Capitolo 7.1 - Costruire nuovi ricordi

Federica

Ho sempre perso le persone a cui ho voluto bene e forse anche stavolta sarebbe successo esattamente come le altre. Prima mamma. Poi nonna. E ora rischiavo di perdere anche Nicolò. Lì, in auto, con gli occhi sbarrati focalizzati sul suo corpo riverso sull'asfalto, la moto mezza distrutta finita più in là... per un attimo, il mio cuore sprofondò nelle viscere. Ignorando la voce strillante di Giovanni dal cellulare, spalancai lo sportello e mi catapultai in quella direzione.
Tirai dei colpi sul cofano della vettura. «Chiama un'ambulanza, presto!» Passai dall'altra parte per inginocchiarmi accanto al mio amico. «Enne!» Forse era svenuto, tenni in vita quella piccola speranza. Quel cretino non si sarebbe azzardato a morire, non adesso che mi aveva detto sarebbe rimasto a Roma, o lo avrei seguito all'inferno e preso ripetutamente a calci facendogli rimpiangere di essere morto. Appoggiai la mano sul torace, tirando più volte su con il naso. Era privo di sensi e un rivolo di sangue secco gli correva dall'angolo destro della bocca. Mentre il conducente allertava i soccorsi, gli slacciai il casco e tirai su la visiera. Per fortuna, l'imbecille l'aveva indossato e non aveva sbattuto la testa.
Lo vidi arricciare il naso accennando una smorfia di fastidio. «Enne! Riesci a vedermi? Enne! Chi sono?»

Il ragazzo socchiuse gli occhi e li veicolò su di me.

Accennò un sorrisetto.
«Un angelo? Sono in Paradiso.»

Il fatto che stesse vaneggiando mi rincuorò, voleva dire che almeno non aveva una commozione cerebrale. Quel cervello bacato era integro. Svuotai talmente tanto i polmoni con un sospiro che mi ritrovai a boccheggiare come un pesce.

«Riesci a muovere gambe e braccia? Puoi... muoverli?» Enne tentò, ma senza risultato. «Ok, ok. Tranquillo. Puoi almeno muovere le dita?» Riuscì a fare un piccolo movimento impercettibile, ma servì per stabilire che il corpo rispondeva ai comandi tattili. Feci un sospiro e sussurrai tra me e me. «Menomale.» Afferrai l'altra mano, stringendogli fortissimo le dita per rassicurarlo, che sarebbe andato tutto bene.

«Federica!» Qualcuno mi chiamò e sollevai la testa, vedendo Giovanni correre trafelato e scansare la folla di curiosi che si era appena formata. Probabilmente la mia non risposta di poco prima gli aveva fatto intuire fosse successo qualcosa. «Fede... stai bene?» Feci un confuso cenno d'assenso e poi abbassai il capo. «Ok, calma.» Portò le mani all'altezza del collo del ricciolino. «L'hai esaminato?»

«Ha una lesione spinale cervicale.» risposi a fatica.

«Va bene, tranquilla. Hai chiamato un'ambulanza?»

«Sta arrivando.» dissi tra un singhiozzo e l'altro. Probabilmente ero un vero disastro, in questo caso la veste di medico preparato non mi calzava per nulla.

Non si trattava di un paziente qualsiasi, c'era un legame affettivo e saperlo in pericolo mi rendeva agitata a dismisura. Sapevo da me che non era l'atteggiamento giusto, ma non era facile mantenere il controllo se una persona a cui volevi bene rischiava di morire davanti a te.

«Ok. Fede, bisogna rimanere calmi. Sei un medico!» mi rammentò e annuii. Sì, aveva dannatamente ragione. «Se crolli, allora crollerà anche lui. Ed è l'ultima cosa che ci serve. Coraggio, calmati.»

«Sto facendo quello che mi hai detto. Gli ho preso la mano e non intendo lasciarla.»

«Ben fatto. Non preoccuparti, lo salveremo.» Annuendo, abbassai la testa per non mostrare le lacrime che mi scendevano a fiotti sulle guance. «Siamo qui. Cerca di tenere duro.» A quel punto, l'ambulanza si palesò all'orizzonte e chiusi gli occhi, pregando che da lassù volessero concedermi una grazia divina. Le persone vociferavano attorno e Giovanni gli ordinò di lasciar passare i soccorsi, che arrivarono portando la tavola spinale. Giovanni intimò di fare tutto con prudenza per non danneggiare il midollo e creare dei danni irreversibili. «Fede» Al suo richiamo rialzai la testa. «Puoi aiutarmi?»

«D'accordo. Che devo fare?»

«Devi toglierli lentamente il casco mentre gli tengo il collo. Stai molto attenta.» Allungai le mani tremanti e, - come mi aveva spiegato-, glielo tolsi con delicatezza. Si occuparono con altre manovre calibrate, ruotandolo prima su un altro e poi sull'altro di trasferirlo sulla tavola spinale e allacciarono le cinture attorno al corpo. All'improvviso sputò un grumo di sangue, annaspando.

«Non respira! Non respira!» mi allarmai e Giovanni alzò il palmo, chiedendomi di stare calma. "Al diavolo la calma!" Il mio amico stava per morire.

«Uno stetoscopio!» Uno dei portantini se lo sfilò dal collo e glielo consegnò. Giovanni infilò la campana al di sotto della maglietta. «Ha bisogno di un intervento urgente. Se la respirazione non torna normale entro trenta minuti, è in pericolo.» Senza perdere tempo, sollevarono la tavola e lo trasportarono verso l'ambulanza. Giovanni riportò lo sguardo sulla sottoscritta e appoggiò la mano sulla scapola. «Andrà tutto bene.» Feci di sì, scansando quel contatto per dirigermi all'ambulanza. Mi ero ripromessa di non fargli mancare il mio supporto e intendevo mantenere la parola data. Enne aveva bisogno di me. Ed io che non morisse, altrimenti non mi sarei mai perdonata di avergli proposto quell'uscita.

[...]

Giunti in ospedale, aprirono velocemente le due portiere e scendemmo la barella mentre Giovanni spiegava a grandi linee le condizioni del paziente.
Lo conducemmo in pronto soccorso e una volta lì, gli strappai la maglietta. Dovevo controllare che non ci fossero altri danni e mi immobilizzai alla vista di una vistosa cicatrice sul lato sinistro del torace. Non sapevo che ce l'avesse, neanche ricordavo quel particolare. Mi pietrificai, la fissai perplessa e attirai l'attenzione di Giovanni.
«Che succede? Ha una cicatrice. È stato già operato in passato. Lo sapevi?» Negai con la testa. «Fe, lascia, ci penso io» Mi fece allontanare e si accomodò al capezzale, avvicinando l'ecografo. Posizionai le mani sui fianchi, osservandolo eseguire un'ecografia dell'addome.

«Sono qui, dottore.» Esordì il biondino.

«Mattia, prepara un posto in terapia intensiva. Faremo emocromo completo e monitoreremo la respirazione.»

«Certo, dottore.»

Continuò a osservare minuziosamente il monitor. «Potrebbe avere la membrana danneggiata.»

«Ha una costola rotta, che ha lacerato il polmone. C'è contusione ed emotorace.» Enne annaspò gorgogliando con la bocca, tentando di muoversi. «Non riesce a respirare...»

«Prendetemi un tubo toracico da 32F. Devo drenare l'emotorace»
Portai la mano alle labbra. Era una procedura senza anestesia, era vigile e poteva avvertire intensamente il dolore. Purtroppo era troppo debole per tollerare anche una minima dose di anestetico. Incrociai le braccia al petto sentendo il mio corpo fremere. «Bisturi.» Se lo fece passare. «Fede, tienilo fermo.» All'inizio restai impalata sul posto e fu costretto a ripetermelo prima che abbandonassi velocemente la posizione statica per passare dall'altra parte del lettino. Con forza, tenni bloccate le braccia del riccio e quando affondò il bisturi nella sua carne, distolsi il volto privandomi di quel lugubre spettacolo. Enne strinse i denti e per mancanza di fiato non riuscì a gridare. Ma sapevo che stava soffrendo dal modo in cui alzava e abbassava ritmicamente lo sterno. Sperai - per la prima volta - che la sofferenza finisse. Puntai lo sguardo sul ragazzo e mandai giù la saliva. Tutto il sangue venne drenato via ed Enne finalmente provò sollievo. Anch'io mi lasciai andare ad un sospiro e mi accasciai accanto al lettino, con la mano premuta sulla fronte. Nemmeno in tanti anni di tirocinio ero stata stata così in ansia, ma la fase peggiore era ormai passata. Il respiro si era regolarizzato. «Ora è fuori pericolo.» Guardai il mio amico che si era calmato dopo aver passato l'atroce momento e poi spostai gli occhi su Giovanni, che anche se intento a suturare, increspò un sorriso. Ne strappò uno anche a me. Potei ritenermi fortunata che ci fosse stato lui e avesse salvato la situazione.

Giovanni

«La struttura del mediastino si è spostata. Che possiamo fare?» chiesi alla mia brunetta, osservando i risultati della lastra.

«Una... lobectomia, presumo.»

«Sì. Mentre ci prepariamo per l'operazione, chiedi un consulto al chirurgo generale.» ordinai a Mattia consegnandogli il tablet che, in quel momento, era nelle mie mani. Assentì. «Cerca la sua anamnesi» Poi fece il suo ingresso l'esimio dottor Paolo Svevi e mi alzai, portando le braccia dietro alla schiena.

«Qual è la situazione?»

«Lo esaminerà lei?» Domandò Federica brusca.

Osservai la ragazza al mio e poi il medico veterano, che ignorò bellamente la domanda. «Mattia. Sto aspettando.»

Quest'ultimo gli passò il tablet.

«Secondo i risultati, ha la milza spappolata, dottore.»

«Deve essere tolta.»

«Non l'ha nemmeno guardato!»

Alzò gli occhi a rallentatore inchiodando quelli della persona che aveva parlato. Federica continuò ad avere lo sguardo dritto, puntato in quello di Svevi. «Sta mettendo in dubbio le mie decisioni, signorina Andreani

«Stavolta, sì.»

Nella sala inevitabilmente scese un silenzio carico di tensione. Sentii di dover intervenire per evitare che finisse peggio. «Fede... Possiamo parlare fuori un momento?» Mi guardò di sfuggita e senza indugiò si recò all'uscita. La seguii, lasciando Mattia e il signor Paolo e dopo aver varcato la porta d'accesso della terapia intensiva, si bloccò.

«Che succede?»

«Succede che devi darti una calmata.»

«Non posso stare calma. Non posso lasciarlo nelle mani di quell'uomo.»

«Quell'uomo, come dici tu, è uno dei medici veterani e occupa una posizione molto importante qui.»

«Gio, che dici? È stato lui ad uccidere mia nonna. E non posso dimenticarlo.»

«Non abbiamo nessuna prova che conferma quello che affermi.»

Corrugò la fronte senza smettere di specchiarsi nei miei occhi, poi assottigliò le labbra. Per qualche minuto, si limitò solo a scrutarmi. «È così che ti fidi di me?» Mi scagliò quelle parole dritto al cuore come una pallottola, facendomi perdere qualche battito. «È questo "Giovanni" carino e affettuoso che, in quel parco, mi ha detto guardandomi negli occhi, che si fidava di me. Credevo fossi sincero.» Tentò di andarsene e le sbarrai la strada col braccio.

«Fede, sei fuori strada.»

Svevi uscì, impedendoci di continuare la conversazione e gettandole un'altra occhiata inquisitoria, l'uomo mi fronteggiò.

«Ho chiesto che gli facciano altri esami. Mi avviseranno quando arriveranno i risultati. A proposito, le manderò sull'email la cartella medica di un paziente privato.»

«Che intende per "privato"? Devo operare un paziente con una certa urgenza, lo sa.»

«Si tratta di una questione oltreoceano, sono stato contattato direttamente dall'Australia. Vogliono esplicitamente te, controlla il prima possibile il report.» L'uomo dopodiché spostò gli occhi poco dietro su Federica che, per fortuna, non aveva fiatato. Quando si allontanò, ritornò rapidamente in terapia intensiva per stare accanto al motociclista. Non l'avevo mai vista tanto preoccupata, doveva avere molto a cuore il ragazzino che, anni fa, l'aveva portata via da me. Restai piantonato ad osservare dalla piccola finestra e venni raggiunto da Riccardo.

«Mi hanno appena detto che un amico di Federica ha avuto un incidente.»

«È fuori pericolo, lo porteremo in sala operatoria per l'intervento.»

Riccardo fissò dalla finestra per un breve momento. «Nicolò...» Poi mi guardò. «Non è in grado di restare lontano dai casini.»

«Lo conosci?»

Annuì. «È un truffatore senza vergogna.»

«Che vuoi dire?»

«È meglio tenerlo più lontano possibile da Federica, fidati. Non è un tipo raccomandabile.»

La diretta interessata uscì, ritrovandosi addosso lo sguardo di rimprovero del suo mentore in procinto di aprir bocca, e roteò gli occhi. «Per favore, ora non è il momento della paternale.»

«Va bene, sto' zitto. Come stai?»

Federica sospirò, ponendo le mani sui fianchi. «Sto bene.»

L'infermiere Lucido arrivò, comunicando di aver trovato la storia medica del paziente e lo invitai a proseguire.

«Ha precedenti di ferite da arma da fuoco. E... ehm... ha continuato la riabilitazione in prigione.»

«Cosa?»

Spostai in automatico gli occhi dalla bruna a Riccardo.

«Ecco qua, te l'ho detto. Questo ragazzo vive circondato di problemi e come se non bastasse non smette mai di crearne altri, Federica.» La mora si perse in una spirale di pensieri dopo la scoperta e preferì non rispondere.

Federica

Come aveva potuto tenermi all'oscuro di quella faccenda importante e non dirmi che addirittura era stato un detenuto? Con che coraggio mi aveva guardato tutto il tempo e riempito di menzogne? Non solo me, anche a Nina...

Più ci pensavo più la rabbia si intensificava fino a surclassare le altre emozioni. Da minuti fissavo il panorama, seduta accanto alla finestra con la cartella di Nicolò appoggiata su una gamba.
Deglutii, il chiodo fisso che fosse stato per i soldi che si era procurato chissà come, non mi dava tregua. Forse era finito in prigione a causa di quello e infatti non mi ero mai bevuta la storia del campo di terra. Ne ero sempre stata sicura e ora avevo la conferma. L'arrivo del moro mi strappò a quei ragionamenti e abbassai l'altra gamba. Mi osservò cercando di leggermi nella mente e si sedette.

«Hai fatto un buon lavoro finora, Fede.» Lo fissai di rimando. «Non entrare in sala operatoria.»

«Perchè?»

«Perchè se qualcosa va' storto, ti colpirebbe molto più di adesso.»

Nella vita non mi ero mai tirata indietro. Non avevo mai avuto paura di niente e nessuno. Nemmeno se le cose prendevano una brutta piega, trovavo una soluzione e me la cavavo.

«Sono forte, lo sopporterò.»

Abbassai la testa e rise.
«Sii debole, stavolta.» Tornai a guardarlo. «Non succederà nulla se per una volta non indossi l'armatura e non ti mostri una persona invincibile. Essere deboli non è una brutta cosa. Dammi il fascicolo.» Tentò di togliermelo di mano e lo afferrò.

«No, sto leggendo.»

«Andiamo, Fede. Non continuare a combattere quest'inutile battaglia»

«Non mi comporterò da persona debole e non scapperò di fronte alle difficoltà. Questo, mai.»

Giovanni accennò un altro sorriso. «Hai torto. Mostrarsi deboli non vuol dire non affrontare le difficoltà, ma dimostra che sei umana e provi dei sentimenti. Dai, dammi...» Lasciai scivolare via il fascicolo e lo cedetti.

Drizzai la schiena. Forse avevo combattuto troppe battaglie ed ero stanca. Ero stata messa a dura prova, vestendo i panni di una studentessa ribelle e nullafacente, poi trasformata in un dottore che credeva di poter salvare l'umanità, ma invece non era così. Avevo un limite che mi impediva di andare oltre...

«È difficile... per me.»

«Lo so.» Abbassai la testa lasciando che una lacrima percorresse la guancia e lui me l'asciugò con il pollice. Lo guardai di nuovo e decisi di accantonare ogni paura che mi infestasse la mente. Era meglio depositare le armi e lasciare che qualcuno lottasse al posto mio?

[...]

«Giovanni ti opererà. Poi, ti lasceremo nelle mani del chirurgo generale. Potrai tornare a guidare la moto. Andrà bene. Presto ci lasceremo alle spalle questo brutto incidente.»

Era la decisione più sensata non fare l'intervento e poi sarebbe stato nelle mani di uno dei medici eccellenti.

«Fallo... tu.» biascicò guardandomi con la coda dell'occhio a causa del collare.

«Cosa?»

«Voglio che mi operi... tu.»

«Giovanni è un ottimo chirurgo. Di lui, io mi fido.»

«Ho paura» Gli occhi mi si inumidirono e portai la mano alla bocca per sopprimere i singhiozzi. «Però se mi operi tu, non l'avrò.»

«Non posso farlo, lo sai. Non chiedermelo.»

Guardò dritto. «Allora non mi farò operare.»

«Non tornerai più a camminare!»

«Non mi serve. Preferisco togliermi la vita.»

«Non dire più cavolate Enne!» esclamai a denti stretti.

«Mi opererai?»

Un lampo di speranza saettò nei suoi occhi scuri e ghignò.

Portai la mano contro la fronte.
«

Va bene, lo farò, maledetto...»


«Grazie per tutto, Fe.»

Doveva aspettare a ringraziarmi.

«Ad una condizione.»

«Ti ascolto.»

«Dimmi perché sei stato in carcere e come ti sei procurato questa cicatrice.»

Socchiuse le palpebre.
«È una storia noiosa, direi un fottuto patetico cliché.»

«Nicolò...»

«Ok, dottoressa Andreani, ok. Quando mi avrai operato te lo racconterò.»

Bene, almeno avevamo un accordo, era un dare e ricevere visto che mi aveva costretto a prendere parte al suo intervento, pur non essendo nella condizione morale di farlo. Cercai di essere positiva. Doveva andare bene, per forza.

Giovanni

Svoltai il corridoio per dirigermi al blocco operatorio, mi avevano comunicato fosse tutto pronto, e incrociai il signor Paolo, che smise di intrattenersi a chiaccherare con il collega per unirsi a me. Esordì insistendo con la questione del rapporto sulla paziente straniera, ma ero stato troppo impegnato nelle ultime ore, da non potermi concedere una pausa caffè.

«Non dimenticarlo. È una questione della massima urgenza. Quando leggerai il referto, te ne renderai conto.»

Schiacciai il pulsante dell'ascensore e le porte si aprirono, rivelandoci una Maddalena che come una paladina della giustizia aveva appena soccorso un uomo.
Le altre persone si catapultarono fuori dalla cabina in men che non si dica poi e il padre la chiamò, facendole alzare la testa. Volle sapere che stava facendo e una ragazza le posò la mano sulla spalla, dichiarando che aveva salvato il suo genitore.
Un paramedico ci mise al corrente che erano rimasti bloccati e fosse stata una fortuna per Maddalena essersi trovata al momento giusto per intervenire. Per la prima volta aveva eseguito un intervento impeccabile, io e il padre ci guardammo a vicenda e poi virai gli occhi sulla ragazza. Ero felice che stesse intraprendendo la strada giusta per sé stessa.

Raggiunsi il blocco operatorio, trovando Federica intenta a scrollare le braccia dell'acqua e si voltò scontrandosi con la mia espressione esterrefatta.

«Che stai facendo qui?»

«Entro anch'io.»

«Ne abbiamo parlato.»

«L'ho promesso a Nicolò.»

Tirai un grosso respiro e acconsentì. «Ok...»

Mi sorpassò subito e varcò la soglia della sala operatoria. Toccò a me il lavaggio, poi mi introdussi dentro. Da quando avevo tolto le stampelle finalmente potevo muovermi agilmente e mi avvicinai al tavolo operatorio. Federica mi fissò e gettai un'occhiata al ragazzo sotto anestesia e collegato ai macchinari.

«Il rischio di emorragia è molto alto. Il paziente potrebbe andare in shock.»

«Preparate sei unità di sangue.» Ordinò la dottoressa Andreani ai presenti. Infilati i guanti con l'aiuto dell'infermiera e posizionai sullo sgabello.
Strizzai un occhio a Fede per rassicurarla e iniziai facendomi passare il bisturi. Appena praticai l'incisione il sangue schizzò e sporcò le nostre divise. Ci guardammo all'unisono.

«Aspiriamo!» ordinai ma la bruna restò immobile senza muovere un muscolo. Sollevai gli occhi. «Fede, torna in te e pensa ad aspirare!» Si mobilitò velocemente. «Calmati»
I nostri sguardi si incatenarono nello stesso istante e parve in difficoltà, come non l'avevo mai vista, da quando avevamo iniziato a lavorare insieme, come assistente e chirurgo-capo.

«C'è un danno all'arteria vertebrale. Potrebbe verificarsi un infarto.»

«Lo so, Fede. Dopo l'intervento faremo un'angiografia, se non è coronarica non sarà in pericolo.»

«La pressione sanguigna sta diminuendo.»

«La trasfusione procede correttamente?»

Guardò brevemente la sacca piena. «Sì...»

«Hai scoperto qualcosa?» domandai cambiando volutamente il discorso per distrarla dai brutti pensieri che le circolavano nel cervello.

«Di che?»

«Del perché sia stato in prigione.»

«Me lo dirà dopo l'operazione.»

«Certo. Allora bisogna salvarlo.» Sorrisi. Fede abbassò lo sguardo e annunciai. «Il paziente è stabile, chiudiamo.» La mia assistente alzò gli occhi al cielo roteando il collo e successivamente li chiuse, sollevata da quella buona notizia. Ora non restava che suturare. «Vuoi chiudere tu?»

«Certo.»

La vidi più rilassata.

«Ottimo.»

Passò dall'altra parte occupando la postazione e tolsi i guanti sporchi per comunicare all'équipe di informare il chirurgo generale. Li ringraziai e mi recai all'esterno lasciando il compito a Federica di concludere.

Uscendo in corridoio, mi scontrai con Maddalena che arrivava direttamente dal pronto soccorso e la fermai. Perché era in giro e non nella sua stanza? Era ancora debole per via dell'aggressione.

«Devo ammettere che sei stata brillante a salvare la vita di quel signore in quell'ascensore... ma non devi sottovalutare il tuo stato di salute. Va in stanza.»

«Dottor Rinaldi» la mia ex alunna sorrise. «Mi ha appena fatto un complimento oppure ho sentito male?»

«Perchè ti sorprende?» Fece spallucce. «Se ricordi, te lo dissi anni fa. Non c'è nulla che non puoi ottenere se credi in te e nelle tue capacità.»

«Se sapevo che la pensassi così... quegli anni sarebbero stati molto più spensierati per me.»

«Avrai comunque molti anni davanti a te da vivere. Niente è troppo tardi, Madda.»

La biondina tornò seria.
«A proposito dottore, com'è andato l'intervento di Nicolò? Mio padre è con lui?»

Il mio entusiasmo svanì e un'espressione turbata mi si dipinse in faccia. «Tuo padre?»

«Sì. Mi hanno detto che mio padre subentrerà nel prossimo intervento, perciò l'ho chiesto.»

«Ah davvero?»

Fece un altro cenno affermativo e adagiai di sfuggita la mano sul suo braccio, per poi far ritorno nel blocco operatorio. Se l'avesse scoperto Federica, sarebbe esploso qualche ordino nucleare. La sua antipatia per quel dottore superava di gran lunga il suo buonsenso e non volevo che capitasse una tragedia.

Federica

«Mi verrai a controllare ad ogni chiusura, eh, dottor Rinaldi?» lo presi in giro, asciugandomi le mani con la carta.

«Non sono venuto per quello.»

«Va tutto bene. Il Chirurgo generale si occuperà del resto.»

Giovanni, nonostante tutto aveva una faccia turbata e si limitò a rispondere "bene". Voltai la testa verso Paolo Svevi che si stava dirigendo nella nostra direzione e sorpassò per lavarsi le mani. Un momento, non doveva mica entrare? Che significava? Gettai un'occhiata alla sala operatoria e poi puntai gli occhi sulla sua figura china al lavandino.

«Che stai facendo lei qui?» sottolineò con tono severo.

Si girò di scatto. «Scusa?»

Fingeva di non capire?

«Non può operare Nicolò.»

Osservò Giovanni e poi me con la stessa faccia perplessa, che avrei volentieri preso a ceffoni
«Perchè no?»

«Conosci il motivo molto meglio di me.»

Non c'era bisogno che gli ricordassi ciò che aveva causato a me, ma soprattutto, a mia nonna che era stata una sua paziente e si era affidata a lui per il tumore allo stomaco.
Avrebbe dovuto curarla e invece aveva fatto l'esatto contrario.

«Dottor Rinaldi» Mi guardò in faccia. «I medici della sua squadra hanno dei seri problemi di rispetto. Farebbe meglio a correggere questo loro comportamento, se non vuole problemi in futuro.»

«Non le do il permesso!» tuonai a denti stretti, avvicinandomi a un palmo dal volto di quel disonesto.

«Non ne ho bisogno!» urlò.

«Federica!» mi ammonì Giovanni rimasto dietro di me.

«Stai oltrepassando il limite per la seconda volta, Andreani. Non sei nella posizione per mettere in discussione le mie pratiche di medico.»

Giovanni mi accerchiò le spalle. «Ci scusi. Ha ragione. Vieni con me» ringhiò, trascinandomi lontano, mentre provavo a divincolarmi.

«Lasciami!» Sbottai furiosa, strattonando il braccio. «Perchè ti stai scusando a nome mio?»

«Perché sei la mia assistente e hai commesso un grave errore.»

«Interromperò l'intervento. Non permetterò a quest'uomo di entrare.»

Puntai l'indice contro le porte e cercai di valicare il ragazzo dai baffi neri, ma si mise in mezzo.

«Federica, ascolta, sei arrabbiata e non stai ragionando con lucidità. Devi stare calma.» affermò, prendendomi le spalle.

Mi scrollai di dosso le sue mani con un violento strattone. «Quell'uomo ha ucciso mia-» Mi appoggiò il palmo sulle labbra per zittirmi.

«Ssh... Calmati, per favore. Ti sentirà qualcuno.»

«Non m'importa!»

«Fede...» Indurì la mascella e mi agguantò il braccio che ritrassi.

«Lasciami! Non lo lascerò entrare lì dentro. È un assassino.»

Tentai di superarlo ancora e ancora, dandogli spinte vigorose, ma non si mosse di un centimetro.

«Fede!»

«E se succede qualcosa di brutto? Non posso permetterlo!»

Ero paranoica, sì, ma avevo i miei buoni motivi e quell'uomo non mi ispirava fiducia. Giovanni era così ostinato ma io lo ero molto di più.

«Non accadrà. Starà bene, ok?» Mi strinse le braccia, parlandomi a pochi centimetri dal volto. «Non gli succederà nulla. Devi stare tranquilla, ok? Non gli succederà niente. Questo intervento finirà bene. Andiamo!»

Dopodiché, mi agguantò un braccio costringendomi a seguirlo, nonostante le mie innumerevoli proteste. Non volevo muovermi o andare da nessuna parte.

«Lasciami, non lo permetterò! Giovanni Rinaldi!» Intercettò una porta, la aprì e mi spinse all'interno di uno sgabuzzino, dove conservavano i macchinari in disuso. Mi tolsi furente la cuffietta e lo guardai in cagnesco. «Lasciami! Che diavolo fai, Gio?!»

«Non ti lascerò uscire finché non ti sarai calmata.» Detto questo, chiuse a più mandate la porta.

«Non puoi tenermi qui contro la mia volontà! È sequestro di persona.»

Si voltò, inspirando. «Sì, posso...»

«Quell'uomo ha ucciso mia nonna durante il suo intervento. E ora sta per operare Nicolò. Come pensi possa permettere che ripeta lo stesso sbaglio!?»

Giovanni mi prese per le spalle. «Fede, devi darti una calmata. Basta. Pensa positivo e tutto andrà bene. Fidati di me»

Mi liberai dalla presa con un forte strattone e non mi resto che sedere a terra con la schiena contro il muro. Mi ribolliva il pensiero che quel lestofante di Svevi la facesse franca un'altra volta e che la vita di Enne fosse interamente nelle mani di un uomo che si era già macchiato di un crimine, in passato. Dovevo starmene rinchiusa in questo sgabuzzino per colpa delle idee brillanti di quel nano malefico. Evitai di guardarlo per un bel po' con la mente ingarbugliata.

Angelina

«Niente...» Aspettai che la linea cadesse per la centesima volta e sbuffai. Il negozio, per fortuna, era vuoto peggio di un deserto e a quell'ora nessuno faceva un salto per ordinare cibo. «Non risponde. Credo proprio che spedirò la sua foto a Chi l'ha visto» Ovviamente mi riferivo a Federica, chissà dove si era cacciata la mia carissima coinquilina. Aprii la cassa e avevo guadagnato solo qualche spicciolo. La noia di nome e di fatto, a parte l'unicorno gigante e rosa che avevo fatto stampare sui volantini. Era tardo pomeriggio e qualcuno varcò l'entrata. Alzai gli occhi e rimasi sorpresa di vedere il rossiccio, il bad boy travestito da dottore affascinante.

Wax.

«Bene, non tutto il male viene per nuocere.» Mostrò delle marcate fossette ai lati della bocca e uscii dall'altro lato del bancone, per accoglierlo come una brava padrona di casa.

«Stavi per chiudere?»

«No, mi stavo chiedendo come sarebbe chiudere questo posto... ma guarda, è aperto! Lo posso aprire e chiudere quando mi annoio, visto che si chiama "la noia"» Ridacchiai, non sapevo nemmeno per quale battuta e il ragazzo alto mi fissò. Probabilmente pensava non avessi tutte le rotelle a posto, ma in fondo ero la leggerezza fatta a persona, impegnata ad avere la testa fra le nuvole. «Su, accomodati.» Mi ringraziò e si sedette ad un tavolo libero.

«Mhmm... Che potrei mangiare. In realtà non ho gusti esigenti. Ci sarebbe la coca cola?»

Mi posizionai di fronte al cliente e ci pensai, alzando gli occhi.
«Ti andrebbero le patatine fritte della mamma?»

Rise: «Che vuoi dire?»

«Non lo sai? Le fanno sempre così le nostre mamme!»

«Non saprei. Non ce l'ho una mamma.»

«Ah, no. Ti avranno raccolto sotto un cavolo.» Dissi per sdrammatizzare la tristezza.

«Più o meno. Non in un giardino. Mia madre mi ha lasciato alla porta di una stazione di polizia.»

«Oh... Mi dispiace. Davvero?» Fece un cenno affermativo e mi maledissi per aver toccato un tasto dolente, per lui. Avrei dovuto pensare prima di parlare. «È ingiusto. Mi dispiace...» Sbuffai. «Non avrebbe dovuto.» Abbassai il capo. «Sono desolata. Veramente. Perdonami, per favore.» Sospirai portando le mani alla testa e chiusi le palpebre. Avevo detto un mucchio di sciocchezze. «Me l'hai detto, e ho fatto una battuta di pessimo gusto. Che stupida!»

«No, no, no! Non sentirti in colpa. Credimi, sono passati così tanti anni e non ci faccio più caso.»

«Davvero?»

Wax annuì e posizionò le mani sui braccioli della sedia. «Cucina pure le patatine della mamma. Sono molto curioso di provarle!»

«D'accordo! Sappi che potrai mangiare qui le patatine fritte ogni volta che vorrai. E quello che non ti ha insegnato la tua mamma, te lo insegnerò io. Ok?»
Era il minimo che potessi fare per il poco tatto avuto prima.

«Che vuoi dire?»

Mi rivolse un sorriso gigante, a trentadue denti.

«Non so, potrei leggerti le favole della buonanotte, cantarti una ninna o rimboccarti le coperte. Farei qualunque cosa per sistemare il pasticcio che ho combinato.»

«E il bacino della buonanotte. Inserisci anche quello nella lista.».

Puntai l'indice. «Affare fatto.»

Mi diressi a preparare le patatine fritte più buone che avesse mai mangiato e mi alzai sulla punta delle scarpe per spiarlo dalla finestrella della cucina. Angelina, ora ti prenderà per una stalker...

Mi misi subito all'opera, prendendo tutto il necessario dalla dispensa e scaldai la padella sul fuoco, mentre intanto cominciai a tagliare le patate. In mezz'ora, tornai con un piatto ripieno di patatine fritte ancora bollenti. Il rossiccio ne intinse una nel ketchup e se la portò in bocca, mangiando di gusto. Mi guardò. «Queste patate sono squisite! Farebbero resuscitare un morto.»

«Sul serio? Lo pensi davvero? Sono felice che ti siano piaciute. Vorrei che Fede fosse qui e vedesse quanto sono stata brava. Dice sempre che ci metto poco sale! Si ricrederebbe! Dov'è finita a proposito? Sta perforando qualche cervello?»

Magari sapeva perché non si degnava di rispondere a quel cavolo di telefono.

«No, no. Un suo amico ha avuto un incidente e lo stanno operando.»

«Un suo amico?» ripetei e mi sfuggì una risatina isterica. «Io sono la sua unica amica.»

«E chi è Nicolò?»

A quel nome, per poco non mi saltarono gli occhi fuori delle orbite. «Che cosa?! Nicolò... ha avuto un incidente?»
Balzai in piedi con uno scatto irruento, rovesciando la sedia a terra, e scappai a razzo nel retrobottega per prendere il cappotto e la borsa. Perché Federica non mi aveva avvertita che Enne era stato ricoverato. Mi avrebbe sentito quella ragazza.

Federica

Giovanni telefonò a qualcuno per avere notizie sull'operazione, visto che per colpa sua me ne dovevo stare tappata in quello sgabuzzino. Poi mi informò che avevano quasi terminato e finora non c'erano state complicazioni. Tirai un sospiro di sollievo e ribadì di stare tranquilla.

«È stato molto infantile.»

Lo sentii contenere una risata. «Davvero? È bello essere un bambino e vedere il mondo da una prospettiva più semplice.»

Riportai lo sguardo sul giovane. La sua spensieratezza certe volte mi urtava. «Non per tutti. I miei ricordi d'infanzia sono terribili.»

«Non dire così, Fede. Non è essere dura con te stessa...» Chiusi le palpebre. «Avrai passato anche tu dei bei momenti.»

«Be', no.» Risposi schietta guardandolo.

«Impossibile. Non hai avuto un giocattolo preferito? Non sei mai stata ad un parco divertimenti o fatto un giro negli autoscontri? O ancora giocato a nascondino con i tuoi amici... hai mai mangiato uno stecco di zucchero filato, eh?»

Quella trafila di cose, ma soprattutto l'ultima, mi fece ritornare a fissarlo.

«Ai bambini piace lo zucchero filato. A me ricorda la fine della mia infanzia.» Ammisi.
Tutta quella dolcezza fu solo uno stupido pretesto per addolcirmi, quello che sarebbe capitato.
Mia madre rincasò quel pomeriggio e arrivò al piano di sopra mentre stavo colorando un disegno. Le maestre mi dicevano che apprendevo velocemente in classe e la mamma tirò fuori lo stecco che stava nascondendo dietro alla schiena, porgendomelo con un sorriso dolce stampato sulle labbra. Ero entusiasta, era ciò che adoravo. Mi accarezzò la testa, baciandomi sulla fronte e le chiesi di condividerlo. Rifiutò dicendo che era mio con altre carezze leggere sulla guancia, potevo mangiarlo tutto, se volevo. Si ritirò nella stanza da letto e, poco dopo, mi avvicinai alla porta che aveva lasciato socchiusa. Mordicchiai un altro pezzettino di quelle nuvole rosa e osservai da fuori, la mamma distesa e spalancai la porta per raggiungere il letto. Salii e le lasciai un tenero bacio sulla guancia, appoggiandomi poi sul suo petto. Le dissi buona notte, ignorando che quella sarebbe stata l'ultima giornata che avrei trascorso in sua compagnia.
Il mattino seguente, la mia vita si tramutò in un incubo.

Un incubo da cui avrei desiderato troppe volte di svegliarmi per tornare fra le sue braccia, l'unico posto in cui mi ero sentita al sicuro dalla prima volta. In fondo ero una bambina di sei anni, ma ero cresciuta in fretta, sperimentando poche gioie da contarle sulle dita di una mano. Mia madre mi aveva abbandonato e tutto era cambiato drasticamente.

Quel gesto era il suo addio a una figlia di cui non si era mai curata. Che infanzia di merda... la mia.

Abbandonata per ben due volte, come se fossi stata difettata.

«Non è stato più lo stesso per quella bambina.»

«Non volevo renderti triste. Scusa.»

«Non importa, lascia perdere.» Tra di noi regnò il silenzio e poi lo spezzai. «Stavi per dirmi qualcosa prima dell'incidente? Di che si tratta?»

«Non importa. Parleremo più tardi. Non è il caso.»

«Sei sicuro? Ti ricordo che non posso scappare da nessuna parte.» Gli provocai un sorriso.

«Un'altra volta.» Abbassai lo sguardo. «Sei più tranquilla?» Lo osservai con l'espressione di un tenero cucciolo mansueto. «Bene. Possiamo uscire?»

«Andiamo.»

Sorrise ampiamente e roteai la testa. Sembrava soddisfatto, come se avesse trovato il modo di addomesticare un piranha impazzito.

«So che, prima o poi, accetterai la mia proposta, Federica.»

Si rimise in piedi e mi porse la mano che afferrai per mettermi in piedi, stirando con le mani le pieghe sulla casacca blu. Giovanni spalancò la porta, ponendo fine a quella prigionia e mi fece cenno di uscire.

«Scusa, devo aver lasciato lì il cellulare»

«Dove?» Rientrò per ispezionare.

«Lì, non vedi?» A quel punto, aspettai che fosse distratto nella e chiusi la porta a chiave. Sentii la sua voce chiamarmi da dietro, ma ahimè, ci era cascato. «Sì, dottor Rinaldi?» cantilenai.

«Fede, ti stai comportando come una bambina.»

«Lo hai spiegato così bene prima che ho voluto provarci.» Tirai fuori il cellulare per comporre un numero e intanto continuò a protestare di aprire la porta. «Mhm... Adesso no. Voglio creare nuovi ricordi che possano compensare quelli della mia infanzia. Stai al gioco, Rinaldi.»

«Andreani... Abbiamo giocato abbastanza. Come tuo superiore, te lo ordino e... troverò comunque il modo di uscire.»

«Sì... okay.» Mi rivolsi all'interlocutore, allontanandomi dallo sgabuzzino. «Qual è la situazione in sala operatoria?» Domandai per poi staccarmi dal cellulare e informare un ragazzo di passaggio che in una stanza era rimasto bloccato qualcuno. Lui annuì e tornai a concentrarmi sulla chiamata.

«Nicolò de Girolamo è uscito dall'intervento, dottoressa.»

«Oh, okay. Vengo subito.»

Accelerai il passo, arrivando in terapia intensiva senza respiro e rischiai di investire l'infermiera intenta ad uscire. Guardai Svevi in piedi vicino ad una lettiga vuota. Non c'era traccia di Enne e slittai lo sguardo sul medico.

«Si calmi. È troppo irruente in questo periodo, Andreani. Il suo amico è stato trasferito in terapia intensiva. Le condizioni sono stabili. L'arteria vertebrale danneggiata non era coronarica. Se vuole scusarsi...» Dondolò su e giù la testa. «Venga a cercarmi.»

Mi sfilò accanto, riservandomi un'occhiata severa e se ne andò.

«Sarai tu a scusarti... sulla tomba di mia nonna.»

Se pensava che mi sarei inginocchiata ai suoi piedi allora non sapeva ancora con chi aveva a che fare e quanto ero disposta a spingermi oltre per incastrarlo. Prima o poi, ce l'avrei fatta.

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