GUERRA E PACE
POV NADINE
Con la schiena posata contro lo stipite della porta fissai l'andirivieni continuo delle donne che, a differenza degli uomini, avevano il compito di lavare il corpo del defunto, cospargendolo di essenze che impregnavano ogni angolo del secondo piano del castello.
Al piano di sotto, le voci soffuse degli uomini non si erano interrotte un solo secondo, accompagnando il tintinnio di calici che sbattevano l'uno contro l'altro o sopra le assi delle tavolate. Anche se non riuscivo a comprendere ciò che si stavano dicendo, sapevo che da quando io e Alec avevamo fatto ritorno al castello i discorsi principali si annodavano a ciò che avevamo affrontato nelle ultime quarantotto ore.
Una donna mi passò accanto e si inginocchiò a un lato del letto per abbassare le palpebre di Renuar e infilare tra le sua labbra un piccolo obolo.
"Cosa gli stanno facendo?", mi informai, bloccando Clark quando mi passò accanto con una bacinella d'acqua fumante.
Lei fissò un momento la donna china sul letto e scrollò la testa. "Mi sorprende che non conosciate questo rito".
"Per mia fortuna non ho mai assistito ad un funerale".
Mi fissò stralunata ma evitò di rivolgermi domande. D'altra parte non era né il luogo né il momento adatto. "L'obolo è un pagamento del passaggio sulla barca di Caronte".
Annuii e l'osservai in silenzio mentre svoltava dietro l'angolo del corridoio che si congiungeva alle scale. Quindi tornai a fatica ad osservare davanti a me. Tre donne stavano avvolgendo il corpo in un sudario, posizionandolo poi in modo che i suoi piedi fossero rivolti verso la porta.
"Venite", una di loro mi battè sul braccio, facendomi quasi trasalire. "Il funerale deve avere luogo prima dell'alba e siamo già in ritardo".
La seguii fuori dalla stanza completamente frastornata e scendemmo al piano di sotto, accolte dagli sguardi degli uomini. Numerose caraffe di vino erano state disposte lungo le tavolate e alcuni bicchieri giacevano vuoti sul pavimento accanto a rimasugli di cibo che i cani stavano lappando.
Aldilà della porta d'ingresso sentimmo l'annuncio urlato dai gridatori dei morti a cavallo che diede l'inizio alla processione. Alec, accompagnato da Geneviev e Robert, sparì per un momento, tornando dopo qualche minuto trasportando una rudimentale lettiga bianca su cui era stato posizionato il corpo di Renuar.
Mi scostai, ritraendomi nell'angolo della sala quando mi passarono accanto, fermandosi poi davanti alla porta. Nel momento stesso in cui venne spalancata, oltre le loro spalle scorsi un numero enorme di persone che formavano il corteo.
Sollevai l'orlo della gonna nera e mi affrettai a raggiungerli. Passando sotto una corona di mirto e alloro mi fermai accanto ad un vaso colmo d'acqua, posto lì in occasione del funerale per permettere ai visitatori di purificarsi nel momento in cui sarebbero usciti dal castello. Intinsi le dita delle mani e le strofinai sul corpetto.
"Uomini e donne devono fare il viaggio separato", mi spiegò Stuart, consapevole che non potevo essere a conoscenza delle loro usanze.
Mi scostai ancora, lasciando che gli ultimi cavalieri mi superassero ed attesi il gruppo di donne rimaste in disparte. La processione con bandiere e cavalli bardati scattò in avanti al suono di alcuni flauti, districandosi tra le strette vie del villaggio che conducevano alla piccola chiesetta arroccata sulla scogliera. Era la stessa chiesetta bianca in cui il mio corpo era stato conservato in una teca. La stessa che nel futuro avevo sognato per notti intere. La stessa identica chiesetta che aveva dato inizio a tutto.
Solo una donna, vestita di nero e col volto coperto da un velo del medesimo colore, restò in cima alla processione, stabilendo la velocità della camminata. Portava un vaso per le libagioni e strisciava le gambe a fatica, urlando litanie in latino che non riuscii a tradurre. Le sue urla erano agghiaccianti, roche, echeggiavano tra le mura delle case. E non cessarono nemmeno quando giungemmo al piccolo cimitero recintato che si affacciava sull'oceano.
Al segnale del prete, retto sopra una piccola pedana in modo tale che anche le persone in ultima fila potessero vederlo, Alec e gli altri tre cavalieri depositarono il corpo di Renuar dentro una bara di legno grezzo. La funzione iniziò. Le parole si dispersero nell'aria e accompagnarono ogni singola persona che si staccava dalla massa per avvicinarsi alla bara ancora aperta e per posizionare all'interno degli oggetti appartenuti al defunto. Riconobbi alcuni gioielli, strumenti usati nei campi e diverse armi che gli avevo visto usare durante gli allenamenti.
Con il mio ramoscello di pino mi feci strada tra la massa di schiene e mi fermai a pochi passi da Alec.
"Ciao", sussurrai.
Il suo volto restò immobile, solo gli occhi si mossero lievemente a destra, verso di me. Erano lucidi, spenti, privi di quella luce ironica che spesso li caratterizzava.
"Dovresti restare accanto alle donne", mi sgridò, ma non vi era traccia di rabbia nel tono.
"Io voglio stare accanto a te", protestai, senza muovermi di un passo.
Alcuni cavalieri mi guardarono incuriositi ma distolsero lo sguardo quasi subito.
Allungai la mano e con la punta delle dita cercai la sua. La trovai quasi subito. "Eri in collera con lui?".
"Non più. Le sue gesta erano dettate dall'amore verso il nostro popolo e verso di...", si bloccò, contorcendo la mascella.
Decisi di aiutarlo. "E dettate dall'amore verso di me?".
Annuì e le nostre mani si ricercarono con più forza.
"L'hai mai perdonato?", indagai.
"Lo sto facendo adesso". Una lacrima rimase impigliata nelle sue ciglia e col dorso della mano si asciugò la punta del naso. "Tu l'hai fatto? L'hai perdonato?".
"L'ho fatto già da settimane. Lo accusavo per i suoi metodi, ignorando il fatto che questi erano dettati dalla sua mentalità. Pretendevo che si comportasse come un uomo della mia epoca e non tolleravo quando non ci riusciva. Perciò...", fissai la bara, e ancora più dentro, dove le palpebre di Renuar nascondevano il suo sguardo morto, "ho perdonato lui prima ancora di perdonare me stessa".
La voce del prete strisciò tra di noi, incomprensibile nel suo latino, e un coro di voci si sollevò in risposta. Ne approfittai per riprendere il discorso. Strinsi la mano tra quella di Alec per richiamare la sua attenzione e con un cenno della testa mi indicò di proseguire.
"So che non riesci a perdonarti di non averlo salvato. Ma sai che non è colpa tua".
Annuì e sospirò contemporaneamente. "Ho ucciso Mary Campbell. Non vi è riscatto migliore per la morte di uno dei miei uomini migliori".
Il cuore martellò alla bocca dello stomaco, facendomi risalire un fiotto di bile che cercai di contrastare con qualche colpetto di tosse.
"So che nel futuro era una tua amica", aggiunge comprensivo, accorgendosi di quanto mi avesse sconvolta la morte di Mary. "Ma era solo un sogno della tua mente. Cancella i ricordi che hai di lei perchè erano falsi".
"Lo farò". Con la punta della scarpa tracciai un solco nella ghiaia, attendendo che la voce del prete si levasse alta per non farmi sentire dalle persone accanto a me. "Cosa accadrà ora?".
"Verrà pronunciato un elogio, dopodiché si terrà un lungo pranzo e dei giochi".
"Intendevo...", deglutii, già nel panico. Temevo la risposta ma non riuscivo a trattenermi dal fare domande. "Cosa farai tu?".
Esitò. Ma fu solo un istante. "Alla fine del funerale ripartirò per la guerra".
"Immediatamente?", boccheggiai.
La sua risposta venne coperta dal vociare delle persone e si disperse tra le varie schiene che si erano voltate per allontanarsi dal cimitero. Il rito era terminato, veloce come la vita di Renuar. Immobilizzai lo sguardo sul suo corpo disposto nella bara, incapace di lasciarlo andare. Lo tenni stretto nel mio cuore il più a lungo possibile. Renuar. Lord Renuar. Cavaliere di queste terre, giovane promessa della legione degli O'Braam, amante, impavido. Testardo. Lo tenni stretto finché alcuni uomini circondarono Alec per porgergli le loro condoglianze ed io venni trascinata via dalle donne, sospinta a forza verso la signora che aveva aperto il corteo. Le sue urla si erano affievolite ma a giudicare dal modo in cui le spalle tremavano era stravolta dai singhiozzi.
Mi avvicinai esitante, copiando i gesti delle altre donne, e le porsi il mio ramoscello di pino.
"Le mie condoglianze", pronunciai lentamente, tenendo a bada le lacrime.
Il suo volto si sollevò, nascosto dal velo nero. "Voi! Siete Nadine Low?".
Annuii, accarezzandole il dorso della mano. La donna mi imprigionò le dita tra le sue e le tenne strette per qualche istante prima di lasciarle andare.
"Ho sentito molto parlare di voi, mia Signora", raccontò. Si asciugò il naso infilando un fazzoletto sotto il velo. "Eravate la fiamma".
Corrugai la fronte, senza capire.
"Una scintilla di fuoco che faceva battere il suo cuore ormai spento dagli orrori della guerra", continuò in un basso sussurro. "Siete il fuoco che accompagnerà la sua anima per sempre, facendola brillare negli abissi della morte".
Quindi tacque e si voltò verso altre due donne, congedandomi.
"Chi siete voi?", chiesi allora, ricatturando il suo sguardo per una manciata di secondi.
Un singhiozzo precedette le sue parole. "Sono la sua mamma".
Strinsi le labbra e tirai su col naso, ma appena feci per aggiungere qualcosa di scontato sentii sulle spalle la pressione delle mani di Alec e mi lasciai condurre lontano, verso le tavole disposte l'una accanto all'altra ai piedi della vallata. Dedussi che era il luogo in cui sarebbe avvenuto il banchetto ma non avevo alcuna voglia di mangiare. Il mio stomaco era chiuso, attanagliato dal dolore e dai sensi di colpa. Ora sapevo perché il nome di Renuar non appariva nei libri di storia dedicate alle battaglie a venire.
La gente si serviva, versandosi vino a vicenda, parlando ad alta voce, porgendosi vassoi pieni di carne secca e pane. Di tanto in tanto qualcuno si avvicinava a noi, rivolgeva alcune parole ad Alec e poi si allontanava.
Le pacche sulle spalle erano tante, le parole di sofferenza ancor di più.
Gli sguardi spenti riportavano alla mente le gesta eroiche che Renuar aveva commesso.
Le lacrime non versate segnavano l'inizio di una leggendaria storia di cavalieri che sarebbe stata tramandata e poi trascritta. Le gesta di Alec, Renuar, Geneviev e Robert. Le quattro forze più eroiche e impavide della Scozia del Nord. Destinate a non essere dimenticate.
"Devo lasciarti", mormorò Alec verso la fine del banchetto, fissando un punto lontano nella collina. "Non vorrei farlo ma la guerra non conosce pause né il dolore di una perdita".
"Lo so", soffiai in un singhiozzo. Non ero pronta. Non lo ero affatto.
"Lascerò il mio cuore qui con te", borbottò, quasi in imbarazzo.
E poi, così, all'improvviso si spezzò il mio. Contrassi il volto in una smorfia e smisi di controllarmi. Il dolore mi sopraffece e mi lacerò ogni cosa che ancora restava legata alla vita, mi trascinò a fondo, dilagando in ogni parte dentro di me. Non riuscivo a sopportarlo. Era intollerabile.
"Guadami, Nadine".
Sollevai lo sguardo, convinta di trovare il suo, ma stava ancora fissando un punto lontano, perso dietro a chissà quali ricordi.
"Non essere arrabbiata con me. Lasciarti non è mai stata solo e unicamente una mia scelta. Anche se non puoi comprendere, accogli questa mia ammissione".
Mi sollevai sulle punte dei piedi e lo baciai. Tenni le labbra accostate alle sue finché i nostri respiri si confusero, intrecciando nei nostri corpi un amore che aveva rischiato troppe volte di perdersi nel tempo, spezzato dall'odio degli uomini e dal beffardo destino che si accaniva sulle nostre vite, giocando con noi come se fossimo stati i suoi burattini.
"Quanto durerà questa guerra?", parlò contro le mie labbra prima di retrocedere di un passo.
Ripescai a fatica alcune date nella mia memoria. I nomi delle battaglie, le vittorie momentanee, i luoghi degli scontri. "Questa battaglia cesserà tra circa tre anni".
Impiegò un po' ad incassare il colpo. Il suo petto si gonfiò e dal naso gli uscì lentamente l'aria sotto forma di piccole nuvolette bianche che si dispersero nel vento freddo di fine inverno.
"Il vostro allontanamento dalla battaglia ha stabilito l'inizio della nostra disfatta. Nessun libro di storia riporta il motivo che ha spinto i più valorosi guerrieri scozzesi ad abbandonare il campo di battaglia", mormorai, afflitta, consapevole di essere la causa di tutte le tappe storiche che avevano caratterizzato le guerre civili inglesi.
"Lo immaginavo".
Digrignò i denti e inspirò ancora, forse ancora più lentamente di prima. Il suo tormento era divenuto ingestibile, lo spegneva. E poi di nuovo, quella piccola luce nei suoi occhi si accese, facendo sperare che da qualche parte, dentro di lui, vi fosse ancora una ragione per insistere e combattere. "Mi aspetterai?".
"Sempre", risposi di getto, tra i singhiozzi. "Ti aspetterò per sempre".
Mi accarezzò una guancia, incapace di guardarmi negli occhi. Lo sguardo spento era ancora rivolto verso la collina, nel punto più alto. "E per sempre io tornerò da te".
"Alec?!", mormorai disperata, appena si allontanò di qualche passo.
La sua schiena si irrigidì ma i piedi continuarono ad avanzare lentamente, portandolo ogni secondo più lontano da me.
Solo la sua voce confermò che mi aveva sentita: "Anche io ti amo".
Tre anni dopo... (pov Nadine)
"Baciami Alec. Nel punto che stai guardando adesso".
Lui schiuse le labbra, chinandosi sopra il mio petto, puntellandosi con i gomiti nel morbido materasso. Baciò il mio seno, lo risucchiò in bocca, lo mordicchiò, lo leccò e lo succhiò di nuovo.
"Cristo! Non avevo idea che mi sarebbe mancato così tanto durante questi tre ultimi anni", leccò la pelle sensibile sotto il seno ancora un volta, quindi ruotò sul fianco, sostenendosi la testa con la mano.
I suoi occhi sospettosi mi puntarono, facendo violenza su sé stessi per non scorrere deliberatamente sul mio corpo nudo. "Ma ho il sospetto che tu stia cercando di distrarmi. Non è così, moglie?"
Sorrisi innocente mentre cambiavo posizione, mettendomi a gattoni accanto a lui. Gli afferrai una mano, baciandone ogni dito prima di abbassargli i calzoni. Alec era così eccitato che incontrai alcune difficoltà nel far scendere la stoffa sulla sua erezione. Quando la liberai emise un sospiro di sollievo e i miei occhi per un riflesso incondizionato si spalancarono, apprezzando lo spettacolo.
"Avanti, mogliettina cara", sussurrò rauco, il respiro quasi mozzato. "Non tergiversare. Rispondi alla mia domanda e raccontami che diavolo hai combinato durante i miei lunghi anni di assenza".
Nel panico, non sapendo esattamente quali sarebbero state le sue possibili reazioni, cercai di distrarlo accarezzando il glande con la punta del dito. Il suo pene si impennò, puntando all'ombelico.
"Dio santissimo", boccheggiò.
"Se te lo dico ti arrabbierai?".
"Mi arrabbierò solo se non ti deciderai in fretta ad accarezzarmelo con l'intera mano", promise.
Emise un gemito quando le mie dita circondarono la sua erezione, tracciando un percorso che sulla pelle risaliva su e poi scendeva di nuovo. Forse, dopo tutto, potevo rischiarmi a rispondere.
"Ho inventato qualcosina da nulla", ammisi riluttante.
"Tipo?", soffiò, dimenando i fianchi.
Feci una smorfia timida. "Tipo il laurisolfato di sodio".
"Che hai fatto?", sussultò, stravolto, sgranando gli occhi contro i miei. E poi sussultò di nuovo quando gli presi i testicoli nella mano, stringendoli con pressione.
Sorrisi soddisfatta nel vedere la sua fronte coprirsi di sudore e gli occhi ruotare per l'eccitazione. "E' solo un banalissimo shampoo. Un sapone per capelli. Ho portato a ebollizione il sapone e l'ho unito con il sodio e alcune erbe aromatiche. Una cosuccia da niente".
"Che altro?", chiese in un sospiro rassegnato.
Di male in peggio.
Aumentai il ritmo della mano sperando di fargli dimenticare l'interrogatorio ma la sua curiosità non si spense affatto. Mischiata al piacere traboccava da ogni poro della sua pelle. Non avrebbe lasciato cadere il discorso tanto facilmente.
"Ho inventato lo spazzolino da denti. Ho preso un piccolo osso animale con dei fori e ci ho inserito delle setole morbide. Strofinandole sui denti puliscono molto meglio di quanto riescano a fare le foglie di alloro".
La sua espressione restò calma. "Questa invenzione quando sarebbe stata ideata?".
"Non capisco cosa intendi dire", tergiversai.
"Sì, che lo capisci. Rispondi".
"Credo...", indagai nel suo sguardo, titubante. Era nero di rabbia. Per questo la voce mi uscì in un sussurro. "Credo dopo il 1800".
"Nadine!", si arrabbiò, cercando di mettersi a sedere.
Nel panico mi chinai di slancio su di lui, baciandogli la punta dell'erezione. Fu solo un tocco lieve ma sembrò fargli dimenticare tutto.
"Dannazione amore, così è sleale", protestò.
"Vuoi che vada avanti?".
"Sì".
Gli diedi una leccata scherzosa e vidi le sue mani aprirsi e chiudersi attorno alla coperta.
"Intendevo... che dovevi proseguire con... con... la risposta", protestò a fatica.
Ah, cavolo!
"Bhe, ecco, per fissare le setole sull'osso di animale sono stata costretta, e ribadisco la parola costretta, ad inventare la colla. Capisci? Altrimenti sarebbero cadute".
"La che cosa?", imprecò.
"E' una sostanza formata da amido di farina e tessuto animale, soprattutto di pesce, mescolate nelle giuste proporzioni. Serve ad attaccare gli oggetti".
"E questa maledettissima colla quando sarebbe stata inventata?".
Abbozzai timida. "Fine ottocento".
Alec spalancò la bocca, pronto a riversarmi addosso un fiume di ingiurie ma le parole gli morirono in gola appena lo leccai attorno alla punta del membro, prestando riguardo alla piega posteriore e alla fessura in cima.
"Oddio", ansimò, la testa premuta contro il cuscino che si dimenava a destra e sinistra.
Decisi che era meglio approfittare di questa sua distrazione per confidargli l'ennesima invenzione. Forse non avrebbe nemmeno sentito le mie parole. Forse...
"E da qui, già che c'ero ho inventato i cerotti".
"A cosa... oddio, la tua lingua è così... ", deglutì rumorosamente e sbattè le palpebre, tentando di non perdere il controllo. "A cosa diamine servono i cerotti?".
"Per i tagli. Quelli piccoli. Quelli che di solito si fanno i bambini quando cadono sulle ginocchia. Quando Zoe stava imparando a camminare non faceva altro che ruzzolare a terra, sbucciandosi le gambe, e così ho preso dei piccoli pezzi di garza e li ho sovrapposti l'uno sopra l'altro, fermandoli appunto con questa colla. La colla serve anche a farli aderire alla pelle finché la ferita non si rimargina".
Ruotò gli occhi, infastidito dal mio chiacchierare. "Anno di invenzione?".
Feci scivolare la lingua su tutta l'asta e poi sotto, in modo da potergli succhiare lo scroto. Appena Alec protese in avanti i fianchi, senza preavviso lo immersi tutto in bocca, succhiandolo in profondità.
Le sue dita si strinsero fra i miei capelli, guidandomi ancora più in profondità verso di lui, finché il mio mento sbattè contro le sue cosce chiuse. Poi la stretta diminuì e la sua voce riecheggiò sopra gli ansimi.
"In che epoca è stato inventato?", non demorse.
Lasciai che la lingua lo accarezzasse per tutta la lunghezza mentre ritraevo la testa. "Inizi novecento".
I suoi occhi mi fissarono supplichevoli prima di chiudersi con forza.
"Non ho mostrato a nessuno queste invenzioni, te lo giuro", cercai di tranquillizzarlo.
Ispirò profondamente, scrollando stancamente la testa. "Sto per prenderti, Nadine, quindi se c'è altro che dovrei sapere ti conviene parlare subito e in fretta".
"Nulla di importante".
"Lo hai detto anche per queste cose".
"I pannolini usa e getta", risposi di getto, prima che il coraggio mi venisse a mancare.
Le sue mani, ancora avvolte tra i miei capelli, strattonarono alcune ciocche mentre il suo tentativo di mantenere la calma stava andando a farsi benedire.
"Per il ciclo mestruale e per la pipì di Zoe", mi affrettai a spiegare. "Ormai ha imparato a trattenerla. E' diventata brava, sai? Non la fa più nemmeno a letto e...".
"Nadine!", sbottò.
"Okay, okay. Sono dei pezzi di stoffa ricoperti di cellulosa...".
"Cos'è?", mi interruppe.
"La cellulosa?", tremai. "Non è già stata scoperta?".
Scosse la testa lentamente, minaccioso e serio.
Abbozzai. "Ops, allora ho inventato anche quella".
In reazione allo sguardo accigliato di Alec mi ritrassi in fretta, appoggiandomi indietro sui talloni. Stava per esplodere. Ne ero certa. Per questo evitai di dirgli che avevo inventato anche dei blandi antibiotici.
"Andiamo, Alec. Non perdere la calma. La cellulosa si ricava dalla comunissima paglia. E la paglia è già stata scoperta persino dai cavalli".
La sua espressione non cambiò. Affatto.
"Avevo bisogno di quegli assorbenti", piagnucolai, atteggiando le labbra a un broncio. "Tu il ciclo mestruale non ce l'hai, ma io sì".
"Altro?", ringhiò.
"No no", mentii.
"Sicura?".
Sorrisi rigida. "Sì sì".
"Allora vieni qui", disse lentamente, sistemando il braccio sotto le mie ginocchia per rovesciarmi sul letto.
Il suo sguardo venne immediatamente calamitato dal mio seno. Allungò le mani sotto di me, lasciandole scivolare sotto la curva del sedere e facendo poi scorrere un dito lungo la fessura tra le natiche. Alzandosi sulle ginocchia mi aprì le gambe con i gomiti finché la carne rosea fu completamente esposta alla sua vista. Lo sentii deglutire con forza pochi istanti prima che il suo dito scivolò dentro di me. Lo spinse delicatamente, centimetro dopo centimetro, quindi lo ritrasse con ancor più lentezza, estraendolo e portandoselo alla bocca per assaporare la mia eccitazione.
L'intesa tra noi era perfetta, come se lui non fosse mai andato via, come se per tre anni non avessimo fatto altro che fare l'amore.
"Giusto una cosetta qua fuori", ammisi di slancio, infine. Non avrei mai aperto bocca se non avessi avuto la certezza che prima o poi, e temevo più prima che poi, lo avesse scoperto da solo.
Il suo dito restò per qualche secondo sospeso in aria, tra le pieghe della mia vagina e il monte di venere. "Quale cosetta?".
"Il toro pazzo. E' una giostra per bambini. Si devono sedere sopra questo toro e qualcuno comincia a muoverlo finché non cadono giù".
Inarcò un sopracciglio. "E perchè l'hai inventata?".
"Mi sembrava divertente".
"Avresti potuto inventare un gioco per Zoe".
"L'ho fatto per Zoe".
"COSA???", sbraitò, sollevandosi di scatto sulle ginocchia.
Mi sollevai sui gomiti, sentendomi piuttosto imbarazzata a causa della mia nudità davanti alla sua espressione incollerita. "Non è un gioco pericoloso".
"Dov'è Zoe?", scandì lentamente.
"Credo stia giocando proprio lì. Ci va sempre con i bambini degli... ehi, Alec? Ma dove stai andando?".
Lo fissai ammutolita mentre si infilava una camicia bianca dentro i pantaloni. A piedi nudi spalancò la porta e mi fece cenno di vestirmi.
"Vado da Zoe".
"Perchè?". Scivolai velocemente giù dal letto e mi coprii con il grande plaid dai colori del clan degli O'Braam. I miei colori. "Alec, ma si può sapere che ti prende?".
I suoi passi risuonarono lungo il corridoio sebbene non calzasse i suoi soliti stivali. "E' un gioco da maschio, perdio. State facendo fare a Zoe un gioco per maschi", urlò nel corridoio.
"Ehi! Non cominciare con la storia del voi. Odio quando mantieni le distanze. E non è un gioco da maschio, santo cielo. Vuoi aspettarmi?".
Le pietre del giardino mi si conficcarono sotto le piante dei piedi e fui costretta a rallentare. Davanti a me Alec marciava come se non sentisse alcun dolore.
"Per l'amore del cielo, Alec. Calmati!", gli urlai dietro.
Ma lui aveva già raggiunto Zoe. Con passo sicuro oltrepassò alcuni bambini e sollevò nostra figlia tra le braccia, strappandola dal gioco. Alcuni piccoli protestarono ma si arresero quasi subito accorgendosi che Alec non era intenzionato a conversare con nessuno di loro. Condusse Zoe fino agli scalini di ingresso e la lasciò scivolare delicatamente a terra.
"Papà, papà, mi stavo divertendo", piagnucolò, stropicciandosi gli occhi. "Voglio tornare dai miei amici".
"Piccolina, lo so, ma non puoi giocare a quella giostra". Si inginocchiò per poterla guardare dritta in faccia e le infilò la grande mano tra la frangia. "Bambini e bambine non fanno gli stessi giochi".
"Me l'ha portato Babbo Natale". Zoe sbattè un piedino in segno di protesta. "E' mio".
"Chi te lo ha portato?".
"E' un signore sulla slitta che vola nel cielo la notte di Natale e porta i regali ai bambini buoni".
Ci fu un momento di silenzio in cui sentii le mie guance infiammarsi.
"Nadine?", ringhiò Alec, pizzicandosi la punta del naso. La domanda che voleva porgermi era sottintesa.
"1820... circa", risposi e poi nascosi la faccia tra i palmi delle mani per salvarmi dalla sua occhiataccia.
"Zoe, piccola. Non sta bene che una bambina giochi con dei maschi, lo sai questo, vero?", riprese la sua predica.
"E perchè non dovrebbe?", intervenni.
"Non è decoroso", mi rispose senza neanche guardarmi.
"Ha quattro anni, Alec!".
"A quattro anni io già guardavo le ginocchia alle bambine".
Mi tappai la bocca, fingendomi oltraggiata. "Le ginocchia? Ommiodio, Alec, quale vergognoso affronto osservare un osso ricoperto di pelle di una bambina di quattro anni".
"Senti z la necessità che ti ricorda in che epoca siamo?", mi imbeccò.
"Mamma... papà. Smettetela di litigare", frignò Zoe.
"No, no, no, piccolina", mormorò Alec, accogliendola contro il suo petto. "Non stiamo litigando. Mamma e papà sono fatti così, lo sai. Litigano ma poi fanno pace".
"Perchè litigate, papà?".
"Ottima domanda, Zoe", ridacchiai, incrociando le braccia al petto. "Vuoi rispondere tu, Alec?".
Mi guardò male ed io risposi con un sorriso maligno.
"Mamma e papà litigano perchè non sempre riescono a comprendersi. Io voglio proteggerti e anche mamma lo vuole, solo che lo facciamo in due modi diversi. Ora ascoltami: prometti al tuo papà che non giocherai mai più coi maschietti".
"Alec", protestai.
"Prometti", rimarcò, più accondiscendente.
Gli occhioni di Zoe lo guardarono, innocenti e curiosi. "Perchè non posso papi?".
"Perchè tuo padre è incapace di gestire la gelosia, tesoro", borbottai.
Alec mi guardò male una seconda volta. E per la seconda volta lo ignorai.
"Sono geloso di te, questo è vero. Ma non devi giocare coi maschietti perchè loro, quando diventeranno grandi, mangeranno le bambine belle come te".
"ALEC!", urlai.
"La sto mettendo in guardia", si difese, alzandosi in piedi. "Ora andiamo, avanti. Tra poco si cena".
"Papa?", sentii la vocina di Zoe alle mie spalle. "Allora anche tu mangi la mamma?".
Scoppiai a ridere e mi voltai giusto in tempo per vedere l'espressione stravolta di Alec. I suoi occhi mi cercarono in cerca d'aiuto ma quando non accennai a smettere di ridere, mi lanciarono saette che non promettevano niente di buono. Era questo ciò che eravamo: Zoe era stata molto brava a ricordarcelo. Eravamo due fuochi che si mescolavano in un incendio. Rabbia e amore che si infrangevano l'uno nell'altro senza mai trovare quiete. E saremo sempre stati questo: guerra e pace.
Il futuro davanti a noi non era una strada pianeggiante, ma per qualche assurda ragione, guardandolo proprio in quel preciso momento, capii che non c'era niente di più bello che arrivare in cima ad una vetta sudati, stanchi, affaticati dal viaggio. Arrivare in cima e poi guardarsi indietro per ricordare tutte le volte che siamo inciampati, che ci siamo aiutati a rialzarci, che abbiamo rischiato di perderci, e che insieme abbiamo ritrovato la strada. In cima, litigando per come siamo inciampati, per come abbiamo perso la strada. Litigando per tutte le litigate. Litigando per quelle che ancora non avevamo fatto. Arrivare in cima, tenendoci per mano nonostante tutto.
"No, io non mangio la mamma", rispose Alec. "Il tuo papà non è come quei maschietti là fuori. Io sono buono. E tu da grande sposerai il tuo papà".
"No", urlò Zoe, sorprendendo sia me che Alec. "Papi non posso".
Li guardai, innamorata, sorridendo tra me e me per ciò che ancora dovevamo affrontare. Eravamo solo all'inizio del viaggio. La cima era così lontana. Eppure non ero spaventata. Ero solo curiosa, frenetica, innamorata dei passi che avevamo fatto fino ad ora. E pronta ad amare quelli che ancora non avevamo fatto.
La delusione si dipinse sul volto di Alec. "Non vuoi sposare il tuo papà?".
"Vorrei ma non posso. La mamma non te lo ha detto?".
Oh merda!
"Cosa doveva dirmi, piccola di papà?".
"Che io...", attaccò Zoe.
Protesi le mani in avanti, parlando frenetica. "No, no, no, no... .. Zoe, non dirl...".
"... ho già un fidanzato", concluse.
Il volto di Alec sbiancò, poi cambiò varie tonalità, fermandosi sul porpora. Sembrava sul punto di strozzarsi mentre spalancava la bocca per riempirsi i polmoni d'ossigeno.
"NADINE!!!", urlò.
E ne sono certa, il mio nome, in quel momento, risuonò per tutta la Scozia, più forte ancora di quanto il destino avrebbe fatto per i successivi quattrocento anni, fino e oltre il futuro che noi conosciamo.
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