Capitolo 6.3 - Fantasmi dal passato

Federica


Al mio arrivo, i due infermieri sembravano estremamente assorbiti dalla discussione, che stavano affrontando. Il rossiccio aveva in mano il tablet mostrando qualcosa al collega che, -a suo parere-, non andava. Alla mia vista si alzarono all'unisono, esclamando: "Dottoressa!".

«Perchè mi avete chiamato? Che succede?» chiesi rivolgendomi soprattutto a Wax.

«Beh, veda. Può controllare?»

Mi girai verso l'infermiere Zenzola che prese parola.
«È così strano. Non sappiamo cosa pensare. Nonostante i nostri sforzi, abbiamo totalmente il cervello in fumo.»

«Va bene, spiegatemi tutto.»

«Però potremo chiederle prima una cosa?» continuò Wax. «Può restare tra di noi? Non vogliono che altri dottori lo sappiano oltre lei.»

Rivolsi gli occhi al cielo. Sembrava che stessimo trattando un segreto statale, piuttosto che un caso medico.

«Mamma mia, ho altre cose da fare. Forza, parlate.»

«Dottoressa Andreani» Mattia gli strappò dalle mani il dispositivo per poi mostrarmi un'immagine. «Non siamo riusciti a interpretare questa radiografia. Potrebbe aiutarci?»

La fissai, prendendo il tablet. Come facevano a non capire? Erano medici dell'ospedale oppure dei dilettanti in questo mestiere?

«È una radiografia della schiena» Comunicai con molta tranquillità.

«Non è della schiena» mi interruppe il rossiccio. «Abbiamo fatto una radiografia toracica al paziente ed è uscito fuori questo! Non abbiamo commesso errori.» Tornai a osservarla, rendendomi conto che c'era qualcosa di strano e mi sfuggì una piccola risata dalle labbra. In uno dei libri di Medicina che avevo letto, era presente un caso analogo, seppur rarissimo, perciò i due tirocinanti si erano trovati in alto mare con quei ragionamenti.

«Questo è il situs inversus. Gli organi sono invertiti.» Guardai le loro espressioni perplesse. «È come se il corpo fosse il riflesso di uno specchio.»

«È stato pugnalato al petto e non è morto!» esclamò Mattia.

«Perchè il cuore non era localizzato lì» dichiarai.

«Incredibile! Dobbiamo assolutamente condividerlo!» Squittì il rosso tirando fuori il suo cellulare per poi scattare un selfie. Lo guardai di sbieco e indietreggiò bruscamente, togliendo di mezzo il cellulare. Non andavano divulgati i dati personali dei pazienti e questo doveva essergli chiaro. Esisteva una privacy, il famoso segreto professionale. Se lo avesse pubblicato su qualche social, ci sarebbero stati guai seri.

«È la prima volta che m'imbatto in un caso simile. Sono sicura che sarebbe lo stesso per altri medici» dissi appoggiando l'oggetto sul tavolo.

«Ragazzi, finalmente ho scoperto perché mi ha morso prima!» Annunciò Gianmarco entrando nella stanza e quando notò anche la mia presenza lì, sobbalzò perdendo la sua ironia.

«Dimmi, Gianmarco»

«Veda, dottoressa... Nel ragazzo che mi ha morso è stata trovata una sostanza nel sangue. Chissà cosa stavano facendo a quella festa!»

Spostai lo sguardo sulla faccia di Mattia, vedendolo trattenere forzatamente le risate stringendo il più possibile le labbra. «Non so cosa stessero facendo, ma ti pensavano una costoletta di maiale!»

Dopodiché scoppiò a ridere, seguito a ruota da Wax che si spinse verso il moro per tirargli scherzosamente le guance. «Almeno non hai preso la rabbia. Andiamo, bro', sopravvivrai!» Gianmarco infastidito dalla presa in giro gli tirò uno schiaffo sulla mano. Finsi di schiarire la voce per riportare l'ordine.

Gianmarco abbassò gli occhi, scusandosi per il teatrino montato dagli altri due e decisi quindi di andarmene. Dirigendomi verso gli ascensori, continuai a pensare alla storia buffa e non riuscii a celare un sorrisino divertito. Schiacciai il pulsante ed entrai nell'ascensore trovandolo occupato. Mi posizionai accanto a Giovanni, ch'era appoggiato con il gomito alla stampella e mi guardò. Di solito, non mi lasciavo andare così tanto, anzi mantenevo un atteggiamento serio. Ma il pensiero di Gianmarco morso al collo mi fece sghignazzare.

«Perchè ridi?»

«Hanno morso Gianmarco in pronto soccorso, e sto ridendo per lui.» Il ragazzo moro arricciò le labbra in un sorriso e guardai dritto davanti a me. «Ah, e poi la persona che l'ha morso ha il situs inversus.»

«Davvero? Organi invertiti? Beata te!»

«Avoja! Non puoi immaginare la mia gioia» In cabina scese il silenzio, disturbato dallo sferragliare dei cavi. Rintanata nel mio angolo, lo spiai con la coda dell'occhio e riaprii un'altra questione rimasta in sospeso. «Credo che... dobbiamo parlare di quanto è successo ieri.»

«Di che?»

Non pensava che l'avrei detto apertamente? Non era difficile arrivarci da solo.

«Ieri... hai capito.»

«Ho capito?» ripeté facendo la parte del finto tonto. Con questo "nano malefico" era sempre una fatica sprecata. Aveva voglia di scherzare, ma io un po' meno. Roteai il collo e alzai gli occhi. Tirai un altro respiro, riprendendo a fissarlo in quelle iridi chiare. Plasmò un sorrisetto furbo e distolse lo sguardo, facendo scorrere la lingua sugli incisivi. Infilò la mano nella tasca, estraendo il barattolino, ma quando tentai di afferrarlo, la ritrasse. «Per tua informazione, non c'è nessun anello.»

«Va bene, dammelo.»

«Se lo apri, non ci troverai alcun anello e ti dispiacerà.»

«Come se morissi per questo!» Avvicinai di nuovo la mano sfiorando appena la sua, ma la ritrasse di scatto. «Dammelo!»

«Credevo non lo volessi...»

«Me lo dai o no?» insistei.

Quel giochetto era durato fin troppo e mi stavo stancando dei suoi gesti infantili.

«Lo tengo io.» Guardò in alto, l'ascensore si era fermato a destinazione e si trascinò fuori.

«Guarda, sei uno stupido!» brontolai catapultandomi fuori anch'io e lo vidi allontanarsi per il corridoio a passo sbilenco. «Tanto me lo riprendo!» Rientrai in ascensore prima che le porte si chiudessero e diedi sfogo ai miei pensieri. «Fastidioso...» Si doveva sempre comportare come un bambino di cinque anni, mi stressava con quel suo comportamento. Ad interrompere il soliloquio, pensò il mio cellulare. Fissai lo sguardo un istante per poi rispondere: «Sì, Tommy? Mi vuole il dottor Riccardo?» Dovevo raggiungerlo in sala operatoria. «Ok, arrivo.»

L'ascensore si spalancò di nuovo e mi diressi fuori.
Dopo essermi cambiata i vestiti e preso tutte le accortezze necessarie, fui pronta ad entrare in sala operatoria, dove l'unico rumore udibile era il fruscio ininterrotto dei macchinari che controllavano i parametri. Il dottor Riccardo era a buon punto e feci il mio ingresso, avvicinandomi.

«Ti sei impegnata molto per questo caso, volevo che ci fossi.»

«Cardioplegia ritirata.»

«Molto bene, siamo pronti per chiudere - si voltò - Infermiera»

Guardai attentamente ogni movimento, anche il più piccolissimo, mentre stava utilizzando il defibrillatore nella cavità interna, dando una scarica all'organo. Dopo un leggerissima contrazione, purtroppo il cuore restò fermo. Il macchinario segnò ancora una linea piatta.

«Asistolia» ci informò l'infermiera. Gettammo un'occhiata al macchinario nell'attesa che avvenisse il miracolo e così fu: il ritmo tornò pian piano regolare, il cuore iniziò a contrarsi e a pulsare energicamente, sotto i nostri occhi nella gabbia toracica.
«Il ritmo sinusale è normale.»

Owen fissò per un momento il soffitto carico di sollievo per Sarah che aveva superato la parte peggiore. Chiusi le palpebre anch'io per un secondo.

«Vale la pena tutto lo stress che abbiamo attraversato.» dichiarò il mio mentore, sorridendomi da dietro la mascherina.

«È una sensazione incredibile.» concordai con un cenno d'assenso.

«Portate la paziente in terapia intensiva» ordinò poi.

Era andato tutto bene, secondo le nostre aspettative, bisognava aspettare che smaltisse l'anestesia e proseguire con la riabilitazione, ma c'erano buone probabilità, che potesse tornare a condurre una vita normale.

«Suo fratello vivrà con lei, per sempre.»

Owen fece di sì e indirizzò un'altra occhiata alla ragazzina. Eravamo soddisfatti dell'operato svolto e ci rivolgemmo uno sguardo di muto orgoglio. Non servivano parole, in quel caso.












Giovanni


Rimasi seduto ad un tavolo fuori l'ingresso dell'ospedale per concedermi un attimo di pace dallo stress e quel ritmo incalzante in corsia. Strizzai le palpebre, portando le dita al ponte del naso che strinsi e una smorfia si stampò sulla bocca.
A quel punto, un ragazzo biondo, capelli tenuti legati in una crocchia e l'anima un po' da rockettaro si parò dinanzi a me, rivolgendomi il saluto tipico dei commilitoni ai superiori.

«Edoardo Bori, al suo servizio!»

«Riposo soldato.» Tolse la mano dalla fronte e sorrisi ampiamente. Non era cambiato di una virgola dall'ultima volta. Non ci vedevamo da molto, forse dai tempi della scuola. Eravamo stati compagni di classe, poi le scelte ci avevano diviso, ma la nostra amicizia storica aveva resistito contro ogni pronostico. Edo si era arruolato nell'esercito, io invece volevo seguire le orme dell'uomo che mi aveva cresciuto ed avevo intrapreso la carriera da Medico. «Edo!» mi alzai dalla sedia per allungare la mano che mi strinse, poi lo attirai a me e abbracciai, ritrovandomi a sparire, dato ch'ero più basso di qualche centimetro. «Edo, bentornato.»

«Grazie, "comandante".»

«Come stai? Va tutto bene?»

«Bene, sì, sono sempre impegnato in qualche missione.»

«Ok, sono contento. Ti trovo in forma.» Mi complimentai e lo invitai a prendere posto al tavolo e si sedette dalla parte opposta. Non l'avevo contatto solo perché eravamo amici di vecchia data, speravo anche che mi aiutasse a sbrogliare quella matassa. Volevo condurre un'indagine per conto mio e i suoi contatti dell'esercito potevano tornare utili in qualche modo. «Scusami se ti ho scomodato a venire con tutto il lavoro che hai da fare in questo periodo.»

«È tutto apposto, comandante.»

«Mi sono chiesto chi potesse aiutarmi e mi sei venuto in mente... te.»

Il biondino annuì. «Mi sarei offeso, se avessi pensato a qualcun altro. Inoltre, non sono venuto a mani vuote. Ho trovato una cosa.»

Ritornai serio. «Veramente?»

«Non c'è niente di strano o fuori posto nel profilo di Nicola Borrello. Non ho trovato niente di sospetto. La sua fedina penale risulta anch'essa pulita.»

«Che ha fatto? Dove viveva? Voglio scoprirlo.» Avrei voluto chiarire quei dubbi che mi ronzavano nella testa, da quando questo tizio era morto. Sapevo con certezza che stesse cercando mio padre per una questione importante e il suo biglietto che voleva fargli recapitare ne era la prova. Sua figlia stava male e mio padre ne era a conoscenza.

«Era un funzionario di Medicina Legale. Ha lavorato a Torino per parecchio tempo.» spiegò e mi accarezzai dolcemente il mento con gli occhi puntati su Edo. «Successivamente è stato trasferito a Roma.»

«Torino?»

«Affermativo.»

«Si potrebbe risalire a quanti anni quest'uomo è stato lì?»

«Come ti ho già detto, non sono venuto a mani vuote.» Si abbassò per aprire la zip del suo zaino, prese una carta e poi la fece scorrere dalla mia parte. Erano scritte delle informazioni che riguardavano i suoi monumenti anno dopo anno. «Fino al 2012 è stato a Torino e in seguito chiese il trasferimento a Roma.» Allontanai gli occhi da quelle righe per squadrare attentamente il biondino rimasta anche lui con gli occhi fissi su di me. Che significato aveva avuto quel trasferimento nella capitale per quell'uomo?
Mi persi a contemplare il vuoto per un po'. Quella questione stava assumendo delle tinte ambigue per i miei gusti oltre alle figure che spuntavano sulla scena correlate ad Elena, la nonna di Federica. Il passato stava bussando alla nostra porta per invadere con prepotenza il presente e non ci avrebbe lasciato scampo, lo avremmo dovuto fronteggiare. Una volta che Edo se ne andò, tutti i ricordi tornarono a galla, invadendo il mio cervello. Quella buona donna, Elena Andreani, che mi aveva accolto nella sua piccola pensione alle porte di Roma... la sua immagine tornò a farmi visita. La rividi mentre facevamo colazione nel giardino della pensione, il suo sorriso quando rubavo il cibo dal piatto della nipotina, troppo indaffarata a ripassare gli appunti per l'esame che poi avrebbe passato con il punteggio più alto. Elena era cosciente del mio interesse verso Federica e immaginava già che potesse esserci un risvolto romantico, ecco perché mi aveva affidato Federica e il suo percorso scolastico. Quella donna ci aveva visto lungo. Eppure il destino non era stato magnanimo, se n'era andata troppo presto. Federica ne era uscita distrutta, ricordai il suo sguardo affranto l'ultima volta, mi aveva chiesto con fare nervoso "perché mi stessi intromettendo nella vita dei miei studenti", ma io volevo stare con lei, ero già innamorato e pazzo. Lei però mi allontano, mi disse di non incrociare più la sua strada. Poi vidi Nicola, che mi implorava di dare il biglietto a mio padre.
Di seguito, Federica che rifiutava di andare avanti - ignorando i fatti del passato - ma non ne voleva sapere e intendeva farla pagare ai responsabili. Era convinta con Elena non fosse morta per cause naturali, ma piuttosto per uno sbaglio umano. Lo avevano fatto loro e deciso- di comune accordo - di camuffarlo per proteggere il vero colpevole. Anche quando avevo parlato con mio padre, mi era parso "nervoso".

C'era forse qualcosa che non stavo prendendo in considerazione?









Federica

Camminai per il corridoio con le mani in tasca e un sorriso divertito stampato in faccia, quando iniziai a rallentare notando un uomo venire nella mia stessa direzione. Mi aveva donato la vita, ma alla fine l'aveva resa un inferno tutte le volte che disprezzava la sua famiglia per correre dalla sua amante che lo aspettava nel letto. Avrei voluto che sparisse dalla mia vista, ma a quanto pare era ancora qui. Lo guardai e continuai ad avanzare, con l'intenzione di passargli accanto senza degnarlo di una parola. Stavo per lasciarmelo alle spalle ma udii la sua voce e mi fermai. Era uno spudorato, chiamare la figlia dopo che per anni aveva fatto finta che non esistessi.
Mi aveva abbandonato in mezzo alla strada, come si faceva con i trovatelli quando non li si poteva più tenere per questione di spazi.
Mi voltai a rallentatore. Eccolo, mio padre, l'essere più rivoltante sulla faccia della terra. Non era mai stato un buon padre con me.

Chinò lo sguardo e strinse la cartella medica. «I risultati della radiografia di Rebecca. Non vuoi guardarli?»

«Non intendo farlo.» Mi fissò confuso, senza aprire la bocca. Anche lui aveva le sue colpe, ma l'idea era stata di sua moglie. «Mantengo la mia promessa.»

«Quale promessa? Di cosa parli?»

«Quando piangevo, quella notte, in cui mi hai buttato via come un rifiuto, ho promesso - lo fissai attentamente negli occhi scuri come il cioccolato fuso, simili ai miei - che non mi sarei occupata di te quando saresti invecchiato. Né di te, né di quella viscida vipera che hai per moglie.» Lo vidi abbassare gli occhi per la vergogna o il rimorso. Occhio per occhio. Dente per dente. «Che c'è?» Feci un piccolo passo in avanti, diminuendo la distanza. «Non ti arrabbi? Non sei più l'ombra che eri un tempo, hai perso la tua attitudine... Papà?» Sputai. Mi guardò di sottecchi, alzando di tanto in tanto la testa. «Per quanto ne so, il Lorenzo Andreani che conosco, alzerebbe immediatamente il suo pugno - fissai le sue braccia rimaste inerti al suo fianco - e mi avrebbe colpito in faccia, senza scrupoli. Non lo ricordi? Ma ora sono cresciuta. Hai paura che ricambi.» Quella risposta fu paragonabile ad uno schiaffo in faccia e la sua faccia da cucciolo bastonato fu una certezza. Avevo smontato la sua speranza. «Hai già avuto la tua condanna esemplare quando hai sposato quella donna. Non serve che rincari la dose. Prendi questo maledetto file. E trovati un altro medico. Non osare più incrociare la mia strada.» Detto questo, girai i tacchi e mi allontanai sempre di più con disarmante sicurezza. A quel punto una mano mi bloccò il braccio e Tommy si affiancò.

«Non ho potuto evitare di ascoltare la conversazione con tuo padre.» mi confidò.

Girai brevemente la testa in quella testa, di lui non c'era più traccia, si era volatilizzato. Guardai il giovane palestrato estremamente seccata. Erano fatti miei quelli. Come aveva potuto ficcanasare?

«Tu hai origliato?»

«No, ho sentito... senza volerlo.»

«Fa lo stesso. Non voglio arrabbiarmi. Be', che vuoi?»

«Accetto di prendermi cura della tua paziente.»

Mi lasciò a bocca leggermente aperta e gli occhi sgranati. Non mi aspettavo di certo che Tommaso Daliana conosciuto come un osso duro cambiasse idea così facilmente.

«Perchè hai cambiato idea? Ti ho fatto pena dopo aver sentito tutto? La sfortunata Federica abbandonata dal suo stesso genitore. Oh, ma che tragedia!»

Gli provocai un sorriso. «Non dire queste sciocchezze, Andreani. Puoi essere qualunque cosa, ma non saresti mai una donna per cui IO proverei pena...» Abbassai lo sguardo e portò il dito sotto il mento per alzarmelo. Mi costrinse a specchiarmi nei suoi pozzi scuri, ad un palmo di distanza dalla sua faccia. «E poi devo rivelarti che... anch'io sono cresciuto con una matrigna. So come ci si sente quando non sei amato. Penso che sia normale non occuparti di lei.»

«Non è l'unico motivo. È sempre stata una persona malvagia.»

«Comunque, lascia perdere. La opero io, ok?» Era stato gentile da parte sua farmi quel favore e gli sorridi per ringraziarlo.

«Grazie». Vedendo che un'infermiera di passaggio per la fretta lo stava per travolgere, d'istinto allungai le mani prendendogli le braccia e tirandolo bruscamente verso di me. Ci ritrovammo l'uno a qualche centimetro dall'altro e il giovane fece una faccia sorpresa.  «Sto diventando il tuo bodyguard, a quanto pare...» scherzai, allontanando le mani e rimettendole in tasca. A Tommy scappò una mezza risata ma il cellulare decise di interromperci. Lo salutai e mi incamminai, rispondendo a quella chiamata.

«Sì, dimmi...»

«Sei libera?»

«Più o meno...»

«Sono qui fuori. Devo dirti una cosa. Puoi venire?»

Faceva il vago, credeva di essere simpatico, ma il più delle volte era solo snervante. Mi fermai.
«Cosa succede?»

«È importante, Fede. Raggiungimi.» Si limitò a dire prima di agganciare. Fissai lo schermo per qualche secondo e rimisi il cellulare in tasca per riprendere il tragitto.

[...]

Giovanni Rinaldi non rendeva le cose semplici a nessuno. Non sia mai che lo facesse.

Non mi restò che recarmi a sull'appuntamento... - se così lo si doveva chiamare - e tolto il camice per la fine del turno, mi diressi nella direzione del moro che era palesemente immerso nei suoi pensieri e osservava il vuoto che lo circondava. Se ne stava seduto al tavolo e a quel punto mi accomodai, mettendo le braccia incrociate.

«Qual è la cosa tanto importante di cui vuoi parlare?»

Subito, sfondai la situazione e anche il silenzio.

Si staccò dallo schienale e parve tornare in sé per poi guardarmi intensamente negli occhi. «Federica» Poi fece una pausa come durante i discorsi solenni. «Prima promettimi una cosa.»

«Che cosa?»

«Ascolta. Qualunque cosa accada o affrontiamo rabbia, risentimento, odio... - sottolineò con un tono più greve - ho bisogno che tu mi prometta che non smetterai mai di amarmi. Anche se diventassi un tuo nemico... »

«Non posso prometterti una cosa del genere.»

«Perchè, no?»

«Perchè? Perché non ho mai fatto promesso a nessuno.»

Ed incluso anche lui. Non dovevo vincolare la mia vita e dover per forza dipendere da qualcuno. Difendevo la mia libertà. Non volevo legami profondi e così liquidai il ragazzo con un "Devo andare" piuttosto sbrigativo.

Mentre mi dirigevo verso l'ingresso, vidi il ricciolino distribuire volantini a manetta ad ogni passante che gli capitava a tiro. Mi bloccai per aspettarlo e si avvicinò. «Che ci fai qui?»

«Sto lavorando, baby.» rispose mostrando il dépliant che aveva il lago di un unicorno sbrilluccicoso... che brillava più dei brillantini che avevo regalato a Nina per Natale. Ad una star non servivano i brillantini, ma faceva fighe. E Nina lo era.

«Da Nina? E da quando in qua?»

«È così strano per te?»

«Strano? No, sono solo sorpresa.»

«È perché sto cercando di essere un ragazzo per bene? La tua Nina è stata molto generosa a propormi questo posto.» ipotizzò Enne.

«Nina è fatta così. Ha un buon cuore e grande sensibilità. E tu sei uno degli uomini più gentili che conosca» replicai, facendolo ridere. «Allora, stavolta non lascerai la città, no? Non te ne andrai via?»

«Né ora, né mai.»

Annuii e posai la mano sul suo braccio per dargli una carezza. «Sono contenta. Dai, andiamo che il mio turno è finito.»

Inarcò un sopracciglio. «Dove?»

«Sei invecchiato? In passato non avresti fatto tutte queste domande... » Mi fissò cercando di capire quale fosse la mia idea e lo invitai a seguirmi verso il parcheggio dove avevo lasciato il mio bolide. «Dai, salta su, tocca a me rapirti.»

Inclinò la testa, come a mimarmi "sei seria?".

«Non mi fido della guida di nessuno, dolcezza».

«Cristo, ragazzaccio! Tanto quel tuo catorcio che chiami moto lo guido meglio io di te...»

«Touchè, bad girl Andrè. La macchina te la lascio, io ti seguo.»

Visto che non riuscivo a fargli cambiare idea, acconsentii aprendo la portiera e mi infilai nella vettura. Lui intanto montò sulla sella, togliendo il cavalletto, poi tirò giù la visiera del casco e partimmo. Lasciai il parcheggio, immettendomi sulla strada principale, con Enne che si era posizionato a fianco. A lui piaceva quel brivido di rischio, di avere il vento che scompigliava i capelli, ti graffiava le guance, la velocità pompava il sangue nelle sue vene, come se fosse nato per essere uno "spericolato". Mi sorpassò all'istante e gli urlai dal finestrino, vestendo i panni una mamma premurosa:
«Sta attento!»

«Non ti spaventava nulla in passato! Che c'è adesso? Te la fai sotto?»

Qualcuno mi chiamò e dovetti spostare gli occhi dalla strada per prendere il cellulare. Lessi il suo nome che lampeggiava.

«Sì, dimmi.»

«Ti ho visto salire in macchina e non sono riuscito a raggiungerti. Dove vai?»

Da quando gli dovevo delle spiegazioni su ciò che facevo o meno nel mio tempo libero. Non aveva diritto di chiedermi niente sulla mia vita privata.

«Non sei stufo di parlare sempre della stessa cosa, G

«Non preoccuparti, non parlerò della stessa cosa. Ho delle cose importanti da dirti. Incontriamoci di persona.»

«Non posso. Sto andando da qualche parte con Nicolò.»

Quest'ultimo nel frattempo mi sorpassò ancora, passando avanti all'auto e Giovanni riprese. «Molto bene. Allora ascolta» assunse un tono serio e continuai a guardare la strada davanti a me. «Senti, Federica... quello che sto per dirti non ha nulla a che vedere con noi.»

«Dimmi, allora.» lo incalzai a proseguire.

Nicolò a quel punto stava per attraversare l'incrocio, ma un'altra macchina spuntata chissà dove all'improvviso gli tagliò la strada e lo travolse in pieno. Il ragazzo perse l'equilibrio e venne sbalzato via della moto, ruzzolando sul cofano anteriore, sotto il mio sguardo scioccato. Gli occhi si sgranarono così tanto che le pupille mi saltarono fuori dalle orbite, il respiro si mozzò. Lo vidi piombare sull'asfalto a rallentatore e schiacciai il piede sul freno producendo uno stridore delle ruote. Ero totalmente stravolta, con la bocca mezza aperta, notando i pezzi della carrozzeria volare qua e là e il mio amico inerme a terra. Non riuscii a rispondere ai continui richiami di Giovanni dall'altra parte della linee. Ero immobile, appiccicata al sedile, con le mani strette al volante che le nocche impallidirono.

Capitava sempre così, avevo sempre perso i miei cari, le persone a cui tenevo di più...

Appena mi rilassavo un attimo, - credendo andasse tutto per il meglio, - ero costretta a ricadere in un baratro di paure e fare i conti con una realtà a dir poco spaventosa. Ero una pedina e la mia vita una fottuta scacchiera.

~ fine sesto capitolo~

La prossima volta saremo più fortunati... forse.

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