Vivere la vita


"Il mondo è un'Arca di Noè
Che va perduta alla deriva
Ma se sei qui con me
Il mondo non c'è
C'è una galassia estiva"


ESTATE

Ellie pensa spesso all'Apollo 11. Anche se non riesce a immaginare con chiarezza cosa si provi, ad andare nello spazio. Decollare, sentirsi senza peso. Ma crede sia molto simile a quando si sveglia di colpo la mattina con l'impressione di cadere. Solo, verso l'alto, verso le stelle e la luna.

Pensa spesso anche all'Apollo 1. E le riesce molto più semplice immaginare tutto, con una nitidezza dettata dall'esperienza. Il fuoco, le grida, le tute da astronauta liquefatte e saldate ai sedili assieme ai corpi che ospitavano. Non ha quasi bisogno di ricorrere alla fantasia, per visualizzare la scena: bastano pezzi di ricordi ricombinati tra loro con l'aggiunta di un razzo mai decollato.

La fa incazzare, tutto questo. Al collegio militare, quando leggeva a tarda notte sotto le coperte, saltava sempre il capitolo sulle missioni lunari fallite. La turbava e rattristava più di quanto avrebbe dovuto, in un modo maledettamente infantile che la indispettiva ancor di più. Aveva finito per strappare del tutto quelle pagine.

Riley le aveva trasformate in origami che dovevano assomigliare a delle gru, ma con ali troppo storte e asimmetriche per volare. Non le era importato. Le aveva tenute sulla mensola della sua stanza, quelel gru tutte acciaccate coi colli torti in alto, verso la luce e la luna.

Almeno fino al giorno del morso. Houston, abbiamo avuto un problema. Fanculo. Le aveva gettate tutte giù dalla finestra, nel cielo eternamente piovoso di Boston, e le aveva lasciati a sciogliersi nelle pozzanghere. Erano diventate carta mezzo squagliata nell'acqua grigia e nel fango, con le ali tarpate e i colli spezzati.

Adesso, sotto la coperta di stelle sterminata che si stende oltre le cime aguzze degli alberi, non pensa né all'Apollo, né allo spazio, né agli allunaggi, né agli origami che non hanno mai spiccato il volo.

Il suo cervello funziona in modo strano. A volte crede che sia per colpa di quel cazzo di Cordyceps che lo infesta. Magari è per quello che ha una memoria così buona. Dovrebbe brevettarsi. Ellie "Cordy" Williams, frontiera del progresso umano. "Salvezza dell'umanità". Pfft, stronzate. Stronzate.

Sospira nell'aria estiva.

E quindi lascia che il suo cervello – o magari il fungo – scelga i pensieri più disparati. Pensa ai dinosauri, e alla meteora che è venuta a rotta di collo proprio da quelle stelle per estinguerli. E ai Nativi Americani, che guardavano quelle stesse stelle ambientandovi i loro miti prima che gli Europei arrivassero a rubar loro la libertà. E a quelle stelle che, fino a vent'anni fa, erano soffocate da troppe luci umane, invisibili.

Aggrotta la fronte e pensa che ci sia un sottile cerchio scuro disegnato in controluce tra quegli eventi. Un cerchio di cui lei, in qualche modo, fa parte. Banalmente, come chiunque altro. Non può romperlo.

Fissa così intensamente il buio tra le stelle che quello inizia a brulicare di altri puntini creati dai suoi occhi.

Pensa che alla fine, di fronte a così tante stelle, sono tutti un po' più soli di quanto credano. E che in questa serata limpida, col fuoco che scoppietta nelle orecchie e il ruscello che manda spruzzi freschi, ci starebbe bene una chitarra per sentirsi meno soli. Lei, i falò sulla spiaggia, li ha visti solo nei film, ma sa per intuito che sarebbe bello, adesso, qui, sentire degli accordi vibrare nell'aria ad accompagnare un paio di voci. È come un ricordo mai vissuto.

«Joel?» chiama, con gli occhi socchiusi che schermano le faville arancioni mischiate ai puntini bianchi delle stelle. Le piace quell'effetto, ma le tira lo stomaco. Sembrano lucciole.

«Mh?»

Joel non ha alzato la testa dal pesce che sta pulendo e squamando, ma la sprona a parlare. Si sente il rumore di un bastone appuntito che infilza la carne, e poi un tonfo che viaggia nel terreno sabbioso fino alla sua nuca quando viene infisso sopra al fuoco.

Ellie tace. Non è sicura che si ricordi della promessa di insegnarle a suonare la chitarra. O di cantare qualcosa per lei, o di insegnarle a nuotare. Sembrano tutte eclissate dall'altra promessa – giuramento – che aleggia tra loro come un fantasma, da quando sono tornati da Salt Lake City con la consapevolezza che no, Ellie Williams non è la salvezza del mondo.

Quel fungo che le cresce nella testa non è la cura per l'umanità. Lei non vuol dire nulla, nulla, è solo un puntino nell'immensità delle stelle, è solo una macchiolina in quel cerchio scuro che collega tutto. Joel le ha giurato che è così. L'ha guardata negli occhi e l'ha giurato.

E  qualcosa si è rotto e saldato in quello stesso istante. Non sa dire cosa, ma le prude e pizzica il cuore quando ci pensa.

«Ellie?»

Alla foce burbera e roca di Joel, Ellie si riscuote e alza le spalle, facendo scricchiolare il ghiaino sotto al telo. Sbuffa sottovoce, incrociando le dita sullo stomaco. «Nulla. Mi è passato di mente.»

Joel non commenta e rimesta le braci, l'ombra delle sue mani che scivola sui ciottoli e rocce della riva. Un gufo bubola in lontananza. Uno dei cavalli batte uno zoccolo a terra e scrolla la testa in un tintinnio di briglie. I grilli friniscono in un concerto singhiozzante. La notte è viva, ma il suono della quiete la avvolge.

E, a dispetto dei mille pensieri che le turbinano in testa, sente anche silenzio. C'era una canzone, su quel "suono del silenzio", ma non le torna in mente. Rimane un ronzio indistinto nella nuca, canticchiato a fior di labbra da Riley.

Fissa le stelle, o forse loro fissano lei.

«A che pensi?» la distoglie Joel, ancora intento a preparare la loro cena.

«Agli alieni,» sbuffa lei, senza guardarlo e senza riflettere. «All'allunaggio.»

«Uh-huh. Altro?»

Coglie una nota ironica nella sua voce, e la asseconda.

«Ai dinosauri. E agli indiani.»

«Ne hai, di pensieri. Indiani?» chiede poi, come se nella loro normalità fossero loro, la cosa più inaspettata, e non alieni o dinosauri.

«Sì, indiani. Cioè, i Nativi. Sai... magari vivevano qui, in questo punto preciso. Si accampavano in riva al fiume, con un falò come il nostro, magari proprio lì,» e indica da sdraiata il punto in cui divampa il loro nel suo cerchio di piccoli massi.

Lui impala il secondo pesce sul fuoco. L'odore di carne cotta inizia a spandersi nel loro piccolo accampamento, e lo stomaco di Ellie brontola dopo tutte quelle ore di escursione in salita sulle piste dei cervi.

«Anche i dinosauri, magari,» replica poi Joel, alzandosi con un grugnito per andarsi a sciacquare le mani nel torrente.

«Avevano un falò? I dinosauri?» fa finta di non capire Ellie. «Mi sono persa qualcosa nelle lezioni di storia? I militari mi hanno nascosto la verità?»

Joel fa uno sbuffo esasperato, ma Ellie sa che è il suo modo per ridere senza farlo.

«Sì, esatto. Falò di dinosauro. I musei ne sono pieni.»

«Non sono mai stata in un museo, quindi dovrò crederti sulla parola. Posso fidarmi?»

Joel si siede di nuovo accanto al fuoco e risponde con uno di quei silenzi criptici di chi non è abituato a ribadire l'ovvio. Poi, inaspettatamente, la indica con un'ombra di sorriso:

«Sì che ci sei stata, in un museo. A Boston...»

La frase si tronca in modo innaturale, nonostante fosse iniziata con intento scherzoso. I suoi occhi si scuriscono e Tess è improvvisamente troppo vicina: Joel non sembra ancora in grado di valutare le giuste distanze. Si avvicina a lei, al suo ricordo, e ne rimane scottato quando incontra il vuoto dell'assenza.

Ellie è svelta a ristabilirle, senza battere ciglio:

«Quella volta non vale, non mi sono nemmeno goduta il tour. E poi là dentro non c'erano dinosauri, né fossili, né roba scientifica figa. Solo vestiti vecchi e pezzi di carta... e un cannone. Peggior museo della storia,» aggiunge, giocando volutamente con le parole. Joel fa uno di quei suoi sbuffi laterali e secchi che lo fanno sembrare più vecchio di quanto non sia, ma il suo sguardo è più limpido.

«Vedremo di rimediare,» borbotta, afferrando uno dei rami sopra al fuoco e osservando il pesce ormai arrostito all'estremità. «La cena,» conclude, punzecchiandola con l'estremità libera per indurla ad alzarsi.

«Vediamo che voto ti aggiudicherai, stavolta.»

«Mi sto seriamente pentendo di averti parlato di MasterChef,» bofonchia Joel, scuotendo la testa.

Ellie ridacchia e si avventa nella sua porzione. Non sono particolarmente loquaci a tavola, se così si può dire, e a lei va più che bene. A Jackson il cibo non manca, ma le riesce ancora difficile uscire dalla mentalità da "ultimo pasto", e le sembra che per Joel sia lo stesso.

Così mangiano in silenzio, godendosi quel tempo ritagliato da una vita che lei non ha mai vissuto, ma che le sarebbe piaciuto vivere. Con le missioni lunari e le gite nei musei e le uscite al cinema e le trasmissioni di cucina e mille altre cose di cui conoscce il nome, ma che sono associate a concetti diversi da quelli per cui sono state coniate. Ma quelle copie carbone non le sembrano così male e, dopotutto, non può mancarle qualcosa che non ha mai vissuto.

«Mh,» esordisce poi, mandato giù l'ultimo boccone e assumendo un'espressione intenta. «Considerando il tutto, direi che questo piatto si merita...» prolunga la pausa ad effetto, sollevando un indice e facendolo ondeggiare a mezz'aria, «... un sei e mezzo su dieci. Io avrei fatto di meglio.»

«Oh, bene,» commenta Joel, sollevando svogliato le sopracciglia. «Allora puoi cominciare a dare una mano in cucina.»

«Tsk, ti piacerebbe.»

A quella replica, Joel alza la testa in modo un po' brusco, rivolgendole un'occhiata tinta di sorpresa, appannata. Ellie batte le palpebre, presa alla sprovvista da quella reazione. Si inclina verso il suo fucile poggiato lì accanto in un riflesso automatico, temendo di veder sbucar fuori ombre affamate dalla boscaglia. Ma il bosco è calmo, se non per lo stormire delle fronde, i cavalli brucano quietamente.

Joel nemmeno nota la sua tensione – sembra distratto. Si schiarisce la voce roca e puntella le mani dietro di sé contro i ciottoli lisci, col mento reclinato sul petto.

«Non...» comincia, ma si interrompe e getta nel fuoco il ramoscello e la lisca del pesce.

Il crepitio che si leva sembra assordante, in quell'improvviso silenzio. Ellie capisce, d'istinto, che Joel sta per dire qualcosa che gli sta a cuore, ma evita di fissarlo per non farlo ritrarre come spesso succede. Joel passa un pollice sul quadrante rotto dell'orologio, ed Ellie segue quel gesto, torcendo appena le labbra. Qualcosa che gli sta molto a cuore.

«Avevi ragione,» dice poi Joel, senza guardarla, la bocca seminascosta dalla barba. Fissa il torrente, e i flutti limpidi che scorrono quasi invisibili sui sassi levigati.

In un'altra occasione, Ellie risponderebbe, sarcastica, devo segnarmi questo giorno?, o qualcosa del genere, ma stavolta tace. Segue il suo sguardo e le sembra che i pensieri di entrambi scorrano a valle assieme al torrente. Puliti, lineari come di rado lo sono.

«Quando?» chiede titubante, vedendo che Joel sembra combattere con le proprie parole.

«Quella volta qualche tempo fa, nel ranch qui vicino. Quando sei scappata via. E abbiamo discusso.»

Ellie alza il capo e incrocia il suo sguardo, ora puntato su di lei. La abbraccia con gli occhi, quasi. Per un solo istante, poi fugge di nuovo verso il terreno, verso il fuoco, verso la sua stessa ombra. 

Sospira di nuovo, tocca di nuovo l'orologio. Non sa cosa stia per dire, ma è chiaro che gli pesa addosso, nel petto. Le torna in mente il giuramento e sente un vuoto al cuore, ma sa che non stanno parlando di quello. Non si parla delle verità, di solito: solo delle bugie e dei non detti. Joel ne ha tanti.

«Non sei... lei,» mormora infine, alzando le iridi scure e quasi nere nel buio. «Tu... sei tu. Tu, e basta.»

Fa una lunga pausa, e abbassa gli occhi sulle crepe dell'orologio. Forse sorride, o trattiene la nostalgia, ma la barba cela le pieghe della sua bocca e le ombre nascondono gli occhi. Nell'aria c'è la paura di parole sbagliate, ma Ellie non ne trova nemmeno una, in quella sequenza insensata per chiunque, tranne che per lei.

Lei è Ellie, e non è Sarah. Non lo sarà mai, né ha bisogno di esserlo o di diventarlo. E va bene così.

Quello che ha voluto dirle Joel è rivolto a lei, ma forse anche a se stesso. Forse anche a Sarah. Un modo per dividere e al contempo mescolare due realtà troppo diverse che si trovano a coesistere e compensarsi – e fa male, e fa bene.

Ellie pensa che, dopotutto, anche Joel aveva ragione. Si combatte anche così, per vivere un altro giorno. Si trova qualcosa per andare avanti.

«Volevo solo che lo sapessi,» conclude Joel, e la sua voce è un sussurro appena percettibile.

Ellie annuisce, e sente qualcosa nel petto. Ripensa alle giraffe, come un sogno scaturito ad occhi aperti. Ricorda come avanzavano in mezzo alla distruzione dell'apocalisse, slanciate, eleganti. Vive.

Anche allora, nel vederle, l'ha colta quella stessa stretta indecifrabile. Di tristezza felice. O gioia triste. È bella però, le riempie i polmoni – respira, e vive un altro giorno.

«Lo so,» risponde poi, con la voce più morbida che le riesce. Non vuole che suoni saccente, quell'affermazione. O presuntuosa. Vuole che suoni come la verità che dovrebbe essere.

Joel annuisce a sua volta e stringe l'orologio, ne accarezza il ricordo.

«Okay.»

Raddrizza le spalle e sembra farsi più leggero. Leggerezza. Ecco cos'è, quella sensazione. Forse è così, che ci si sente al decollo per una missione spaziale. Magari anche gli astronauti hanno gli occhi lucidi come i loro, prima di partire e lasciare la loro casa. O quando vi fanno ritorno.

Ellie si abbraccia le ginocchia e vi poggia sopra il mento. Sorride.

«Allora?» prorompe poi, vedendo divertita Joel che si gira a fissarla con tanto d'occhi ancora umidi, ignaro del cambio d'argomento.

«Allora?» ripete, confuso.

«Quella canzone? Una promessa è una promessa,» gli ricorda, strusciando impaziente i piedi sulla ghiaia della riva.

Joel rimane interdetto per un istante, prima di raccapezzarsi. Sbuffa, di nuovo, e scatta via con lo sguardo.

«Con quale chitarra?»

«Cantare, non suonare. Non volevi diventare un cantante, da giovane?»

«Oh, no. No, no, no,» ribatte lui, sventolando una mano sbrigativa davanti a sé. «Non... attirerei tutti gli infetti nel raggio di dieci chilometri, non è...»

«Joel. Siamo in un'area sicura. Pulita. Recintata. Nessun segno di infetti nel raggio di dieci chilometri. E puoi cantare sottovoce!»

«Ellie...»

«Va bene, va bene!» si arrende lei, almeno in apparenza. «Allora ho un'alternativa per la serata... perché un calendario è sempre triste?» esordisce, con voce squillante, e legge la disperazione negli occhi di Joel. «... perché ha i giorni contati! E senti quest'altra, questa è geniale–»

«Va bene, basta, hai vinto tu,» cede lui, sospirando a pieni polmoni. «Sentiamo, cosa dovrei cantare?»

Ellie mette su un'espressione tronfia: la minaccia di una gara di freddure funziona sempre. Si morde il labbro a trattenere un sorriso compiaciuto.

«Qualcosa tipo... oh! Merda, come faceva quella canzone?» schiocca le dita più volte, tentando di richiamarla alla mente. «Dovrebbe essere della tua epoca, aspetta...»

«Della mia epoca?»

Ellie lo ignora e tamburella coi palmi sulle ginocchia un ritmo sincopato, schioccando a tempo la lingua mentre la melodia le risuona nelle orecchie, lontana, distorta dal walkman malmesso che le aveva regalato Riley:

«When the night... has come... and the land is dark...» s'interrompe, consapevole di aver stonato, e gesticola impaziente. «Oh, merda, quella lì, insomma! La conosci, no?»

Joel sbotta a ridere, ed è così inaspettato che Ellie si scorda di chiudere la bocca, fissandolo meravigliata come si fisserebbe un fenomeno naturale insolito.

«È un paio di decenni prima della mia "epoca",» alza le spalle lui, a mo' di scusa, sfregandosi la barba e ricomponendosi.

Ellie storce la bocca, delusa, ma le brilla comunque un sorriso negli occhi.

«Oh, quindi non la cono–»

«And the moon ... is the only light we'll see...» riattacca Joel, in quello che sembra più un brontolio roco e musicale che un vero e proprio canto a piena voce. Si confonde col gorgoglio del ruscello, ed Ellie ammutolisce, in ascolto. «No, I won't... be afraid...»

«Oh, I won't... be afraid...» risponde Ellie, piano, e Joel la incoraggia con un cenno del mento.

«Just as long... as you stand, stand by me,» concludono insieme, con un istante di pausa complice.

E poi continuano. Un po' fuori tempo, un po' stonati, con le voci che si alzano, abbassano, si intersecano completandosi, vanno per strade diverse e culminano in un punto d'incontro, spegnendosi infine nel brusio della notte.

Un po' come un decollo, le viene da pensare, riflettendo il sorriso di Joel; così leggero, così vivo. Rivolgono insieme gli occhi alle stelle, fianco a fianco.

Un po' come la vita.


"Si va si va
Ma dove si va
Chissà, chissà
Paura non ho
E questa vita mia
È tutto quel che ho
Più breve lei sarà
E più forte canterò"

[Arca di Noè – Mannarino]

FINE

***


NdA

Resuscito la storia in onore della splendida serie che HBO ci sta regalando.

Spero vogliate lasciare un voto o un commento, e che la lettura sia stata piacevole!

Grazie a miryel per l'aesthetic che fa da banner alla storia ♥
Tutti i diritti dell'immagine di copertina appartengono al legittimo artista – io mi sono limitata ad apporre il titolo.

-Light-

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top