di trasferirsi in una nuova città e ricominciare una vita dove la gente non avrebbe mai saputo cosa avesse fatto la figlia.
Se chiudevo gli occhi potevo ancora raffigurarmelo mentre giaceva sostenuto da soffici cuscini in un divano coperto di velluto verde, con pesanti cortine di seta e una testiera in ottone ornata dal suo stemma. Per raggiungere il divano era necessario salire due gradini e da lì si aveva una visuale più ampia del resto dello studio. La luce delle candele si rifletteva sui pavimenti di pietra, le pareti erano rivestite di opere pittoriche dei migliori artisti scozzesi; alcuni di quei dipinti erano enormi e tutti erano incorniciati da solido oro.
E fu lì, esattamente sopra quei due gradini che avevo imparato la lezione e avevo promesso a mio padre di congiungermi solo con donne di un ceto inferiore al nostro poiché la loro verginità perdeva conseguentemente di valore.
E così avevo fatto.
Mi ero portato a letto un numero piuttosto numeroso di contadine e di puttane, facendo particolare attenzione a non gravidarle, e avevo concesso a lord McFaith - il mio migliore amico più vecchio di me di qualche anno - di spiegarmi ogni trucco per aumentare il piacere di una femmina.
A quell'epoca, ben quasi quindici anni prima, immaginavo che all'età di trent'anni il sesso sarebbe passato in secondo piano. Immaginavo che sarei diventato un uomo maturo e responsabile, con un paio di marmocchi da mantenere e crescere e con amici con cui parlare di argomentazioni politiche e socialmente utili. Mi immaginavo un uomo adulto e stanco, che non avrebbe parlato solo di donne e sesso ma che avrebbe discusso di politica, scienze e perché no? Anche di problemi coniugali.
Mi immaginavo serio.
Quasi quindici anni dopo tutte le mie immaginazioni erano svanite come una bolla di sapone, divenendo realtà. E la realtà era che, nonostante mi fossi guadagnato sul campo di battaglia il titolo di Signore delle terre degli O'Braam, nonostante mi fossi trovato una moglie e l'avessi messa incinta di mio figlio, mi ritrovavo ancora con i miei amici e fidati guerrieri a parlare... di sesso e di donne.
"E' rincuorante farsi fare un pompino prima di una battaglia", sospirò appagato lord Geneviev. "Peccato che mentre le stavo riversando addosso il mio seme lei abbia cominciato a urlare di amarmi".
Ecco, appunto! Mi immaginavo serio. Per la precisione... mi immaginavo!
Lo guardai divertito, fingendo un'espressione inorridita appena pronunciò la parola amore, rincuorato e allo stesso tempo preoccupato che col passare degli anni noi uomini fossimo rimasti sempre uguali.
"Chi era la fortunata?".
"Mah", scrollò le spalle indifferente. "Non ricordo il nome. Ricordo solo che aveva un seno così prosperoso che ad ogni movimento le dondolava in un modo ipnotizzante".
"Il nome non ha importanza", confermai.
"Già", sghignazzò, lanciandomi un'occhiata d'intesa. "Muoveva la lingua proprio come piace a me".
"Per tutta l'asta?", indagai, senza riuscire a trattenere una risata.
"E anche sullo scroto", scese nei dettagli, soddisfatto.
Fischiai, ammirato. "Ce ne sono poche a saper lavorare così bene la nostra verga. Sei stato fortunato".
Lord Geneviev mi rifilò un'occhiata leggermente più seria. "Se potessimo rimandare la battaglia per qualche minuto, potrei passarti quella femmina. Se non ho capito male lavora alla taverna".
Sollevai la testa, fissando la piccola casa in legno dove avevamo trascorso la notte. Alcuni clienti, sfiniti dall'alcool, si erano addormentati sulle panche poste di fronte all'ingresso. Altri si stavano trascinando verso i propri cavalli per tornare probabilmente dalle mogli. Non li invidiavo. Sapevo con certezza che appena avrebbero varcato la soglia di casa, le proprie consorti avrebbero fatto loro una lunga lavata di capo. Tutto sommato andava meglio a me. Era molto meno estenuante affrontare il nemico in campo di battaglia piuttosto che sopportare il piagnistei e le proteste di una moglie. Ne sapevo qualcosa io che avevo convissuto per alcuni mesi con quel virago di Nadine. Alcuni servitori parlavano ancora della sua predisposizione a sfasciarmi lo studio in seguito alle nostre discussioni. Mai nessuna donna aveva mostrato un simile coraggio da arrivare persino a lanciarmi addosso degli oggetti contundenti. E Dio! Dio se mi era piaciuto.
"Naaa, credo ne farò a meno", rifiutai l'offerta, tornando a fissare il mio esercito.
Alcuni uomini stavano radunando le armi, altri facevano colazione con alcuni boccali di birra che si passavano l'un con l'altro.
"Ne siete sicuro?".
Davanti agli occhi mi passò l'immagine di Nadine mentre puntava un attizzatoio incandescente contro la mia gola, oltraggiata dal fatto che avessi riversato il mio seme dentro di lei. Ignoravo ancora il motivo per cui un simile gesto da parte mia avesse potuto minare il suo autocontrollo. Mi ero risposto semplicemente che quella donna volesse avere libertà di pensiero e di decisione sul proprio corpo, ben consapevole che comunque apparteneva a me. Era sciocco e al contempo ammirevole. Sciocco perchè non aveva alcuna logica la sua reminiscenza a volersi far ingravidare dal proprio marito. Ammirevole perchè, nonostante fosse la metà di me, non si era mai lasciata intimorire nel far valere le proprie opinioni. Per quanto insulse e sbagliate fossero!
"Ho già una donna che provvede al mio piacere", ribadii, percependo una fitta al petto. Dio, quanto mi mancava.
"E chi è?", chiese, senza nascondere la propria curiosità.
"Mia moglie".
Geneviev tirò le redini del proprio cavallo per tenerlo fermo e fece un cenno ad alcuni cavalieri di sbrigarsi. Era arrogante, così pieno di se che alle volte precedeva i miei ordini, dimenticandosi che il Signore fossi io. Faceva le mie veci senza che io glielo avessi chiesto esplicitamente, e questo solo perchè, a differenza di Renuar, non aveva tradito i miei ordini nella breve settimana in cui ero mancato sul campo. Non mi infastidiva il suo carattere, poichè meritava un trattamento speciale, e nemmeno mi sentivo di giudicarlo in quanto eravamo più simili di quanto potesse sembrare. Malgrado non fossimo cresciuti insieme, avevamo subìto i rimproveri degli stessi precettori, eravamo stati sottomessi agli stessi esercizi fisici e avevamo combattuto gli stessi nemici. Eravamo come fratelli. Mi fidavo di lui allo stesso identico modo in cui mi ero fidato di lord Renuar, prima che il suo cuore venisse preso in ostaggio dalla bellezza di mia moglie e prima che il suo cervello si fosse lasciato soggiogare dalle sue conoscenze storiche. Aveva calpestato la mia fiducia e ben consapevole dell'errore fatto, stava cercando di rimediare offrendo protezione a mia moglie. Ma lo stava facendo in un modo che a stento tolleravo, prendendosi delle libertà al limite della decenza.
Ripensai al suo ultimatum e alla lettera che mi ero ritrovato obbligato ad inviare a lady Clark. Ah, se solo i miei timori non mi avessero reso cosi cieco. Dare per scontato che Renuar avrebbe appoggiato il mio ordine senza pretendere nulla in cambio era stata l'ennesima dimostrazione che il mio istinto di protezione verso mia moglie mi aveva offuscato la ragione. Nessun uomo al suo posto, nonostante la fedeltà che lo legava a me, avrebbe accettato di buon grado di essere spedito in una landa desolata, con l'assoluta proibizione di essere parte attiva a questa guerra per fare da balìa a una donna che non sarebbe mai stata sua.
Quello che urtava i miei nervi di fatto non era di per sé il ricatto di Renuar ma il limite di tempo in cui avrei dovuto agire. Con prontezza di spirito avevo quindi usato una tecnica militare che di solito si usa per far fare qualcosa a qualcuno, chiedendogli di non farlo. In altre parole consisteva nel fare il gioco degli altri mentre, in realtà, facevo il mio. Per questo mi ero ritrovato a scrivere quella dannata lettera. Ricordavo benissimo che quella cuoca non sapeva leggere ed era fin troppo scontato che avrebbe chiesto aiuto a Nadine. A quel punto, leggendo quelle parole, conoscendola avrebbe fatto di tutto pur di disobbedirmi. Anche mettere a tacere un suo possibile desiderio verso Renuar. Pur di farmi un dispetto, dopo le mie parole avrebbe rinunciato ai piaceri della carne per tutta la vita e non si sarebbe mai concessa a lui. Quella lettera, per quanto mi avesse ferito scriverla, rappresentava la miglior garanzia per ottenere fedeltà da parte di mia moglie. Mia moglie odiava troppo sentirsi dire cosa doveva fare....
E fortunatamente Renuar non conosceva questo aspetto del carattere di Nadine. Come avevo dato per scontato che Nadine avrebbe aiutato nella lettura lady Clark, allo stesso modo avevo dato per certo che Renuar avrebbe sbirciato la lettera prima che questa venisse consegnata alla cuoca.
Il piano era ingegnoso quanto sicuro: Renuar avrebbe gongolato nella convinzione che io mi stavo dando da fare per ripagarlo del suo aiuto. Nadine invece avrebbe rifiutato Renuar con ancor maggior convinzione.
"Devo riportare alla luce il fatto che l'avete rinnegata o lo rammentate da solo?", parlò Geneviev, dopo che il mio cavallo si affiancò al suo.
Strinsi i denti. "Sapete perché l'ho fatto".
"Quello che so, O'Braam, è che avete lasciato vostra moglie tra le mani di lord Renuar".
"Dannazione, usate gli occhi per capire che non avevo alternative. Riportarla con me equivaleva attirare l'attenzione del clan dei Campbell. Sanno che è viva. L'unica cosa che la separa da una morte certa è che nessuno sa dove la tengo nascosta".
Il mio stallone si impennò, spaventato dal tono di voce aspro e dovetti faticare qualche secondo per tranquillizzarlo.
"Ebbene, credete che questa scelta vi renda onorevole agli occhi di vostra moglie?".
"Prima o poi comprenderà", mi limitai a rispondere a denti stretti.
"E come credete che potrà riuscirci?". Geneviev allungò un braccio per afferrare una redine del mio stallone quando feci per superarlo. "Viene dal futuro, lo avete dimenticato? Ed è una femmina. Cosa volete che ne sappia di strategie militari? Penserà che l'abbiate abbandonata nel momento del bisogno, lasciandola ad un altro uomo".
"Lasciate la mia redine", intimai, furioso.
Ma lui mi ignorò. "Penserà a voi come ad un vile, incapace di proteggerla".
Con uno strattone lo obbligai a lasciare la presa. "E cosa mi consigliate di fare? Dovrei tornare indietro e riprendermela?".
"State chiedendo un consiglio che non so darvi, mio Signore. Malgrado giudichi le vostre scelte piuttosto audaci, riconosco che le alternative a vostra disposizione erano ben poche. Ma se fosse mia moglie non esiterei ad andare a riprendermela. Ammesso che lei mi accetti ancora".
Lo osservai mezzo indignato, mezzo divertito. "Come è evidente che non conoscete mia moglie".
"E' così terribile?".
Ripensai all'attizzatoio e sorrisi. "Fidatemi di me se vi dico che, conoscendo di che pasta è fatta, in questo preciso istante starà certamente architettando una vendetta nei miei confronti da indurmi a strisciare ai suoi piedi per riprendermela". Sollevai la testa verso il cielo, attirato dallo sbatter d'ali di alcuni corvi. "Sapete il detto che l'uomo è la testa mentre la donna è il collo che decide da quale lato far guardare un uomo?".
Ruotò gli occhi. "Mai sentito niente di così inveritiero".
Lo contraddissi con un mezzo sorriso. "Non dimenticate mai che le femmine sono esseri astuti. Sono permalose, lunatiche ed isteriche. Ma prima di ogni cosa sono furbe. E la mia femmina lo è più di altre. Mi farà credere di aver giaciuto con lord Renuar per stimolare la mia gelosia. E farà credere a lui di amarlo, per ottenere favori e privilegi. Non sottovalutate mai le femmine", ribadii.
"Credete davvero che il suo cervello possa scaturire un piano così astuto?", mi fissò scettico.
Scoppiai a ridere nel vedere la sua espressione. "Vi dico solo che in più di un'occasione ho temuto mia moglie ancor più del nemico sul campo".
"Allora siete un uomo finito", mi gridò dietro appena partii in quarta per raggiungere l'esercito ormai pronto per la partenza.
"Lo sono dal giorno del mio matrimonio. E quella vipera lo sarà il giorno in cui mi guarderà negli occhi, fingendo di aver dato mio figlio a Renuar".
"E come fate a sapere che lo farà?", la sua voce divertita si disperse tra la radura, dietro le mie spalle.
Fermai il cavallo e mi voltai verso di lui, trattenendo un sorriso compiaciuto. "Perchè sono stato io a insegnarle come difendere la propria famiglia".
Subito dopo ripartii al trotto, fendendo l'aria gelida del mattino col mio urlo di battaglia e attirando l'attenzione dei cavalieri. Ormai giunti alle porte dell'inverno, nel giorno del 23 ottobre, eravamo pronti per affrontare la prima battaglia decisiva a Edgehill. Verso nord, in lontananza, potevo già scorgere i fuochi dell'accampamento avversario. Per tutto il giorno precedente i messaggeri delle due parti erano corsi avanti e indietro attraversando le linee, e si era giunti a una decisione conclusiva. Chi avrebbe vinto la battaglia avrebbe ottenuto il controllo del fronte. Sapevo che se non fossi riuscito a conservare intatto il regno, avrei perso il prestigio e le fazioni opposte si sarebbero divise e frammentate; ovunque nel paese si sarebbero diffusi malcontento e dissensi. E i clan dei Campbell avrebbero ingrandito a dismisura il desiderio di essere guidati da un Parlamento.
Tutto dipendeva dall'indomani. Dopo sarei potuto tornare alle mie terre.
Il suono delle trombe si alzò al cielo, dando inizio alla cavalcata e sentii il vento gelido sferzarmi il viso, mentre un fuoco si accendeva dentro di me.
Come agognavo tornare! Assurdamente non vedevo l'ora di cadere nella trappola di Nadine. Perchè c'era un'altra cosa che mio padre, quindici anni prima mi aveva insegnato: quando una donna dice di odiarti, significa che ti ama più di sé stessa!
POV NADINE
Restai con la mano ferma sulla maniglia, in bilico tra il coraggio di entrare e il desiderio di fuggire. Aldilà di quella porta massiccia c'era Renuar e a giudicare dal rumore dei suoi passi sembrava tutt'altro che tranquillo. Nel momento esatto in cui avevo provato ad interrogarmi su quale arcaica norma comportamentale del XVII avessi infranto, la mia mente aveva divagato, scegliendo come mèta il ricordo di un giorno che avevo vissuto nel futuro, e che lì avevo lasciato.
Sapevo che a far bene avrei dovuto staccarmi e cancellare dalla testa ogni ricordo legato al XXI secolo, eppure era impossibile ignorare la mia vecchia vita, considerando anche che faceva a pugni con quella che ero costretta a vivere in quest'epoca. Non si trattava solo di un fatto puramente futile e legato alle comodità a cui avevo dovuto dire addio, come il telefono, il tablet, un bagno pulito e disinfettato o una banalissima aspirina. Quello che davvero teneva separate le due epoche erano le persone e le loro visioni del mondo.
Ero giunta alla conclusione che sarebbe stato impossibile cambiare testa a tutti quanti, perciò mio malgrado ero scesa all'ignobile compromesso di modificare la mia. Per quanto possibile! E sarebbe stato più facile se per insegnante non avessi avuto un uomo come Renuar. La sua tolleranza nei miei confronti era pari a zero; non ammetteva il minimo sbaglio ben consapevole che non potessi essere a conoscenza di tutte le leggi legate alle donne che avrei dovuto eseguire alla lettera.
Per questo ora, ritrovandomi a pochi metri da lui, il mio coraggio vacillava tra la certezza che una volta entrata la sua ira sarebbe esplosa e tra la limitata speranza che il motivo per cui mi aveva chiamata era legato ad Alec.
Bussai piano e restai in attesa.
"Avanti", tuonò da dietro la porta.
Il mio cuore perse un battito e mi ritrovai a chiudere gli occhi mentre il mio cervello ordinava alla mano di abbassare la maniglia.
"Mi volevi parlare?", esordii, avendo l'accortezza di lasciare la porta spalancata.
Non c'era alcuna speranza che lord Stuart potesse intervenire in un nostro eventuale litigio ma confidavo nella promessa di lady Clark. Se l'avesse mantenuta, tra qualche minuto sarebbe venuta a controllare.
"Avvicinatevi", ordinò, serio.
Involontariamente controllai alle mie spalle per accertarmi che non ci fosse nessuno.
"Dicevo a voi, Nadine", ridacchiò. "Quando vi abituerete al voi?".
Sorrisi di rimando, incoraggiata dal suo buon umore. Per lo meno non sembrava sul punto di saltarmi addosso. "Credo mai. Sarebbe molto più semplice se mi dessi del tu".
Il sorriso aumentò. "Lo farò".
"Davvero?", mi sorpresi.
"Quando dividerete il letto con me", precisò più serio. "Non prima".
"Grandioso", borbottai. Quindi sollevai il mento in un inutile tentativo di mascherare la paura. "Perchè sono qua?".
Indicò una sedia posta di fronte alla sua e accavallò le gambe. "Sedetevi".
I miei occhi scattarono da lui alla sedia. Poi verso la porta. E di nuovo verso la sedia.
"Non abbiate paura di me", ridacchiò, dando un calcetto alla sedia con la punta della scarpa. "Non ho mai morso una fanciulla".
Restai immobile. "Però l'hai percossa".
Il suo sguardo si adombrò. "Chi vi ha detto una cosa simile?".
"Nessuno", risposi in fretta. "Ma...". Incapace di terminare la frase allungai il braccio, scoprendo il polso su cui le sue dita avevano lasciato l'ultimo marchio.
Renuar si sporse in avanti, posando le braccia sopra le ginocchia per vedere più da vicino i segni violacei. Infine fece scattare gli occhi seri contro i miei. "State forse giudicando i miei metodi troppo brutali?".
Lo fissai a lungo, ritraendo il braccio. Ero così terrorizzata da lui che temevo di poter nutrire la sua collera limitandomi ad aprire bocca. Il suo carattere imprevedibile oscillava tra la rabbia all'ilarità in un altalenante susseguirsi di espressioni facciali. Rincorrerle e tradurle era impossibile. E ancor di più era difficile prevedere quali sarebbero state le sue reazioni.
"Vi ho detto di sedervi", si spazientì.
Col cuore in tumulto avanzai lentamente, prendendo posto sopra il soffice velluto cremisi. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Non volevo perderlo di vista.
La camicia bianca gli aderiva al torace mettendo in evidenza ogni muscolo e rivelando una robustezza che in precedenza non avevo mai notato. Quell'uomo era troppo alto, troppo snello e scattante, troppo maledettamente virile e troppo pericoloso.
All'improvviso tese la mano e mi sollevò dalla spalla una ciocca di capelli, avvolgendola intorno al dito. Mi irrigidii e mi ritrassi ma lui mi attirò più vicino con una pressione lieve ma costante, finché cedetti e vacillai col busto in avanti, ritrovandomi con la bocca pericolosamente vicino alla sua.
"Non vi ho picchiata", alitò contro le mie labbra. "Ma so di un uomo che lo ha fatto".
Corrugai la fronte, incerta, e a quel punto il suo dito scattò indietro, lasciandomi liberi i capelli. Incrociò le braccia al petto e scrutò attentamente i miei occhi, sfidandomi con la sua solita aria minacciosa a contraddirlo.
"So che vi siete incontrata con Alec O'Braam".
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