Capitolo 9
Quando si fu accertato che il rampante giovanotto le aveva solo scortate discretamente all'uscita si rilassò. Si avvicinò alle pedane con passo indolente. I ritmi avevano rallentato le pulsazioni già da un po', la techno aveva ceduto il passo ad una goa da atterraggio morbido. La folla era ancora ben compatta, ma aggirarla dal lato bagni chimici, per quanto non grandioso dal punto di vista olfattivo, era comunque la soluzione migliore.
Anche perché adesso, alla asetticità di coca ed extasy si era sostituito il puzzo rivoltante dei tromboni di marjuana ed hashish, accesi a rallentare i battiti e spingere in down le pulsazioni del cuore e le sensazioni di onnipotenza. Una doverosa fase di alleggerimento prima di riprendere a farsi per la sera, la notte, l'alba che arrivava.
Che Gallipoli fosse la Sodoma dello sballo, ad agosto, l'aveva capito da come la benedicevano alcuni mammasantissima del narcotraffico dalle sue parti.
Che i ritmi fossero questi, però, lui non l'aveva mai nemmeno immaginato.
Guadagnò il bancone tra corpi che si muovevano ipnotizzati al ritmo basso dei beat sincopati, sui tappeti di synth tibetani.
Chi aveva esagerato con la ketamina digrignava i denti e torceva le mascelle in una smorfia che non lasciava spazio a nessun dubbio. Li vedevi spostarsi lenti, pestando i piedi bene per terra, quasi che non sentissero il contatto con quello che stava sotto.
"Ti vedi fatto, dall'alto, ti vedi da fuori e non lo sai se sei tu..." gli aveva confessato una volta uno dei tanti che aveva avuto la superficialità di sbagliare con personaggi poco inclini al perdono.
Gli era bastato reggergli per un attimo la siringa, prima che si sparasse un'insulina di qualcosa nelle vene. La scambiarono per una brutta overdose da porcherie tagliate oltre i limiti del criminale.
"Monkey Tonic?" gli chiese la barista.
Dalla mattina gliene aveva già serviti cinque o sei.
Scosse la testa: "Ce l'hai il succo di pompelmo?" e quando lei annuì guardandolo un attimo incredula aggiunse: "Eh, va bene, allungamelo con la soda."
Aveva quasi finito di bere quando avvertì il contatto di una mano poco sopra la cintura del boxer da mare. Si voltò a destra, intercettando lo sguardo di Alessio, l'uomo di fiducia dello Zio.
"Hai fatto presto..." portandosi il bicchiere alle labbra e scolandolo alla goccia.
Di rimando una espressione vaga: "Qua tanto a quest'ora non si vende più niente..."
"Lavorate, però!"
"Non ci lamentiamo, Vince' non ci lamentiamo mai..."
Sorrise e gli fece cenno di seguirlo lontano dalla pedana. Mentre faceva strada verso la zona dei depositi tirò fuori un mazzo di chiavi dal borsello che portava a tracolla. Spalle larghe pure lui, polpacci e cosce gonfi, le braccia tese da scoppiare, il Rolex, troppo pesante per essere una patacca, portato una maglia più largo sul polso.
Il ragazzo aprì, senza guardarsi nemmeno attorno, una delle porte in anticorodal che chiudevano l'accesso alle strutture in muratura dei depositi. Ci si infilò dentro e lo chiamò, portando già la mano destra alla tasca posteriore e tirando fuori un mazzetto verde.
"Questi sono duemila, come mi ha detto lo zio..."
Vincenzo annuì, li stava sistemando già nella tasca interna dei boxer quando sentì il ragazzo incalzare.
"No, aspetta, contali... per stare sicuri..."
In quelle circostanze non si riusciva mai a capire dove si nascondesse la malafede. Mentre smazzava ad una ad una le venti banconote si sentì dire, col tono di una raccomandazione.
"Ah, quelle tre o quattro deficienti... se le conosci, per favore... diglielo tu di non tornare più qui a vendere..."
Vincenzo alzò gli occhi, intercettando solo uno sguardo tronfio e freddo.
"Gallipoli è grande che cazzo... proprio sulla pedana nostra devono venire?"
Vincenzo sbuffò e sorrise, semplicemente lasciando intendere. Quello di fronte, però, sembrava non leggere oltre le righe.
"Non sono amiche mie..." e tenne una vocale muta, sospesa a mezz'aria e tirata per le lunghe cercando di recuperare tra i riccioli del cervello il dettaglio sul nome della persona con cui stava parlando.
Gli fece segno che non c'era altro da dire: "Beh poco importa. Se tornano domani a rompere il cazzo, mi sa che qualcuno dei ragazzi le affoga... tanto, qua di tossici ne muoiono due o tre ogni settimana di ferragosto..."
**Note dell'autore:
Questo romanzo è stato scritto per gioco nel 2015. Non ha nulla a che fare con la splendida pellicola "Lo chiamavano Jeeg Robot", anche se alcuni dettagli potrebbero far pensare a questo. Semplicemente, è la storia di uno che eroe non lo è mai voluto essere. Uno che nella sua vita si è trovato catapultato in vicende e storie davvero troppo più grandi e scomode di quanto non avesse davvero meritato. E giorno dopo giorno prova a vedere se può esserci un domani. E quanto, questo domani, possa essere migliore. Per sé stesso e per le - rare - persone a cui vuole bene.
Al solito, se credete che quel che avete letto meriti, premiate il capitolo con una stellina o un commento per lasciarci il vostro parere. Se poi pensate se lo meriti davvero... potreste anche pensare di condividerla sulla vostra bacheca o nella lista delle storie che seguite.
In ogni caso, grazie di cuore per essere passati e aver dedicato un po' del vostro tempo a questo romanzo.
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