Capitolo 6.2 - Fantasmi dal passato
Giovanni
«Papà? Voglio parlare con te» Esordii sedendomi vicini al suo capezzale, per esporgli i dubbi alimentati dalla questione dell'uomo, che gli aveva sparato. Non avevo ancora capito quale associazione ci fosse fra lui e Federica.
«Che succede?» domandò portandosi la mano alla testa, circondata dalle bende.
«Si tratta dell'uomo che ti ha sparato.»
«Nicola?»
Feci un cenno affermativo. «Papà, come fa quell'uomo a conoscere Federica? C'è qualcosa che non mi hai detto?»
Per un po', allontanò gli occhi da me, come se dovesse rifletterci. «Non capisco, figliolo. Che c'entra Federica in tutto questo?»
«Non lo so, papà. Mi ha detto qualcosa di lei e poi l'ha anche telefonata.»
«E quindi? Che ti ha detto su di lei?» chiese.
«Nulla di particolare. Ha solo detto di volerle parlare.»
Si ritrovò, a quel punto, a tartagliare. «E... che... che le ha detto? Gliel'hai chiesto di nuovo?»
Drizzai la schiena, mantenendo il contatto visivo. «Non è possibile. È troppo tardi per farlo.»
«Lo hanno dimesso?»
Schioccai la lingua sotto il palato. «No. È morto» dichiarai.
A quella confessione così diretta, mio padre arricciò la fronte. Certo, un uomo che aveva subìto un'operazione di un tale calibro, doveva essere messo in conto che potesse avere una crisi respiratoria, ma non era una conseguenza tale da risultargli fatale o da condurlo alla morte inevitabilmente e... in così pochi attimi.
«Cosa?» Si fece sfuggire dopo un tempo di silenzio prolungato.
«Sono sorpreso anch'io, papà. È strano che sia morto, soprattutto dopo aver parlato al telefono con Federica. Non sembra anche a te?»
Riportò gli occhi sul sottoscritto, anche se per pochissimo, dato che li distolse immediatamente.
«Già.»
Dal mio canto, continuai a osservare ogni sua movenza o espressione che gli stava balenando sul viso e portò le mani alla testa un'altra volta, lasciandosi andare sul cuscino.
Non sembrava frutto di una spiacevole coincidenza o del fato, qualcuno voleva celare delle cose e dovevo andare a fondo per scoprire esattamente cosa.
Federica
La povera donna riposava profondamente grazie al tranquillante che le avevo fatto iniettare. Poco fa, su quel tetto, stava per fare una stupidaggine e rinunciando a tutto. Ma la strada facile non era sempre la soluzione ai nostri problemi. Trovarsi in una situazione del genere, in bilico su quale figlio salvare, avrebbe abbattuto chiunque. Sara, però, aveva bisogno di lei per sopravvivere e fare il trapianto. Doveva recuperare le energie e tenere duro per sostenerla in questo momento delicato.
«Ha firmato» m'informò il ragazzo dai capelli rosso fuoco avvicinandosi a me. «È stata avviata la procedura. Ha fatto qualcosa di non facile, no?»
«Essere madre è dura. Non è per tutte le donne, te lo assicuro.»
Quella donna era l'emblema del coraggio e dell'amore incondizionato, che l'avrebbe portata a lanciarsi persino nel vuoto per i suoi stessi figli. Sarebbe stata pronta a tutto.
«A proposito, com'era sua madre, dottoressa? Presumo... fosse una donna molto forte, guardando lei» La domanda mi fece tornare indietro nel tempo, a quando a scuola la maestra ci chiese di raccontare, - attraverso un disegno - che facevamo di bello con le nostre famiglie. Gli altri bambini iniziarono a mettersi all'opera, descrivendo delle loro madri che li facevano dormire con le favole, padri altrettanto premurosi, case piene di affetto, mentre io - come unica nota stonata - mi limitai a fissare il foglio che, alla fine, lasciai totalmente in bianco.
Non valeva la pena parlare di un padre che rincasava ubriaco marcio e di mia madre che si prendeva ogni percossa. Di perfetto non c'era proprio nulla.
«Non sempre le cose sono come le vedi, Wax. Forse non conoscere tua madre» Mi voltai. «È la cosa migliore per te. Chi lo sa?» Feci spallucce. «Andiamo, va a riposare. Sei stanco.» Lo congedai per poi varcare l'uscita del pronto soccorso. In quella giornata era capitato veramente di tutto e di più.
[...]
«Che sta succedendo con il dottore Andreani?! Non sono mica la sua babysitter! Accidenti...» sbroccò Mattia rivolgendosi al collega, fermi nel bel mezzo del corridoio. Quest'ultimo vedendomi avvicinare si paralizzò con gli occhi sbarrati e sbiancò, dato che avevo sentito perfettamente quel fiume di parole poco carine che mi aveva rivolto poco fa. Lo scrutai e mandò giù un po' di saliva. «Scusi, dottoressa. Non intendevo dire quello...»
«Mmm...» mugugnai poco convinta.
«La stavo cercando! Deve venire con me subito!» S'intromise Wax.
«Che è successo?»
«Hanno portato Fabio, il capo della mafia. Sono all'ingresso»
«Fabio?» Oddio, si era infilato in altri casini. Gli avevo raccomandato di seguire le cure per guarire rapidamente, ma a quanto pare era stato fiato sprecato. Era passato un mese dalla sua dimissione eppure eravamo a punto e a capo. «Forza, cammina!» incalzai il rosso a seguirmi e oltrepassai l'infermiera Zenzola. Quando uscii all'esterno, fissai la barella lì e poi la faccia di Petit. «Che diamine è successo qui? Perché non l'avete portato dentro?»
A quel punto, il giovane in carne scoprì il telo per mostrarmi delle torte a forma di cuore con della glassa fucsia e poi si stirò i lembi della giacca con nonchalance. Sorrise compiaciuto. Feci scorrere lo sguardo su di esse.
«Dottoressa Andreani, il capo gliele manda per esprimerle tutta la sua gratitudine.»
«Che significa?» Mi trovai ad alzare di più il tono della voce.
«Sono torte.»
«Le hai portate qui con l'ambulanza?»
«L'idea è stata mia, sì.» affermò con un certo orgoglio. «Che le pare? È stata una figata, giusto?»
«Hai davvero usato l'ambulanza per una cosa così sciocca?»
«Ehm, sì.»
Non potevo crederci. Mi stavano per saltare i nervi, tesi quanto una corda di violino.
Possibile che non avesse pensato che occupare l'entrata tardasse i veri ingressi per emergenza?
«Non mi piacciono... né la torta e nemmeno queste stronzate!» Furiosa, tolsi dalla confezione una delle torte e gliela tirai dritto in faccia. I suoi uomini iniziarono a sogghignare. «Che c'è? Vi fa ridere tanto?» Li fissai in malo modo e smorzarono le risatine, mentre Petit cercava di spalancare le palpebre, che risultavano attaccate per la glassa. «Non osare mai più approfittare dell'ambulanza per ste' cazzate!»
«Ma è privata. La usa il capo per andare alle partite nei weekend.»
Gli puntai contro l'indice.
«Se torna a ripetersi questo, avrai davvero bisogno di quell'ambulanza, ma non per le partite. Che cretini.» Superai lesta la figura impalata di Wax, borbottando tra me e me quanto mi avessero infastidita di prima mattina. Non avevano un minimo di cervello, anzi era più piccolo di una nocciolina.
A quel punto, entrai in ascensore accompagnata da Giovanni, che successivamente si appoggiò alla parete restando taciturno. Aveva lo sguardo schivo, puntato al pavimento e non mi aveva guardato da quando le porte si erano chiuse. Non era da lui comportarsi in quella maniera.
«Che hai? Stai bene?» Alzò gli occhi per guardarmi, ma il suo morale sembrava essere sotto i piedi. Non era spiritoso come tutte le volte, e quello non mi passò inosservato. La luce nei suoi occhi era spenta.
Non era in sé.
«Mi dispiace per la madre, Fe. So... che si prova a stringere la mano di qualcuno per l'ultima volta. È orribile.»
«Riavrà sua figlia — Mi fissò — E potrà continuare a vivere per lei.» Vedendolo ancora giù di morale, appoggiai la mano sul suo dorso per accarezzarlo e infondergli il conforto che serviva. In certi casi, era meglio un gesto che delle parole di circostanza. Volevo che capisse che non si sarebbe sentito solo, che sarei stata lì, nel brutto e nel buono. Avrei voluto cancellargli il broncio e allora gli indirizzai un lieve sorriso. Quando le porte si aprirono, feci scivolare via la mano e mi appartai in un angolo. La giovane infermiera salutò carinamente Giovanni e ci diede le spalle, non calcolandomi.
Salutai con un educato "buongiorno" e mentre l'ascensore risaliva, con la coda dell'occhio, scoprii Giovanni che mi fissava intensamente e stavolta distolsi gli occhi per guardare dritto. Qualcuno avrebbe potuto perfino fraintendere. In fondo, eravamo semplici buoni amici.
[...]
Arrivammo insieme all'unità di terapia intensiva ed Elisa era lì, seduta tra le barelle, come un'anima in pena. Non stava attraversando un bel momento.
«Signora Elisa?»
Ruotò il busto. «Non posso farlo, dottoressa. Non posso...»
«Non si comporti così ora.»
Sapeva che purtroppo non avevamo altra scelta. Scosse il capo, con aria affranta. «Non posso togliere il cuore ad uno dei miei figli, affinché l'altro possa vivere. Che razza di madre sarei? Vi prego, non posso...»
«Signora... Purtroppo, non c'è più nulla che possiamo fare per suo figlio. Ma sua figlia dopo il trapianto potrà vivere.»
«Non voglio. Lasciateci morire tutti e tre, per favore.»
«Pensa sul serio che questa sia la soluzione?» la interrogai e fece no. «Non aver salvato Sarah... quando ne aveva le possibilità?»
«Neanche Sarah lo voleva! Non vorrebbe prendere il cuore del fratello.» insistè alzandosi e indirizzò lo sguardo sul moro, che si era astenuto dal discorso. Poi spostò gli occhi altrove e alla vista del personale, urlò. «No! Mandateli via! Non devono avvicinarsi!»
«Elisa...» esalò Giovanni, uscendo dalla trance in cui era caduto.
«No! No!» Le si avvicinò per allontanarla leggermente, le barelle vennero accerchiate dalla squadra, e la donna continuò a protestare e agitarsi. Provò a divincolarsi dalla presa e lui la prese per le spalle, dicendole di non interferire nell'operato e che non si fosse arresa, avrebbe perso entrambi i suoi figli. Rimasi in disparte a guardare la scena. Percepii un vuoto allo stomaco quando la donna esplose in un pianto convulso, dando altri spintoni a Giovanni e maledicendo quella cena felice per festeggiare l'anniversario.
«Come posso prendere il cuore di mio figlio e strapparlo dal suo petto. Buon Dio! Lasciami!»
«Elisa, non stai lasciando morire tuo figlio, stai permettendo a tua figlia di vivere, ok? Le stai dando un'altra opportunità. Se non consenti il trapianto, perderai entrambi. Torna in te, ti prego!» Quello sfogo ulteriore di Giovanni servì, poiché la donna in parte si tranquillizzò e lo guardò dritto negli occhi, offuscati dalle lacrime che aveva versato. Giovanni l'accerchiò le spalle e il personale continuò imperterrito. La donna cercò un ultimo contatto con la mano del figlio, stringendola un'ultima - dolorosa- volta, poi la barella venne condotta fuori.
Elisa singhiozzò e Giovanni l'aiutò a rimettersi seduta. Intanto che se ne stava occupando, uscii per raggiungere le barelle. Wax spuntò da una porta laterale, avvisando che era tutto pronto. Non restava che portarli in sala operatoria. Il macchinario della ragazza trillò.
«La saturazione è scesa a sessantotto, facciamo presto!» incalzò Giovanni.
«Qualcuno tenga l'ascensore!» Esclamai indicandola a pochi passi da noi.
«Pressione diminuita a ottanta, dottore» Comunicò Wax.
«Prepariamo subito un cc di dopamina.»
Spostarono così la barella della ragazza dividendoli. La ragazza doveva avere un bypass.
«Tu vai con Joseph, io sto con Sarah» affermai e indossando i guanti mi recai verso la ragazza che stavano per trasportare in ascensore. Stabilizzato il ritmo cardiaco- ch'era crollato durante il tragitto- la conducemmo al blocco operatorio. Riccardo e la sua équipe uscirono.
«Me ne occupo io. Dov'è il fratello?» domandò, prendendo in custodia la barella.
«L'hanno portato in sala operatoria. Presto espianteranno gli organi, dottore.»
«Ottimo.»
Trascinò all'interno la ragazza per prepararla, asciugai un po' di sudore dalla fronte passandovi il dorso e le porte si serrarono di fronte a me.
Senza aspettare un istante, mi affrettai correndo a raggiungere la seconda sala operatoria.
Giovanni
Giungemmo a destinazione molto presto e affidai il paziente al mio collega, che tirò su la mascherina per rientrare, lasciandomi lì in corridoio. La bruna arrivò trafelata e si mise di fronte a me.
Era preoccupata.
«Come sta Sarah?» chiesi a mia volta anticipando la domanda.
«Riccardo sta cercando di tenerla in vita. Le condizioni sono stabili.»
«Abbiamo fatto del nostro meglio, Fe. Quello che ci rimane ora è aspettare e pregare.»
«Vero.» Concordò.
«Vedrai, andrà tutto bene.» La rassicurai sorridendole e, nel frattempo, il cellulare squillò. Lo prese dalla tasca e dalla sbrigativa risposta non ci volle un indovino per capire che quel nostro discorso si sarebbe troncato lì.
Doveva andarsene.
«Il dottor Adriano ha un intervento d'urgenza. Vogliono che mi occupi di un paziente in ambulatorio. Devo andare.» E si dileguò. Tirai un altro sospiro, annoiato. "Te pareva" pensai.
«Di che mi sorprendo? Nulla.»
Era normale amministrazione che non riuscissimo a portare a termine un discorso e si dovesse interrompere.
«Dottore! Dottor Giovanni!» Mi chiamò alle spalle Mattia. Pensai che fosse successa una tragedia. «So che è molto impegnato, ma Madda la vuole.»
«Che l'è successo?»
Il biondino si schiarì la gola. «Ha un po' di mal di testa.»
«Mattia...» Il giovane annuì. «Occupatene tu»
«Certo. Con piacere.»
«Bravo» gli diedi un buffetto sul braccio. «Andrò a vedere come sta mio padre...» Mi rivolse quasi un inchino per il favore che gli avevo fatto di prendersi cura della biondina e augurò a mio padre una pronta guarigione.
Lo ringraziai e proseguii per conto mio. Salii di sopra per raggiungere la camera di mio padre, con tutti gli impegni in non avevo avuto tempo di controllare come stesse - anche se si stava riprendendo alla grande e presto sarebbe tornato ad amministrare l'ospedale. Trovai la porta socchiusa ed entrai, riuscendo ad afferrare solo una frase urlata da mio padre: "non posso perderlo!"
Mi bloccai alla vista dei due che sembrava discutessero animatamente sul punto di azzannarsi, ma ignoravo quale fosse l'argomento del "litigio".
«Chi non puoi perdere, papà?»
Mio padre abbassò il dito che aveva puntato contro il nonno di Maddalena e si immobilizzò.
«Tuo padre pensa di essere guarito in due giorni, Gio. Vuole alzarsi. Per favore, digli che non deve sforzarsi e riposare. A me non vuole dare ascolto!»
Guardai entrambi. L'aria tesa era ancora palpabile e li circondava, come un'aura invisibile.
«Ma mi sento bene!» obiettò.
Non doveva affrettare i tempi, quella convalescenza non era breve e mi feci avanti, per accomodarmi sulla poltrona e prendergli la mano.
«Lo so che ti senti meglio, papà. Ma hai bisogno di riposare per tornare presto in forma.»
«Non temere, Gio. Non mi accadrà nulla.»
«Sei mio padre. Capisci? Lascia che mi preoccupi per la tua salute e che ti curi. Voglio poter godere molti anni in tua compagnia»
Curvai le labbra in un sorriso dolce e poi gli baciai la mano, racchiudendola tra le mie.
Federica
Spalancai la porta dell'ambulatorio. «Scusate il ritardo, sto sostituendo il collega che ha avuto un'emergenza» agguantai lo stetoscopio sulla scrivania e quando puntai gli occhi sulle due persone, mi bloccai su due piedi. La donna seduta sul lettino con la bocca distorta mi guardò. La osservai a mia volta, non sapendo quale emozione delle tante dovesse prevalere in me e nella stanza piombò un silenzio tombale. Nessuno osò spezzarlo. Istintivamente abbassai la testa e giocai con il filo dello stetoscopio che stringevo.
Che facevano loro qui?
«Cos'è successo?» domandai con un filo di voce, non avendo il coraggio di guardare in faccia chi mi aveva rovinato la vita.
«Lorenzo» lo chiamò in causa, ma l'uomo non aprì bocca e se ne restò immobile. «È lei il medico? Com'è? Come può essere!?» Prima che la situazione prendesse una brutta piega, mi diressi alla porta chiedendo che venisse qualcuno. «Lorenzo, dille qualcosa! Ci sta buttando fuori!» L'infermiera mi raggiunse e la donna repentina si alzò dal lettino. «Tu! Non hai alcun diritto di cacciarci, capito?»
Si coprì la bocca per nascondere il difetto e la ignorai per chiedere all'infermiera di portarla a fare la radiografia. La castana annuì.
«Su, andiamo»
«Non ci guarda in faccia!»
«Rebecca. Andiamo.» Stavolta fu un ordine e mi passò davanti. Non inquadrai la sua faccia e nemmeno quella del marito, che la seguì a ruota. Era sufficiente ciò che avevo sopportato. Non lo avrei dimenticato per tutta la vita. Quando abbandonarono lo studio, chiusi la porta, e dopo aver fatto il giro della scrivania mi sedetti sulla sedia. La mente era affollata di troppi pensieri. Mi portò a pensare alle cattiverie che mi vomitò addosso, dopo che avevo seppellito l'unica persona che aveva avuto cura di me. Ero distrutta per conto mio e volle infierire, dicendo che la colpa era mia se la poveretta era morta e stavo piangendo senza vergogna. Ero talmente stizzita che se non fossero intervenuti Angelina e mio padre, le avrei fatto passare un brutto quarto d'ora. Lui era addirittura rimasto in silenzio e aveva permesso a quella vipera di sputare veleno. Non era riuscito nemmeno in quell'occasione a comportarsi da uomo. Giurai che mi sarei vendicata, prima o poi. Nonostante lo avesse negato, fingendo di non sapere nulla sui soldi che aveva sottratto, ero convinta che stesse mentendo. Mentre ero immersa nei ricordi, mi venne un'emicrania martellante e massaggiai le tempie.
La porta si aprì, finendo per sbattere contro la parete.
«Federica!» Gridò su tutte le furie. «Non hai alcun diritto di trattarci così!» Sbatté la mano più volte sulla scrivania e la fissai senza scomporre l'espressione indifferente. «Chi ti credi di essere? Chi, eh? Noi siamo tua madre e tuo padre. Dovresti portarci rispetto!»
Rispetto? A chi?
«Sicura? Che ne sai tu dell'essere madre?»
«Maleducata.» Fece una smorfia per il disgusto o perlomeno tentò. La bocca però andò per conto suo.
«Come ti sei ridotta così?»
Drizzò la schiena e ghignò.
«Tu che credi? A causa di tuo padre. Ho dovuto portare il peso dei suoi problemi, da quando te ne sei andata di casa»
«Mmm... Credi davvero a quello che dici?»
«Non pensi sia per la tristezza?»
«Tristezza? Per mio padre? Mmm... non sei molto convincente. Credo sia un'altra persona che ti sta rendendo triste» A quelle insinuazioni, sussultò e guardò la porta alle sue spalle e dopo si voltò. «Per esempio, il tuo amante.»
«Che dici? Non sparlare dei defunti!» sbottò infastidita.
«Ah...» Chinai lo sguardo fingendomi affranta. «Capisco. Sei triste perché ormai non giochi più nella stanza del barbiere.»
Rebecca si strinse nelle spalle e il marito si affacciò nella stanza. Le prese dolcemente il braccio e chiese di non fare scenate.
«Disgraziata» Bofonchiò schifata.
Non guardai mio padre e puntai lo sguardo altrove, d'altronde il coraggio di dirmi le cose non l'aveva mai avuto, in passato.
[...]
Erano passati anni, eppure non erano cambiate le circostanze. Stesse identica merda. Mi aveva abbandonato se non con qualche spicciolo in busta... ed era uno scherzo esserci ritrovati faccia a faccia, come due estranei. Da quel momento, avevo rinnegato Lorenzo Andreani, ero diventata figlia di "nessuno".
Con le mani in tasca, continuai a camminare sul cornicione e percorsi l'intero perimetro prima di fermarmi nello stesso punto, dove Elisa voleva lanciarsi ieri. Il vento mi soffiò sulle guance, il sole illuminava il cielo di una città costantemente in movimento. Fissai l'orizzonte, i profili dei palazzi, il Colosseo sullo sfondo e una voce mi arrivò da dietro.
«Federica! Cosa fai?»
Mi girai brevemente, vedendo Giovanni, intento ad allungare il braccio. Riportai così gli occhi sul panorama etereo di Roma.
«Una madre farebbe qualsiasi cosa per un figlio, giusto? Ieri... Elisa voleva buttarsi giù per i suoi figli. Ma sai, mia madre è morta per se stessa...» Realizzai l'egoismo di quella donna e la consapevolezza mi colpì come una pugnalata a tradimento. «Mi ha lasciato con loro senza pensarci. Che razza di madre egoista rovina la vita alla propria figlia?»
Avanzai di un altro passo, avvicinandomi a quel bordo. Era eccitante e pericoloso.
«Fede!» urlò e mi fermai. «Fede! Scendi da lì e parliamo, ok?»
Notando la preoccupazione dilagare negli occhi verdi di quel ragazzo, lo accontentai. «Calmati, non intendo buttarmi giù» Prese un respiro e riabbassò il capo. «Ti ho fatto preoccupare?»
«Non essere scema. Certo che sì. Non sapevo... cosa fosse successo a tua madre. Mi dispiace.»
«Si è tolta la vita perché amava un uomo, più di sua figlia e di sé stessa.» ammisi. «È stato per amore. Ha rinunciato alla sua vita per un uomo che neanche l'amava.»
«Mi dispiace tanto per tua madre, Fe.»
«Dopo tutti questi anni... ho rivisto la donna per cui mia madre è stata abbandonata...» voltai lo sguardo altrove, tirando un respiro. «Ah, mamma. Ti sei ammazzata per una ragione di... merda».
«Fe» Mi fece ruotare delicatamente il mento verso di sé per far incrociare i nostri occhi e poi posò la mano sulla mia guancia. «Non farti questo, ok?»
«Non sarò come lei.»
«Lo so. Ti conosco. Ora so perché il tuo cervello resiste all'amore.»
«Ah, davvero? Stai analizzando il mio cervello come se fossi una paziente?»
«Lo so.» Sorrise. «Sono un buon chirurgo.» Mi accarezzò la testa. «E non lascerò il tuo bellissimo cervello senza averlo prima guarito completamente» Increspai a mia volta un sorriso e il cellulare tornò a squillare. «Sembra proprio che il tuo telefono abbia deciso di non lasciarci in pace.»
Mi comunicarono infatti un'emergenza. Il mio sguardo lasciò intendere al moro che avevo i minuti contati e lo sorpassai.
[...]
«Ah… Tommy» lo incrociai che stava arrivando dalla parte opposta in compagnia del suo assistente. «Hai un minuto?» Il giovane capì che la questione era privata e congedò Gianmarco, che andò a fare la pausa pranzo. Ci lasciò da soli nel corridoio.
«Che c'è?»
«Ho bisogno che mi aiuti con una paziente.»
Guizzò le sopracciglia in alto sbalordito e poi alzò gli occhi al cielo. «Ohi, ohi, è arrivata la fine del mondo e non sono stato avvisato?» Di solito non mi rivolgevo a nessuno per dei pareri sul mio lavoro, ma questa volta era un caso "particolare". Mi fece cenno di seguirlo e andammo nell'ufficio, dove potei mostrargli la lastra. Stette lì ad osservarla per qualche minuto. «Ha una paralisi facciale. Serve un intervento di decompressione microvascolare»
Si girò e annuii. «Lo so.»
«Non volevi avere un parere?»
«No, non è questo.»
«Allora, che ti succede?»
«Potresti operarla te?»
Assottigliò le palpebre in due fessure. «Vuoi che la operi io?»
«Ti occuperesti della paziente?»
«È un intervento facile per il tuo livello di preparazione» disse indicando il monitor con la biro, senza smettere di guardarmi: «Perché non vuoi farlo?»
«Potresti non chiedermelo?»
«Non posso non tenerne conto, Federica. Se devo operare la paziente, devo sapere perché ti stai rifiutando di farlo.»
«Lascia perdere, grazie»
«Ehi, Fe...» Mi fermai e si mise in piedi. «Se scambiamo i pazienti di testa nostra, l’ospedale si trasformerebbe in un caos. Quindi dobbiamo avere un motivo valido per farlo.»
Annuii. «Tranquillo, nessun problema»
Era stato un errore chiederlo a lui.
«Fede… adesso vado a mangiare un boccone in mensa. Vieni con me e ne parliamo con calma»
«No, non ho fame.»
«Questa paziente è una tua parente?» insistè, mentre ero in procinto di uscire.
Quante domande...
«Magari non lo fosse…» bisbigliai tra me e me, con la mano incollata alla maniglia. Avrei evitato parecchi casini, oltre che sofferenze. Decisi così di staccarmi e allontanarmi.
Angelina
Era come se avessi perso definitivamente la voglia di vivere. Non volevo fare niente, né mangiare e né riordinare il bar, ma solo starmene lì in panciolle. Fissai il vuoto, in silenzio.
La storia di quella famiglia mi era rimasta talmente impressa che non potevo chiudere occhio senza rivedere quelle immagini raccapriccianti. Era ingiusto.
La vita era breve e noi ci perdevamo in delle sciocchezze, non tendendo conto di quelle importanti. Il ricciolino entrò per appoggiare un grosso scatolo sul tavolo e poi mi raggiunse.
«Che ti prende? Hanno fatto irruzione i ladri?»
«Che?»
«Che c'è? È grave?»
«No, non è successo niente.» Feci spallucce. «Solo pochi piatti e stoviglie qua e là.»
«Che è successo? Hai bevuto, Angelì? A che pensi? Hai la testa tra le nuvole, tesoro.»
«Noi prendiamo la vita troppo sul serio?» La domanda stupì Enne. «I problemi, le relazioni...»
Il giovane mi fece spostare le gambe dalla sedia strattonandola leggermente e poi si sedette.
«Che hai? Parla. Hai preso troppo sole oggi?»
Mi rimisi dritta: «La vita è troppo breve per preoccuparsi. La mattina ti svegli… e non sai cosa può succederti-»
«Sssh… ehi? Pronto? Ehilà, dov'è Angelì? È connessa? Terra chiama Angelina, rispondete!»
Roteai gli occhi sbuffando, facendomi scivolare contro lo schienale: «Sto qui. Ma ieri ho avuto una giornata storta.»
«Capisco, capisco. Ti suggerisco di ordinare questo posto, perché non si addice ad un bar.»
«Non ho le forze.»
«Bene, dovrò occuparmene io.» Afferrò il panno, mettendoselo sulla spalla e iniziò a raccogliere piatti e bicchieri, senza che gli avessi chiesto di farlo. Continuai ad osservare le vetrate, nella stessa posizione, annoiata. In un batter d'occhio, ripulì tutto e non lasciò un dito di polvere, mentre discuteva al cellulare. «Sì… ma sono con un’amica che ha bisogno di aiuto. Non capisci quando ti parlo? Forza, licenziatemi! Parlo quanto mi pare! Non vi sopporto più.»
E attaccò, scazzato.
«Che è successo?» domandai con le idee palesemente confuse.
«Niente» minimizzò gironzolando per la sala, andando a posare lo spruzzino sul mobile per poi appoggiarvisi con il sedere. «E mi chiede dove sto! Se potessi andare, sarei lì.»
«Un momento, un momento… Stavi parlando con il tuo capo?»
«Già. È un coglione.»
«E ti ha appena licenziato?»
«Volevo già andarmene da lì.»
Mi rimisi in piedi. Mi era appena venuta un'idea geniale.
«E hai appena detto che sono una tua amica» Si voltò di scatto, lasciandosi sfuggire un “eh?”. «Non fare il finto tonto, Nico. Hai appena detto che sono una tua amica. È una fortuna avere amici di questi tempi, vero?»
«Ehm, Angelì…» Posò la mano sulla mia spalla: «Tesoro, va' a casa e riposati. Ci penso io qui. Non preoccuparti, ok?»
«Perchè non lavori con me?»
«Dici davvero?»
«Sì, davvero!»
«Buongiorno...» Mi voltai verso il cliente ch'era appena entrato e si stava dirigendo ad un tavolo. Strabuzzai gli occhi.
“Cavolo!”
Afferrai immediatamente la brochure, per nascondermi e gli bisbigliai. «Il cliente non può vedermi in questo stato!»
«Eh?»
«Che non può vedermi così, accidenti!» Gli consegnai il menù. «Sarà il tuo primo cliente, vai, vai! Vai!» Lo spintonai mentre intanto mi rifugiai velocemente nel retrobottega. Ero un totale disastro e senza trucco somigliavo alla degna sorella vampira di Edward Cullen della saga di Twilight. No, no, dovevo rimediare, con una seduta urgente di maquillage e infatti così feci. Una volta aver infilato un vestito carino che rendesse giustizia al mio fisico snello e messo un cerchietto tra i capelli, mi presentai raggiante a quel tavolo e dal mio nuovo cliente.
«Benvenuto. Oh, mi perdoni... Nicolò ha appena iniziato, è il suo primo giorno — fissai il diretto interessato e lo feci spostare — Caro, puoi ritirarti, grazie. Be’, non l’ho mai vista prima da queste parti.» Dovevo ammettere che era un tipo decisamente “interessante” e un vistoso tatuaggio a forma di dragone all'altezza del collo. «Immagino che sia… nuovo.»
«Sono un medico dell’ospedale»
«Ah, sì? Anche la mia migliore amica è medico. Che coincidenza!»
«Oh…»
Dopo avergli portato una tazza di caffè e un cornetto con crema al pistacchio, mi accomodai dall'altro lato per far conversazione.
«Anche Federica lavora lì.» Feci un sospiro e il giovane posò la tazza sul piattino. «È un lavoro davvero complicato. A stento, io saprei mettere un cerotto.»
«Federica Andreani. Stiamo parlando della stessa... dottoressa?»
«Sì! La dottoressa Federica Andreani è la mia migliore amica!» esclamai su di giri.
«Ah, davvero?»
«Sì!»
«Dov'è che vi siate conosciute? Andavate nella stessa classe o le vostre madri erano amiche?»
«No. La madre della mia Fede è morta quando era molto piccola. Poi, la sua matrigna la mandò a stare a casa di sua nonna. Ed è lì che ci siamo conosciute, mi ha difeso da un gruppo di bulle, che mi prendevano in giro. La mia Fede… è unica — Il giovane bevve un altro sorso di caffè, fissandomi di sottecchi - ed è straordinaria. Non la cambierei per niente al mondo. Sono molto fortunata ad averla nella mia vita»
Ad un certo punto, l'adorabile dottore distolse lo sguardo, immergendosi nei suoi pensieri.
Giovanni
Elisa balzò in piedi dalla sedia vedendomi uscire dal blocco operatorio e si mise di fronte a me.
«Dimmi che hai buone notizie.»
«Per ora il cuore di Sarah si è stabilizzato con il bypass» Tirò un sospiro di sollievo e una lacrima le rigò la guancia. «E l'altra équipe sta procedendo all'esportazione degli organi.»
«Quindi...» Si bloccò un attimo. «Stanno togliendo il cuore a mio figlio, in questo momento?»
Non poteva abbattersi, doveva combattere con tutta sé stessa.
«Ascolta...» Appoggiai la mano sulla sua spalla minuta. «Tuo figlio è un eroe. Ha salvato la vita a sua sorella e lo sai meglio di me. Sei sua madre, dovresti essere orgogliosa di lui.»
«Non so più cosa pensare» confessò.
«Sai, io... ho perso i miei genitori in un terribile incidente quando ero piccolo. Ma quello stesso incidente mi ha dato il miglior padre che potessi mai avere in questo mondo.»
«Pensi che ho preso la decisione giusta?»
«Non ho nessun dubbio. Vorrei che fossero tutti come te, Elisa. Sarebbe un posto migliore» affermai lasciando scivolare via la mano. «Un giorno, quando guarderai Sarah negli occhi, ci vedrai lì anche Joseph...» Sollevò a rallentatore gli occhi. «E ti renderai conto di aver fatto la scelta giusta.»
Si portò le mani alle labbra e annuì, facendo cadere altre lacrime.
Federica
Il dottor Riccardo stava predisponendo la squadra per il trapianto, quando spuntai nell'osservatorio. Si voltò nella mia direzione e mi fece un cenno d'assenso. Fra poco avrebbero cominciato e ricevetti una chiamata. Guardai lo schermo, riconoscendo il numero interno della segreteria.
«Dica pure.»
«Dottoressa, ho rintracciato Medicina Legale. La metto subito in contatto con loro»
«Bene, grazie. Aspetto in linea.» Trasferì la chiamata. «Salve, sono la dottoressa Federica Andreani. Volevo sapere se avete il risultato preliminare dell'autopsia di un paziente. Nicola Borrello. Come, perché? Senta, non le ho chiesto una cosa così complicata. Partiamo dall'inizio: è stata fatta un'autopsia, sì o no?»
Ci fu un silenzio religioso dalla parte opposta e allontanando il cellulare dall'orecchio, notai che era caduta la linea o forse erano stati loro a riattaccare. Alzai gli occhi al cielo, irritata.
Mi trattenni a fatica dallo sbottare, chiudendo gli occhi per qualche secondo e posai il cellulare in tasca. Stavano sfidando la mia pazienza.
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