Capitolo 8.1 - Lasciati andare...
Angelina
La gara proseguì in maniera più serrata, senza escludere colpi di scena e coloro che stavano partecipando erano rimasti in pochi. Matteo era arrivato addirittura a divorare cinque peperoncini di fila e per poco non sarebbe servito un estintore per spegnere tutto quel fuoco che gli stava lambendo la faccia.
Iniziò a tossire, cercando di sbottonarsi il colletto e i presenti ridacchiarono di gusto. Mattia gli porse un altro peperoncino ma lo scansò con la mano. Dopodiché finì con la testa sul tavolo.
«Il poverino ne ha mangiati troppi.»
Riccardo si avvicinò picchiettandogli la schiena e gli porse il bicchiere.
«Bevi un po' di latte, ti sentirai meglio. Matteo?» Lo chiamò ma non si mosse, neppure si tirò su. Cominciò a dargli delle piccole sberle. «Mi senti, Matteo?»
«Forse è svenuto...» Bofonchiò qualcuno. Con il sorriso sulle labbra, lo chiamai, credendo che ci stesse facendo uno scherzo dei suoi. Il dottor Riccardo gli afferrò il capo alzandoglielo e quello che era partito come un mero divertimento si tramutò in un orribile incubo ad occhi aperti.
«Non respira.» dichiarò puntando gli occhi sui presenti. «Bisogna intubare subito. Presto, portami la borsa, Gianmarco!»
Se era successo qualcosa di grave per colpa mia non me lo sarei perdonata. Portai le mani alle labbra e lo stese su due sedie.
«Matteo...» Deglutii un groppo che mi si era appena formato. Il dottor Riccardo controllò rapidamente le palpebre e passò a sbottonargli la camicia.
Sperai che stesse bene, ma perché non aveva ripreso i sensi?
Dopo la corsa in ospedale, si sentì meglio ma comunque doveva rimanere sotto osservazione.
Mi guardò con soddisfazione. Perché aveva rischiato per quella stupidissima gara coi peperoncini? Non ce n'era bisogno...
«Scemo... Perché ti sei messo tutta quella roba piccante in bocca? Vuoi farmi sentire in colpa per il resto della mia vita?»
«Però alla fine ho vinto io. Sono stato l'unico a mangiare più peperoncini.» Sorrisi. «Sono stato il più coraggioso.»
«Credo proprio di sì. Sei quasi morto per amore.»
«C'erano i testimoni.» Alzò il dito. «E per quanto riguarda l'amore, nessuno può battermi!»
Mi morsicchiai il labbro, dondolandomi sullo sgabello, quando qualcuno sbatté la porta della camera e voltandomi notai il moro avvicinarsi al capezzale.
«Che ci fai qui? Che succede?»
«Si è appena svegliato.»
«Dove siamo esattamente in questo momento?» Era un indovinello? Tentai di replicare. «All'ospedale... e in che parte?» Schiusi le labbra, ma mi anticipò di nuovo. «Al pronto soccorso. E per cosa? Per interventi urgenti. Capisci, no?» imitò il mio "mhm" con cenno d'assenso. «Devi andare. Per favore, esci.»
Lo squadrai, corrugando la fronte e mi indicò l'uscita col braccio a mezz'aria.
Che maleducato! Mi stava palesemente cacciando!
«Uff, e va bene! Stavo solo tenendo compagnia il tuo paziente, ma se non gradisci la mia presenza, toglierò il disturbo!» Con il broncio, mi rimisi in piedi e marciai verso l'uscita. «Sgarbato!» ringhiai prima di chiudermi la porta dietro. Ero dispiaciuta di non essere rimasta un altro po' vicina a Matteo, dato che per colpa mia si era ritrovato in quella condizione. A proposito, ricordai un particolare che mi stava sfuggendo nel corridoio: dovevo avvertire Federica altrimenti si sarebbe spaventata, trovando la caffetteria vuota. La telefonai. Bussava a vuoto. Quella ragazza il cellulare lo dimenticava ovunque. Le mandai una trentina di messaggi intasando la chat di Whatsapp, scrivendo a grandi linee quanto fosse accaduto, aggiungendo che la situazione era sotto controllo. A parte, quello spavento iniziale. «Federì...» Sbuffai. «Chi lo sa in quale spazio sei finita stasera.» Ma di sicuro a rapirla non erano stati gli alieni atterrati sulla Terra per studiare le sue capacità intellettive o il suo IQ stratosferico. No, casomai si trattava di un altro "rapimento".
Di nome Giovanni...
Federica
Ormai avevo esaurito le ultime energie che rimanevano nel corpo e mi sdraiai sull'erba, cosa che fece anche il moretto, mettendoci ad osservare le stelle — che sembravano minuscoli puntini — in un cielo completamente terso. Presi un piccolo sospiro. Non mi capitava mai di poter fermarmi e ammirare ciò che mi circondava. Ero troppo impegnata col mio lavoro.
Ruotai il collo verso Giovanni, vedendolo impegnato a fare lo stesso con una mano sotto la testa.
«Le stelle sono bellissime, vero?»
Mi girai verso il cielo. «Sì, molto.»
Continuai ad ammirarle in silenzio con le mani intrecciate sulla pancia. Poi lo vidi allungare il braccio sopra la mia testa.
Che intenzione aveva?
«Non credi che nonostante un corpo piccolo abbia le braccia lunghe?» Inarcai un sopracciglio. «Sembra anche confortevole. Se vuoi, puoi appoggiare la testa sul mio braccio, per stare più comoda. Fossi in te io lo farei.»
«Fai lo spiritoso?»
Tornò a guardarmi. «Chi lo sa, Andreani...» Visto che insisteva tanto, appoggiai la testa sul suo braccio che avrei potuto scambiare per un morbido cuscino. «Aspetta, così mi fai male, avvicinati...» Mi sistemai meglio. «Così va meglio...» Preferii non parlare per assistere a quello spettacolo che toglieva il respiro, le stelle sembravano vicine tale da poterle toccare e invece era un'illusione ottica. Girai il collo, incontrando la sua faccia e mi voltai su un fianco per riposare un pochino. Chiusi gli occhi e percepii il suo tocco leggero mentre passava le mani nei capelli.
Sentivo di essere una protagonista delle favole... che alla fine si concludevano con il lieto fine.
Cenerentola sposava il principe con cui aveva ballato per una sola volta al ballo reale e indossava le sue scarpette. La rana si tramutava in principe. La bella addormentata si svegliava dopo anni col bacio del vero amore. Era tutto così estremamente... perfetto. Senza alcuna sbavatura. Senza alcun cambio di copione. Ma c'era un dettaglio da non tralasciare, cioè che la vita non poteva essere una favola all'infinito e i sogni restavano il prodotto della fantasia. Gli incubi... si avveravano sempre...
Attraversai i corridoi deserti dell'ospedale, guardandomi freneticamente attorno cercando di capire perché mi trovassi qua.
Un trillo assordante oltrepassava le spesse pareti e iniziai a correre verso quella fonte. Non poteva essere lontano da dov'ero, avevo riconosciuto quel posto... ed erano i corridoi del blocco operatorio.
Qualcuno aveva bisogno di aiuto e una volta giunta alla soglia della sala operatoria, le porte si aprirono di scatto e fissai un corpo abbandonato sulla barella.
Dov'era il resto della squadra? Dov'erano finiti?
Ero sola.
Fissai Giovanni collegato a quei macchinari, che stavano emettendo quel trillo assordante.
Che stava succedendo?
Perché Giovanni?
Che ci faceva lì?
Mi avvicinai all'istante.
«Gio...» Ansimai. «Gio...» Mi precipitai all'armadietto e spalancai con foga le ante, buttando a terra tutte le scatole dei medicinali che mi capitavano a tiro. Dov'era l'adrenalina?! Perché non c'era nulla che potesse servire?!
Notai il def e mi precipitai a togliere le piastre per poi avvicinarle al petto del giovane.
«Gio. Gio... Gio...» Le posizionai sul suo torace in punti diversi e azionai la prima scarica. Lo fece sussultare ma la situazione restò immutata. La linea era piatta. Ma non mi arrendevo, continuai con le scariche, una dietro l'altra, impugnando le due piastre con le mani tremanti. «Gio, andiamo, reagisci! Andiamo!» Il def non azionò la scarica. Ritentai. «Dai!» Il ragazzo non reagì, non aprì gli occhi, non fece nulla se non rimanere esanime. Gli occhi mi si colmarono di lacrime amare e lasciai andare le piastre, che caddero a terra con un tonfo sordo. Lo scossi per le spalle e mi piegai in avanti, avvertendo le ginocchia cedermi. «Gio... alzati! Alzati. Svegliati, per favore...» Iniziai a singhiozzare, poggiando la testa sul suo petto dove non sentii alcun battito cardiaco, era freddo e la sua pelle stava assumendo un aspetto cianotico sotto quelle luci soffuse. I singhiozzi ruppero un silenzio più devastante del vuoto che percepivo nel petto. Anche il mio cuore stava rallentando...
Aprii di scatto gli occhi e mi tirai su di scatto. Per un attimo, restai intontita per quel sogno tremendo che avevo fatto. Sembrava così reale, le mie suppliche, Giovanni privo di vita... no, per fortuna si era trattato di un incubo solamente. Tirai un sospiro di sollievo, ancora confusa da quelle scene e richiusi le palpebre:
"Non era nulla..."
Era beatamente crollato dal sonno. Ancora preoccupata, mi chinai di più, accostando l'orecchio alle labbra per verificare che stesse respirando.
«Che hai?»
«Niente...» Mi rimisi immediatamente dritta e sbattei le mani per pulirle dal terriccio, esattamente come feci per il leggins. «Ho controllato una cosa...»
«E posso chiedere cosa?»
Mi girai, osservandolo di sbieco. «Una cosa. Un'assurdità. Cosa te ne importa?»
«Va bene, calmati. Non ti arrabbiare, lottatrice.» Distolsi il volto per la figura che avevo fatto, ora passavo pure per una sfacciata guardona. «Puoi controllare quello che ti pare. Non ti chiederò un centesimo. Non potrei arrabbiarmi. È normale. Se fossi in me, anch'io lo farei. Dimostrerebbe che sono una visione divina.»
Arricciai la fronte. «Per l'amor del cielo, è così compiaciuto di sé stesso. Che saresti tu? Uno bronzo di Riace? Te manca il piedistallo.»
Lo sentii ridacchiare per poi emettere un piccolo rantolo di fastidio, massaggiando il braccio.
«
Cos'hai fatto? Per poco non è andato in cancrena, guarda qua...» Continuò a toccarselo e a lagnarsi. «Non so come risolvere il problema, ti viene in mente una soluzione, Federica?»
Mi indicai. «Stai insinuando che sia colpa mia?»
«Di chi sennò? Hai appoggiato la testa e si è intorpidito, guarda.»
«Non esagerare, non sono stati nemmeno cinque minuti.»
Fece schioccare la lingua. «Ti sbagli. Ti assicuro che per me è stata una vita.»
«Ah sì? È passato molto tempo, non è vero?»
«Non volevo dire questo, piccola lottatrice. Vorrei che non fosse mai finito.» ammise sporgendosi nella mia direzione. «Resterei con te così per sempre.»
Per sempre? Era un tempo più lungo di cinque minuti. Era davvero una vita. Stava parlando seriamente o erano le sue solite classiche battute?
Passai la lingua sulle labbra per inumidirle e poi girai gli occhi da un'altra parte. Infilai la mano in tasca per prendere il cellulare.
«Strano che nessuno ti abbia chiamato. Mi sorprende.»
Guardando la barra del notifiche, c'era una lista chilometrica di messaggi e chiamate perse di Angelina. Venti. Accidenti, non l'avevo sentito... eppure il volume era ancora al massimo.
Di solito, per le emergenze, cercavo di fare molta attenzione.
«Che esagerata.» commentò.
Sbuffai. «Tipico di Angelina. È la regina del melodramma. Adesso si arrabbierà da morire con me per non averla avvisata. Mi darà il tormento tutta la notte!» Vidi palesarsi un ghigno beffardo. «Che hai da guardare tu?»
Scosse il capo e allargò un sorriso. «Un attimo fa dormivi tranquilla come un angioletto. Eri così carina. Appena ti svegli torni ad essere scontrosa e infastidita. Anche se ti piace tenere il muso e grugnire, ti vedrò sempre come la donna bella e dolce che eri»
Ignorando il complimento - non richiesto - mi misi in piedi e ripresi a camminare.
[...]
Durante il tragitto verso la caffetteria continuò a parlare di quanto si fosse divertito sugli autoscontri, ma sinceramente non stavo seguendo chissà quanto il discorso. La mente era altrove e la sua voce diventò più ovattata, fondendosi al rumore prodotto dai pensieri che si stavano affollando nel cervello. Seguivo il gesticolare nevrotico delle mani, mentre ruotava il collo e mi rivolgeva il sorriso compiaciuto di un bambino che scartava i regali sotto l'albero.
Pensai che chi — nei libri — avesse scritto la formula "e vissero felice e contenti" per una volta potesse aver ragione.
Se esistesse un finale simile anche nella realtà e non solo lì?
"Non potremo essere i protagonisti della storia? Non potrei guardare questi occhi per tutta la vita? Perché... era difficile lasciarsi andare, non aver paura e non pensare a nulla?"
Si bloccò di fronte a me, continuando a fissarmi intensamente e rallentai il passo con le braccia incrociate al petto.
Si avvicinò di qualche centimetro, come se stesse cercando di carpire il motivo di tutta quella distrazione.
«Non guardarmi così.» Non avrei dovuto, ma continuai ad annegare in quell'oceano. «Oppure lo capiranno.»
«Che cosa?»
«Che sei innamorata di me.»
La sua affermazione mi fece abbassare lo sguardo e sbattere le palpebre per riprendermi da quella trance patetica. Indietreggiai per incrementare la distanza fra noi. «Che dici?! Ti ho detto di essere innamorata?»
Feci la parte della seccata, ma a quanto pare, non abboccò.
«Non c'è bisogno di dirlo a parole. Sono i tuoi occhi a urlarlo...» sottolineò avendo stampato in faccia un ghigno insopportabile, poi voltò le spalle per riprendere il cammino.
«Senti bello, non montarti troppo la testa. Non verrò più al parco con te.»
«Davvero?» Si girò. «Be', siamo stati già al parco. Ti assicuro che la prossima volta sarò ancora più creativo.»
«Come dici tu. Vado eh...» tagliai corto superando la sua figura.
«Buonanotte, principessa...»
Mi fece inchiodare il passo un'altra volta. Era stata la prima volta che qualcuno mi aveva fatto sentire un essere speciale. Era stato merito suo se quella serata che avevo reputato sempre la peggiore sotto molti aspetti negli anni fosse diventata migliore. Che poteri aveva su di me sto ragazzetto conosciuto per caso? La sua presenza mi aveva fatto mutare prospettiva, se non ci fossimo incontrati - non avrei superato gli esami, realizzato la mia carriera in campo medico, finendo per fare ciò che mia nonna aveva cercato di impedire con ogni forza: seguire il destino infelice dei miei genitori.
Mi girai guardandolo proseguire dalla parte opposta.
«Gio?»
Si voltò e aspettò. Lo raggiunsi e allungai le mani per appoggiarle sulle spalle, ma me le afferrò. Me le fece abbassare congiungendole con le sue.
«Conosco già quel trucco.» Sistemò da solo il colletto della giacca e restai impalata. «Grazie. Ci vediamo domani.»
Mi salutò con un cenno della mano, dandomi le spalle e accelerai l'andatura per andargli dietro. Lo catturai, intrecciando le mani attorno al suo addome e posai la testa contro la sua schiena. Percepii non solo un contatto nettamente diverso da quello avuto sotto la pioggia, il calore che si creava dall'essere stretti fino a fondersi in un unico corpo. Era una sensazione strana, un'energia potente. Strana ma... piacevole. Non so cosa mi stesse spingendo a farlo, ma non mi dispiaceva. A quel punto mi sfiorò le mani, sovrapponendo le sue e si rilassò.
Chiusi gli occhi e per un istante annullai ogni preoccupazione.
«È un sogno?»
Non gli risposi tenendo le palpebre serrate fino all'ultimo. L'arrivo di un taxi che aveva svoltato nella traversa me li fece spalancare di colpo e mi staccai da Giovanni dileguandomi il più in fretta possibile.
Che vergogna se ci avessero visto! Che cosa mi era venuto in mente? Ero impazzita! Totalmente!
Tutte quelle sorprese avevano contribuito a farmi perdere il controllo. Dovevo tornare in me.
Mi fiondai in caffetteria buttandomi su una sedia con le mani premuta sulla fronte e il cervello con l'interruttore su off.
Ed ero una abituata ad avere tutto sotto controllo, ma quello era andato a farsi benedire.
Giovanni
Come al solito, la brunetta appena vedeva un presunto pericolo palesarsi scappava più veloce di una gazzella. Sorrisi tra me e me ripensando a quel gesto, vedendo la castana scendere dal taxi e fermarsi alla mia vista.
«Oh, dottore!» esclamò stupita.
«Angelina, ciao.»
«È di nuovo qui dalle nostre parti a quest'ora...» Sembrò ammiccare.
«Ho accompagnato Federica.»
Si alzò sulle punte delle scarpe per gettare un'occhiata alle mie spalle. «Non mi dire... Se n'è andata in fretta, mi era parso di aver visto un coniglio pauroso.»
«Si chiamava Bianconiglio.»
«Sono molto carini i coniglietti con quelle orecchie morbidose, anche se preferisco gli unicorni. Comunque...» Sviò quel discorso schiarendo la voce. «Credo che abbia risolto il complicato cervello che ha.»
«Non sarei così precipitoso, dopotutto si tratta di Fede. Ed è così imprevedibile...»
«Be', ma se la ama, sopporterà anche i suoi malumori e le giornate "storte".»
Accennai un movimento su e giù con il capo. «Dici?»
«Naturalmente.»
«Ok, lo annoterò.»
«Lo leggo spesso sui social, adoro questo tipo di frasi.»
Forse stava divagando, perché non aveva così tanto senso.
«Angelina, sembri stanca. Dovresti andare a riposare.»
«Sì, vero. Ne ho bisogno.» Annuii. «È stata una lunga giornata. Però è finalmente finita. Dopo tutto quello che è capitato... quindi arrivederci. Ci vediamo, dottore.»
Mi fece un cenno di saluto con la mano, sorridendomi, e mi oltrepassò spedita. Non passava più nessuno sul marciapiede e decisi di incamminarmi per rincasare, anche se dubito avrei chiuso occhio fino al mattino.
[...]
Iniziai a sfogliare la cartella medica per poi chiuderla e riporla sul carrello.
«Come ti senti?» chiesi al motociclista, l'amico di Federica.
«Bene... Penso di non stare male.»
«Hai una bella cera in effetti» Concordai estraendo la torcia per puntarla prima in un occhio e poi nell'altro. Si lasciò visitare senza opporre resistenza e gli chiesi di stringermi la mano. Lo fece con incertezza. Poi anche con la destra. «Ottimo. Diamo un'occhiata a queste gambe.» Mi alzai scoprendole. Gli ordinai di sollevare la gamba e tirarla verso il corpo, così da capire se la guarigione procedeva e molto presto sarebbe tornato in piedi.
«Credo che l'operazione sia andata come sperava. Non riesco a muovere nessuna delle due.»
La mia espressione d'un tratto diventò seria. «Non dire sciocchezze.» Tirai immediatamente fuori la mia penna e sttofinai il tappo sotto la pianta, osservandolo. «Lo senti?»
«Non sento nulla. Perché dovrei dire sciocchezze? L'hai fatto... perché volevi allontanarmi da Federica. Sai, la vendetta è un piatto che va servito freddo.»
«Troppo infantile. Non è il mio stile.» dichiarai con un sorriso furbo, facendo scivolare la penna nel taschino. «Sei stato un pazzo con la moto e non c'è altro da dire. Ammettilo, sei stato imprudente, Nicolò.»
«Giusto. Sa una cosa, dottore?» Mi fissò. «Io e la sua fidanzata siamo sempre stati spericolati. Siamo amanti del brivido.»
«Vuoi dire che ti sembriamo fidanzati?» chiesi con particolare curiosità mista a malizia.
«Non lo siete?»
Feci spallucce. «Chi lo sa?» Il riccio aggrottò le folte sopracciglia, ma qualcuno entrò nella stanza e mi fece distogliere l'attenzione dalla conversazione.
«Dottor Rinaldi, la stavo cercando.» Sembrava che avesse corso dal modo in cui ansimò.
«Ch'è successo, Manu?»
«C'è un'emergenza in pronto soccorso. Ho bisogno che venga.»
«D'accordo.» Mi voltai verso il mio paziente, dicendogli di continuare a fare gli esercizi e al tempo stesso di riposare senza stancarsi troppo. Lo avrei controllato più tardi, appena avrei terminato con il nuovo caso. Prima di tallonare l'infermiera, mi premurai di coprirgli le gambe e accennò un sorrisetto per ringraziarmi, a cui risposi con un cenno della testa.
Uscii e in compagnia dell'infermiera percorremmo il corridoio. Il mio sguardo incrociò quello di una ragazza bionda che veniva dalla parte opposta ma la cosa che mi restò impressa fu l'espressione assente che aveva sul volto, l'andatura strascicata, le mani affondate nelle tasche. Sicuramente faceva parte del personale, ma avevo troppo da fare per soffermarmi a riflettere a lungo.
«Dov'è?» Chiesi a Gianmarco che mi guidò verso il lettino circondato da una schiera di persone che mi ostruivano la vista. Appoggiai la mano sulla spalla di un uomo per farlo spostare e inquadrai una ragazzina che doveva avere circa quattordici anni, a cui sanguinava un orecchio e da cui spuntava un ferro per la maglia. Mi paralizzai e schiusi le labbra mentre notavo la tristezza dilagare nei suoi occhi.
«Non sono pazza. Non sono pazza...» implorò con voce sottile sul punto di scoppiare in lacrime e vidi le stringhe che le intrappolavano i polsi. Le impedivano di muoversi. «Non sono pazza! Non sono pazza... liberatemi, per favore...»
«Fate rapporto immediatamente all'otorino, ditegli di venire.»
«Subito, dottore!» rispose Mattia, uscendo dal pronto soccorso.
«Lusy... l'è stata diagnosticata la schizofrenia da piccola. Si è conficcata un ferro da maglia nell'orecchio durante un attacco» mi informò Gianmarco intanto che guardavo con attenzione l'adolescente, che continuava a ripetere come un loop la frase. Implorò i genitori di portarla via. Ruotava il viso su tutti o nessuno.
«Ciao... Lusy, ciao...» Tentai di intavolare una conversazione con un tono pacato. Mi guardò. «Sono Giovanni, un medico. Non aver paura, voglio aiutarti.» Provò a muovere con le braccia e tesi la mano. «Fidati di me, ok? Calmati, per favore.»
«Slegami...» biascicò.
Cercando di capire meglio la dinamica mi rivolsi alla coppia, probabilmente i genitori che l'avevano accompagnata.
«Com'è successo?»
«Non è la prima volta. Abbiamo registrato ogni attacco che ha avuto. Pensavamo che sarebbe stato utile avere un registro.»
«Non dorme, né mangia. Ogni minima cosa fa scattare queste crisi. Anche se solamente le parliamo... Lei impazzisce.» aggiunse la moglie intimorita.
«Durante l'ultimo attacco, ha preso il ferro di maglia della madre e si è pugnalata l'orecchio. Non siamo riusciti a fermarla!»
Presi un respiro e appoggiai la mano sul braccio dell'uomo. «Va bene, faremo il possibile. Venite con me, per favore.» Ci mettemmo in un angolo dell'ampia sala, lontani dalla ragazza. Si stava occupando Gianmarco di lei per disinfettarle quella ferita sanguinante.
«Dottore, ho distolto gli occhi per un attimo. Mi sono girata per un momento» raccontò la donna singhiozzando. «È possibile che una persona normale faccia una cosa del genere?»
«Basta! Basta! Dovete credermi! Credetemi, per una volta.» strillò la ragazzina, puntandosi l'ago di una siringa al petto, minacciando di trafiggersi e scattai all'istante.
I genitori impauriti le gridarono di non farlo, ma la ragazza aveva lo sguardo determinato a farla finita, gli occhi iniettati di muta e accecante collera. Non avrebbe ascoltato le suppliche.
«Calmati, per favore.»
«Dottore, c'è il diazepam!»
«Perché il diazepam?» Mi voltai di scatto verso Gianmarco. «Porta qualcosa per contrastarlo!»
La madre continuò a dimenarsi fra le braccia dell'infermiera continuando a supplicarla, non voleva perderla.
«Nessuno vuole credermi.» Si dondolò avanti e indietro con voce rotta.
«Lusy, calmati. Io ti credo, ok? Ma lasciala andare... È troppo pericolosa quella medicina. Allontana quella siringa dal tuo corpo, per favore.»
Scosse il capo. «Voglio morire. Voglio infilarmi questo ago qui dentro... e porre fine a questa sofferenza. Sono stanca.»
«No, ascolta, ti aiuterò io, Lusy. Posso aiutarti, se me lo permetti. Fidati di me, lascia andare quella siringa. Troveremo una soluzione.»
«Voglio morire.» Il padre la pregò disperato ma era cocciuta. «Mi infilerò l'ago nel petto e poi sarà tutto finito!»
«No, Lusy. Ascolta, ci sono altre alternative a questa. Fidati di me, ok? Ti prometto che ti aiuterò.»
«Non sono pazza. Nessuno può aiutarmi perché non sono pazza. Non sono pazza...» esclamò rafforzando la presa e continuò a piangere a dirotto. Doveva essere al limite delle forze per arrivare a compiere una follia...
«Lusy, credo a quello che dici, davvero. Lascia che la gente pensi a quello che vuole, perché io ti credo. Te lo prometto. So che hai un problema ma non sappiamo ancora cosa sia» La ragazza si dondolò con lo sguardo abbassato. «Ti prometto che lo scoprirò e lo curerò. Hai la mia parola. Ma per favore, devi aiutarmi. Dai, dammela» Allungai il palmo nella sua direzione e le si accese un barlume di speranza nello sguardo finora spento. Sapevo che aveva bisogno di certezze, fare il contrario peggiorava la sua situazione.
«Davvero... mi credi?»
«Naturalmente!»
Increspò anche un sorriso.
«E... mi prometti che lo curerai?»
«Sì, te lo prometto. Lo curerò. Dai.» La guardai di sottecchi e spostò lo sguardo sui genitori e tornò su di me. «Lusy, andrà tutto bene, credimi. Andiamo...» Abbassò lo sguardo e pensò il da farsi tenendo tutti i presenti col fiato sospeso, compreso me. La presa si allentò e lasciò cadere la siringa sul palmo della mia mano rompendo la tensione. La mamma le si buttò addosso, abbracciandola. Cedetti la siringa all'infermiere e il padre la rimproverò, dicendole che li aveva spaventati a morte. La madre singhiozzò. Purtroppo dovetti interrompere il momento familiare, per visitare la ragazza. Aveva un problema peggiore oltre le tendenze suicide.
Mi sedetti al suo fianco e le strinsi la mano nelle mie.
«Lusy, ho bisogno che stai calma.»
«Non mi crede nessuno, dottore.»
«Io ti credo, non preoccuparti» Avvicinai la mano per osservare con attenzione l'orecchio da cui spuntava quel ferro. Non sapevo il punto esatto di dove si fosse, era impossibile capirlo senza un esame approfondito. Le spostai i capelli e puntai la luce nell'occhio destro, la pupilla tremò visibilmente. «Il riflesso è normale» Passai dopo al sinistro. «Nessun riflesso. Gianmarco, hai ascoltato?» Il diretto interessato annuì. «L'infezione ha attraversato la cavità timpanica e ha danneggiato il nervo. Eseguiremo una Tac. Voglio vedere fino a che punto è progredita.»
«Va bene, dottore.»
«Lusy. Andrà tutto bene, ok?» Mi guardò dritto negli occhi più serena. «Aspettaci qui, per favore.» Annuì, assottigliando le labbra e mi rimisi in piedi. Dovevamo analizzare meglio gli esami e scoprire la causa di quei violenti attacchi. Magari non era quella la patologia. Perciò mi ritagliai un secondo in corridoio per parlare con i due.
«Dopo aver rimosso l'ago nella prima operazione, voglio eseguire altri esami su di lei.»
«Dottore, è necessario? L'è stata diagnosticata la schizofrenia anni fa.»
«Anche il nonno era schizofrenico. Si è suicidato a diciott'anni.» replicò la donna con le guance bagnate dalle lacrime. Potevo comprendere il dolore di vedere la figlia soffrire e sentirsi impotenti.
«Voglio solo farle qualche esame in più. Mi creda, capisco la disperazione e la stanchezza, ma qualcosa potrebbe essere sfuggito.»
Si fissarono a vicenda. Avevano tra le mani la possibilità di scoprire la reale causa.
«Silvio... Non posso sopportare di perdere nostra figlia. Che ne dici di fare un altro tentativo?» L'uomo abbassò gli occhi per pensarci e infine si decise di provare ad effettuare altri esami. Poteva trattarsi di un'altra causa. Magari la ragazza poteva guarire e tornare ad una vita normale.
«Faremo il possibile.» Lo rassicurai ponendogli la mano sul braccio e poi mi rivolsi al signor Petrelli. «Concentratevi sul cervelletto e sul ponte di Variolo durante la Tac.» Gianmarco annuì e si allontanò. Mi voltai verso i due timorosi e stretti in un abbraccio. «Non preoccupatevi, vostra figlia sarà seguita nel migliore dei modi.» La donna annuì e il marito abbassò lo sguardo contro il pavimento.
Qualunque cosa fosse... non avremmo lasciato nulla al caso.
[...]
«Come immaginavo, l'infiammazione è passata dal canale timpanico al nervo ottico. C'è una massa tra il cervelletto e il ponte.»
Osservai l'immagine della Tac nella sala radiologica.
«È un'emorragia?» chiese il moro.
«Sì, c'è una piccola emorragia. Dobbiamo estrarre l'ago prima che diventi più grande.» Alzai gli occhi verso il vetro che ci separava dall'altra stanza. «Gianmi, trova una sala operatoria libera. Preparala e fammi sapere, ok?»
«Ok, dottore.»
«La diagnostica per immagini del cervello potrebbe essere importante. Dopo faremo una risonanza magnetica» continuai senza staccare gli occhi dallo schermo del computer.
«Certo.»
Si alzò e abbandonò la sala. La ragazza era stesa sul tavolo, sotto il macchinario. Era stata sedata per precauzione, poiché era fondamentale che stesse immobile e non si agitasse. Incrociai le braccia e mi accarezzai il mento tenendo sott'occhio la paziente. Non avevo idea su quale fosse la diagnosi definitiva per quel disturbo... ma non mi sarei arreso facilmente.
Sarei andato a fondo.
Federica
Non me l'ero sentita di lasciarla a casa e afferrai la bambola dalla mensola dell'armadietto. Ripensai a quando Giovanni l'aveva vinta e me l'aveva regalata... e un sorriso fece capolino sulle mie labbra. Mi capitava di fissarla per molti minuti, sfiorare il cappellino blu che adornava i capelli legati in delle treccine. Mi faceva sentire un po' bambina. Il mio primo vero giocattolo. Infilai la bambola nella borsa e mi squillò il cellulare. Non avevo neanche messo piede in ospedale stamani.
«Pronto?»
«Ciao, Fede. Hai un minuto?» Mi stupì che dall'altra parte della cornetta ci fosse Tommaso. «Ho bisogno di parlarti.»
«Sono in ospedale. È urgente?»
«Per me lo è. Ti aspetto al bar qui di sotto, va bene?»
«Okay, arrivo...»
Agganciai la telefonata chiudendo l'armadietto e rimisi il cellulare in tasca uscendo dallo spogliatoio. Era appena cominciato il nuovo turno mattutino e già dovevo correre come un flipper a destra e manca. Ora pure Daliana che voleva parlarmi, senza darmi un indizio. Scesi al pianterreno, passando davanti a Matteo che chiacchierava con un collega in pausa salutandolo con uno sbrigativo "buongiorno", e mi diressi verso il tavolo dove mi aspettava Daliana.
Arrivai lì e mi fermai.
«Che succede?»
Sollevò la testa, smettendo di picchiettare il tappo della penna sul tavolo e mi accomodai dal lato opposto.
«Ciao...»
«Ci sono stati problemi con l'operazione di Rebecca?»
«No, per niente. Non c'è nessun problema.»
«E perché mi hai chiamato?»
«Non preoccuparti.» Si bloccò per guardarsi le mani mentre giocava nervosamente con la penna. Poi alzò di colpo lo sguardo. «Ti ho chiamato per dirti qualcosa su di me.»
«Ok, ti ascolto. Sei in vena di confessioni?»
«Ci ho pensato da ieri sera... E sono giunto alla conclusione, che non voglio tenerlo per me.»
Scossi la testa. «Che cosa?»
Fece un sospiro e deglutì. «Sai... sono molto schietto.»
Sorrisi. «Lo so, ho imparato a conoscerti. È evidente.»
Mi guardò dritto negli occhi. «Fede» Emanava una tale intensità che mi bloccai sulla sedia. «Tu mi piaci molto.» ammise e il respiro mi si mozzò in gola. Il sorriso mi si affievolì, come se mi fosse piombato addosso un macigno tale da farmi precipitare nell'incertezza. Schiusi le labbra sforzandomi di dire qualunque cosa, ma la voce non mi uscì affatto. «Finché non dirai di sì a Giovanni o a qualcun altro, anch'io lotterò per quello che voglio.»
Sbattei le ciglia perplessa e chiusi di istinto le palpebre.
Cavolo, in che situazione mi stavo infilando...
«Perché vuoi combattere?» Strinsi le mani in pugni.
«Questa non è una proposta e non ti sto chiedendo nulla. Volevo solo che te ne facessi una ragione, tutto qui» Tornai ad aprire gli occhi, senza riuscire a dare una risposta. In realtà, avrebbe dovuto odiarmi, non tollerare il mio orgoglio nelle decisioni di lavoro, ma quello? Non lo avrei mai immaginato lontanamente. «Non devi dire niente.» Chiusi la bocca rinunciando a farlo, ormai mi si era scollegata la mente. All'improvviso un boato attirò la nostra attenzione, qualcosa era piombato giù e sentimmo le grida terrificanti dalla gente che iniziò a correre.
Guardai verso quella direzione per qualche minuto e poi alzai gli occhi vedendo una finestra rotta del sesto piano.
Qualcuno si era buttato di sotto. Io e Tommaso scattammo nello stesso istante in piedi per correre verso un corpo riverso a terra. Mi inginocchiai, notando i graffi e tagli che le trasfiguravano la faccia, le braccia e dalla bocca fuoriusciva un rivolo di sangue. Spostai gli occhi sul rossiccio, accorso come gli altri e non riuscii a capacitarmi di come fosse potuto accadere.
Perché l'aveva fatto? Perché voleva gettare all'aria la sua vita e ciò che di buono poteva trovare?
[...]
La trasportammo immediatamente in pronto soccorso per darle i primi soccorsi, anche se le condizioni fin da subito ci parvero critiche. C'era il serio rischio che non l'avremmo neanche portata in sala operatoria. Ordinai al rossiccio di reggermi l'AMBU per continuare a pompare ossigeno e intanto recuperai velocemente le forbici per tagliare la divisa. Era una dei nostri, aveva la divisa. Tommy collegò gli elettrodi. Non potevamo perdere tempo, la sua vita era già appesa ad un filo.
«Portatemi due unità di sangue!» L'infermiera annuì e strinsi il laccio emostatico a monte della ferita, per interrompere l'emorragia.
«Cinquanta battiti al minuto.» Comunicò Matteo.
«Non sono pulsazioni, bensì attivazione di impulsi elettrici. Niente pressione sanguigna. Inizio la rianimazione.» Obiettò Tommaso sovrapponendo le mani per spingere sullo sterno. «Fede, intubala, forza.»
«Ok.» Mi spostai davanti per inserire la lama in bocca. «Vedo le corde vocali. Dammi un tubo da sette.» Mi rivolsi a Matteo che lo sistemò a sua volta visto che avevo le mani occupate. «Ambu» Collegai il pallone e gli dissi di attivare l'ossigeno. «Fissa il tubo per bene e continua a premere. Mantieni questo ritmo.»
Glielo passai di nuovo volgendo le spalle un secondo.
«Non ventila bene.»
Tornai alla barella e appoggiai le mani sul petto della ragazza. «Aspetta... Emotorace.» Disinfettai, facendo avanti e indietro dal carrello alla barella. «Entro con la pinza vascolare» Intenta a fare un incisione, il sangue schizzò e mi macchiò il camice facendomi immobilizzare. Il macchinario trillava, il monitor mostrava la linea piatta. Forse era stata una mossa azzardata...?
«Forse un polmone è collassato, tranquilla» Guardai di sfuggita il castano, continuando a svolgere il mio lavoro. «Abbiamo polso.»
Il dottor Riccardo si palesò nella sala. «Qualcuno è saltato dalla finestra!» Gettò un'occhiata in basso. «L'infermiera Nathalie...»
«È caduta davanti a noi.» spiegò Matteo.
«Come?»
«Non è caduta. L'hanno vista lanciarsi» Replicai.
«La saturazione è al 74%.»
«C'era polso quando è arrivata?» domandò.
L'infermiere dissentì. «No, dottore.»
«Ha perso molto sangue. Proviamo a posizionare un»
«Che numero le serve?» Chiesi con lo sguardo perennemente incollato a quel voluto. Ormai restavano poche probabilità che si salvasse.
Non mi capacitavo di come avesse preferito uccidersi per scappare da una realtà...
Come aveva fatto anche...
«Vai, Fede. È tutto sotto controllo.» Mi fece spostare e appoggiai la schiena alla porta traendo un respiro. Non riuscivo a capire che fosse scattato nella loro mente. Anche mia madre aveva pensato che eliminarsi sarebbe stata la soluzione più facile per scappare dai tormenti della sua vita? Si era ammazzata per la stessa ragione di merda?
«Fede...» Tommy si avvicinò osservandomi di sottecchi. «Stai bene?»
Annuii. «Sì.»
Mentre Wax urlava allarmato ch'era in arresto mi trascinai fuori col corpo, ma NON con la mente. La mente direi che era fossilizzata a quel cruccio. Aprii la porta per uscire e dirigermi a piccoli passi vicino al carrello dei medicali e appoggiai la mano. Ricordare i fatti del passato mi causava un buco nel petto, non ero mai riuscita a colmare la sua perdita. L'ultima volta che l'avevo vista in vita fu quando aveva ingerito quelle pillole e dopo si era stesa a riposare.
Mi ero avvicinata alla porta, mangiando il mio stecco di zucchero filato, ma senza mettervi piede, restando sulla soglia. Furono quelle le ultime immagini che conservavo di mia madre, prima della sua morte. Immagini che mi facevano tremare ogni volta le ginocchia e battere forte il cuore...
«Dottoressa Andreani!» Tre infermiere mi raggiunsero trafelate, strappandomi a quei pensieri torbidi e dolorosi. «È stata Nathalie a saltare?»
«Per disgrazia, sì.»
«Non ci credo...» Esclamò l'infermiera Emanuela portando le mani in testa. «Come ha potuto fare una cosa del genere?»
«Dottoressa, starà bene?» fece un'altra con la coda di cavallo.
«Mi è passata davanti. Si riprenderà?» chiese ancora sommergendomi di domande.
Abbassai leggermente gli occhi.
«Il dottor Riccardo sta cercando di salvarla.» Non aggiunsi altro, misi le mani in tasca e le superai.
[...]
Entrai in terapia intensiva percependo la sofferenza delle infermiere distrutte dopo la morte della loro collega.
Era impossibile restare indifferenti a una simile tragedia... e nessuno di loro lo avrebbe superato molto presto.
Mi diressi verso l'infermiera Manu che aveva difficoltà ad inserire l'ago e mi accostai.
«Va' a riposare, ci penso io.»
«No, dottoressa. Questo è il mio lavoro.»
«Non hai una bella cera. Va' a riposare»
Guardai le altre due che imboccarono l'uscita della sala. Dopodiché uscii, e li vidi sedute tutte e tre sul divano con il capo chino e la faccia appesa. Purtroppo mi doleva ricordare che la vita non si fermava nonostante le persone morissero. Il nostro lavoro non ammetteva distrazioni di alcun tipo...
«Ragazze, non fatelo. Tiratevi un po' su.»
«Non possiamo smettere di pensare a Nathalie...» ammise Manu con sguardo afflitto.
«Lo comprendo, ma ci sono persone che hanno bisogno di noi ora. Non possiamo abbandonarle.»
«Dottoressa, non pensa mai che questa potrebbe essere l'ultima volta che vede la sua famiglia?»
Conoscevo quella sensazione e anche bene, l'avevo vissuta sulla mia pelle prima con mia madre e poi con mia nonna. Entrambe mi avevano lasciato, quando ne avevo bisogno e non erano più tornate indietro.
«Guardate, ragazzi! Guardate! Lì!» Un tizio puntò l'indice accompagnato da uno stuolo di gente con le telecamere.
«Che sta succedendo?»
«Questa è Federica Andreani!» Sbraitò. «La persona che mi ha fatto questo!»
«Che state facendo? Questo è un ospedale! Tutti fuori!» tuonai, ma ignorarono le proteste e mi spinsero il microfono verso la bocca.
«È vero che senza il consenso del paziente gli ha trafitto la testa su un marciapiede? Che ha da dire al riguardo?»
Inquadrai il volto del tizio di mia conoscenza, quello del "raffreddore" e poi sulla mano che gli tremava.
«Ho fatto quello che dovevo fare. Per favore, toglietevi di mezzo o mi costringerete a chiamare la sicurezza. Fuori di qui! Questo è un ospedale! Aridaje!»
«Scusate, fatemi passare... Che sta succedendo qui?»
Giovanni si fece spazio per piazzarsi al mio fianco, venendo anche lui preso d'assalto da quei giornalisti da strapazzo.
«Questo medico ha commesso una grave negligenza.»
Giovanni fissò perplesso quella gentaglia e poi l'uomo.
«Sì! Guardate bene la mia mano... è irrecuperabile. Lei... è stata lei... quella donna a farmi questo!»
«Sta mentendo. Non è vero, gli ho salvato la vita ed è così che mi ringrazia.» Mi alterai.
«Fede, calmati.»
«Non riesco a calmarmi perché sta mentendo, non capisci? È ovvio!» Mi voltai prendendomela anche con Giovanni.
«Non sono un bugiardo. Domani presenterò una denuncia e manderò lei e il vostro ospedale in tribunale. Vedra!»
«Va bene, ok! Ci vediamo lì!»
«Ragazze, che fate lì impalate? Chiamate la sicurezza e ditegli di venire. Forza!» Poi un giornalista tornò a sobillarlo di domande su quell'intervento che secondo loro avevo sbagliato. «Non c'è stata nessuna negligenza, ragazzi.» Alzai gli occhi al cielo, esasperata. «La dottoressa ha fatto ciò che doveva per salvare la vita del paziente.»
«Salvarmi la vita?» replicò con una nota irrisoria nel tono. «Ed è così che agite voi medici? Mi avete rovinato la vita, sapete? Me l'avete distrutta! Vi farò causa.»
«Ok, va a sporgere denuncia dove cavolo ti pare! Stai ancora qua a perdere tempo?»
Agitai le braccia e la polizia arrivò per prelevarli mentre il tizio mi rammentava che ci saremmo visti in tribunale. Giovanni lo sgridò di non alzare la voce così e mi morsicchiai il labbro per tenere a bada la collera che infuriava in me.
Fosse stata quella Federica senza regole e ribelle... lo avrebbe fatto rimpiangere di essere venuto qua a fare sto' casino.
Giovanni mi accerchiò per le spalle. «Stai bene?»
«Ti pare che stia bene, Giovanni?! NO! Gli ho salvato la vita, capisci che sta mentendo?»
«Lo so, Fede.»
«Dovevo intervenire. Era mio dovere. Non ho fatto nulla di male nel salvarlo.»
«Certo. Certo... hai fatto la cosa giusta. È tutto a posto. Cerca solo di calmarti un po'.» mi suggerì e sbuffai, distogliendo lo sguardo. Poi mi allontanai. Per una volta, non poteva andarmi bene?!
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