Capitolo 4.1 - Mai dire mai

Giovanni

Nonostante il passo sbilanciato a causa del tutore alla gamba, riuscii ad arrivare in ospedale con un presentimento oscuro che mi pesava nel cervello. Mi inseguì come un'ombra. Mi catapultai nella camera, bloccandomi quando notai la bruna riversa sul pavimento, il sangue ovunque e la lama spezzato di un coltello sotto il suo fianco. Tommaso alzò la testa per guardarmi. Una terribile visione mi saettò dinanzi agli occhi, mi riportò nel passato da cui avevo sempre tentato di evadere.

Non era stato semplice. Nemmeno un po'. Soprattutto perché avevo già vissuto una situazione simile. In modo che questo non accada di nuovo, ora avrei bisogno di un miracolo.

Ho perso i miei cari proprio davanti ai miei occhi. Ma non per una scelta mia. È stata la crudele sentenza del destino. Ritornai a sentire l'eco della voce di me bambino, che confinato dietro ad un vetro osservava i medici rianimare i suoi genitori. Poi dichiararono il decesso di entrambi con freddezza.

Dieci e cinquantuno, mio padre, mia madre lo seguì dopo tre minuti e realizzai di essere rimasto solo.

Non potevo permettere che succedesse anche con lei. Che mi portassero via l'unica cosa bella della vita. Non sarei stato forte abbastanza per affrontarlo.

Mentre restavo immobile sul posto, Federica ruotò il collo verso di me e lasciai cadere le stampelle per gettarmi in ginocchio al suo fianco. «Federica! Stai bene?» le presi il viso tra le mie mani. «Stai bene? Ti ha fatto qualcosa? Eh?»

«No.» mugugnò con un filo di voce.

«Sangue...» Guardai in basso, inquadrando il suo camice sporco al livello dell'addome. Poi l'aiutai a mettersi in piedi. «Sicura di stare bene? Non ti ha fatto male?»

«No.» bisbigliò.

Le tenni le mani strette, cercando di capire se quel sangue fosse suo o avesse qualche ferita, ma non mi diede il tempo, poiché mi oltrepassò per andare dal paziente. Spostai lo sguardo su Daliana che per tutto il tempo era rimasto ad osservarci, seduto con le spalle contro il muro.

«Non stare lì impalato, vai a chiedere aiuto!» mi fissò. «Corri, andiamo! Avvisa il chirurgo che potrebbe avere una lesione nel fegato. Andiamo!» Il giovane si allontanò così per telefonare e anche Federica lo incalzò di far presto. Dopo poco, condussero la barella dentro e mi sedetti sul divano, guardando passivamente la bruna dare ordini a destra e a manca. La visione di poco prima mi aveva destabilizzato e a stento riuscivo a muovere un muscolo. Avevo temuto il peggio dopo aver visto il sangue. Federica si spostò per controllare il malvivente privo di sensi.

«Lasciatemi dare un'occhiata.»

Scattai in piedi all'istante, placcando il giovane per poi stringere nel pugno un lembo del suo camice. Voleva fare il suo dovere? E prima allora? Si era limitato a guardare in disparte? Poteva capitare una disgrazia!

«Come hai fatto a mettere Federica in una situazione così pericolosa?» tentò di aprir bocca ma non c'erano giustificazioni che potesse fornire. «E per di più non sei stato in grado di fare nulla. Spiegamelo!»

«Giovanni, ero appena arrivato. Sembrava che quel bastardo avesse perso la testa. Tu non c'eri. Non hai visto nulla.»

«Guarda, quello che vedo ora è che quando ti fa comodo, sei veloce a giudicare gli altri, ma quando si arriva al dunque, sei il primo a nasconderti in un angolo come un coniglio!»

«Basta, basta con questi litigi! Smettetela subito, guardatelo!» sbottò Federica, interrompendo l'alterco. «Qualcuno intende venire qui ad aiutarci!» Un'altra squadra di soccorso varcò la soglia con un'altra barella e mi accomodai sul divano mentre prelevavano l'uomo. «Preparate la sala operatoria. Poi informate la sicurezza e fateli accomodare al pronto soccorso.»

Gli ordinai di premere sulla ferita per bloccare l'emorragia e lo portarono via. Il mio sguardo si focalizzò su di lei. Per un momento, avevo temuto il peggio, che quell'uomo l'avesse accoltellata, o peggio ancora. Quando Tommaso tornò indietro con le dita premute sulle tempie, lo incenerii con uno sguardo e se ne andò. Non doveva sfidare la mia pazienza.

Dopodiché tornai con gli occhi sulla ragazza, che nel frattempo stava tirando un profondo respiro, con le mani sui fianchi.

«Non guardarmi con quella faccia. Sto bene, tranquillizzati.» Direi che non era facile riprendersi come credeva lei da quell'incredibile spavento.
Per poco il mio cuore non aveva smesso di battere nel petto. A quel punto, lasciò anche lei la camera e chiusi gli occhi, dandomi mentalmente del "cretino". Forse la mia reazione era stata esagerata da altri punti di vista, ma vedendola sul pavimento, ricoperta di sangue, il panico si era impossessato di ogni fibra del mio corpo. Cercai di distendere i nervi tesi e sospirai per l'ennesima volta.







Federica

Quando rientrai in possesso del cellulare, tornò a squillare con insistenza. Mi ero appena cambiata il camice nello spogliatoio e attivai le cuffie Bluetooth per poter conversare senza avere le mani impegnate.

«Ehi! Dove sei stata, baby? Ti ho chiamato senza sosta per molto tempo! Mi stavo preoccupando!».

«Credo che tu abbia dimenticato in cosa consiste il mio lavoro, Nina.» Se poi le avessi malauguratamente raccontato che ero impegnata a difendere il mio paziente da uno che voleva vendicarsi e ammazzarlo, la castana sarebbe andata su tutte le furie e mi avrebbe martellato di domande, quindi lasciai stare

«Ok, ok, capisco, è solo che ho avuto un brutto presentimento.»

«Ok, non preoccuparti. Perché mi hai chiamato? È successo qualcosa?» chiesi infilando il camice.

«Non è una cosa che posso spiegarti per telefono.»

«Mi hai chiamato un milione di volte solo per dirmi che non puoi dirmelo al telefono, Angelì?»

«No, è che ho una voglia di matta di vedere la tua reazione quando te lo dirò. Ho una notizia che è una bomba esplosiva. Lascia quello che stai facendo e vieni in caffetteria, per favore.»

«Non posso, ho molto lavoro da fare.» Obbiettai sistemando il colletto. «Ne parliamo quando torno a casa.»

Angelina sbuffò dalla parte opposta della linea.
«Va bene, ma ascolta, non fare tardi. È una notizia bomba!» Chiusi il mio armadietto e attaccai anche la chiamata, disattivando le cuffiette. Abbassai lo sguardo verso la panca su cui c'era il camice sporco di sangue e lo raccolsi. Le macchie rosse erano vivide così come il ricordo di aver rischiato quasi grosso. Ma ero abituata. Buttai l'indumento tra gli altri panni sporchi e uscii alla svelta dallo spogliatoio per tornare alla mia routine notturna.

[...]

Il ragazzo riccio e testone continuava a respirare più forte, alternando ad una risatina. Lo avrei dovuto prendere a calci, ma non serviva visto come lo avevano conciato già altri. Lui giocava spesso con il fuoco e presto o tardi si sarebbe bruciato. Se non fossi intervenuta, probabilmente a quest'ora sarebbe finita peggio. Avevo la mano premuta sulla ferita che sanguinava. Enne era un mulo, con lui era come parlare al muro. Preferiva sfidare la sorte. Chissà per quanto ancora sarebbe andato avanti con quella pazzia.

«Ti avevo detto di non scherzare con questi uomini. Non è gente a posto.»

Lo stupido sghignazzò e mi guardò. «Se non fosse stato per te, sarei morto adesso.»

Abbassai leggermente lo sguardo. Continuava a recitare la parte di un bambino capriccioso.

«Non ridere. Non è divertente.»

«Certo che lo è.»

Arricciò il naso e fece una smorfia, lasciandosi scappare qualche gemito. Ben gli stava, dopotutto. Intanto un'auto bianca arrivò in quell'istante e l'uomo alla guida non perse tempo a spalancare la portiera. Ci osservò, eravamo accovacciati sul marciapiede e con espressione furente scese, sbattendola forte.
Si vedeva lontano un miglio che mi avrebbe fatto la ramanzina.

Venne nella nostra direzione e gesticolò con il braccio.
«Quante volte te l'ho detto. Quante volte, Federica?!»

Enne lo salutò con un cenno della mano, ma il mio mentore non era in vena delle sue battute. Era troppo arrabbiato.

«Per favore, dottor Riccardo. Controlli ferita. Sta peggio di me.»

«Il problema non è la lesione, ma lui! Ha il cervello bacato!» sbraitò e mi alzai dal marciapiede per trascinarlo poco lontano da lì in modo che il riccio non sentisse.

Mi ero rifiutata di lasciarlo solo, soprattutto conoscendo il suo vizio di mettersi in qualche guaio con la gente sbagliata.

«Dottor Riccardo, per favore.»

«Ascoltami bene! Alcune persone non cambieranno mai. Questo ragazzo non lo puoi cambiare, cerca di capirlo.»

«Va bene, ma non è il momento adesso. Guardi la ferita. Ha bisogno urgente di cure.»

L'uomo guardò oltre le mie spalle e puntò l'indice contro Nicolò. «Guardami, questa è l'ultima volta che ti aiuto. Poi te ne andrai con questo rottame!» poi continuò a rivolgersi a me. «Come hai fatto a dimenticare tua nonna così in fretta? Non ti riconosco.»

«Non l'ho dimenticata.» affermai guardandolo dritto negli occhi. Non avrei mai potuto.

«Sei sicura? Come puoi essere medico? Guarda come ti sei ridotta!» indicò la mia faccia e abbassai la testa, toccando il taglio che mi ero procurata sul sopracciglio e portai i capelli dietro l'orecchio. «Apri gli occhi. Quel ragazzo non va bene per te. Finché starai con lui, non otterrai nulla e colerai a picco. Non puoi diventare un medico, al massimo sarai...» si fermò e distolsi lo sguardo sentendomi in colpa. «Uguale a lui... Un buono a nulla.» Udii il rombo di un motore e girai lo sguardo, vedendo il ragazzo in sella alla moto che stava dando più gas. Era forse impazzito?

«Nicolò.» lo chiamai ma lui partì a razzo costringendomi ad accelerare il passo sulla strada. «Nicolò!» urlai.

Ma il giovane continuò ad allontanarsi, sparendo in un batter d'occhio all'orizzonte. Restai a guardare senza poter fare più nulla. Fu l'ultima volta che vidi il mio amico.
Mi trasferii a Roma per terminare gli studi alla facoltà, ma non ebbi più notizie. Avevo odiato il modo in cui mi aveva voltato le spalle, senza curarsi di nulla, e solo perché convinto erroneamente di essere un ostacolo per la mia crescita professionale.

Quel ricordo mi trasmise un senso di amarezza, forse non era così legato a me o alla nostra amicizia come aveva sempre dichiarato. Mi aveva lasciato nel momento del bisogno.

Entrai nell'ascensore, premendo il pulsante, e infilai le mani nelle tasche. Le porte si riaprirono un'altra volta con un tintinnio e il piccolo fece il suo ingresso. Dopodiché si chiusero e ripartì. Lo beccai a fissarmi, non mi aveva staccato gli occhi di dosso da quando era salito, e immaginavo quale domanda gli stava orbitando nel cervello...

«Se t'azzardi a chiedermelo ancora, giuro che premo il bottone di emergenza.» lo informai già stanca, alzando gli occhi al cielo. Il meccanismo si fermò e notai che la colpa era stata di Giovanni, che aveva il dito sul suddetto pulsante.

«Me ne occupo io, signorina Andreani.» Lo guardai perplessa e posò le stampelle vicino alla parete. Continuai a guardarlo intensamente. «Ma non è per chiedere aiuto.» Da quella cabina era impossibile scappare se eravamo sospesi da un piano all'altro. «Ma per questo.» Allungò le mani e le avvolse delicatamente attorno alla mia schiena spingendomi verso di sé. Poi mi strinse in un abbraccio carico di affetto, come se da una parte avesse bisogno di un contatto umano, accarezzandoni la testa con la mano e nonostante l'attimo di smarrimento, restai immobile e lo lasciai fare. Fece scorrere la mano lungo la schiena e mi depositò un bacio sul collo. Chiusi le palpebre, dimenticando di essere nel posto sbagliato e in servizio. Non so quanto durò, ma rimasi attaccata a lui e con la guancia premuta contro la spalla del ragazzo alto poco più quanto me. Sospirò a pieni polmoni. «Grazie.»

Spalancai gli occhi e mi staccai, indietreggiando. «Perchè?»

«Quanto sei poco innocente quando vuoi esserlo, Federica.»

Mi accigliai. «Dai, che dici? Perché?» insistei.

«Chissà... perché?»

Curvò le labbra in un sorriso furbetto e non spezzai il contatto visivo, eccetto quando i cellulari squillarono, affetti da telepatia. Emergenza, certo. Di nuovo premetti il pulsante per sbloccare l'ascensore e mi affrettai a togliermi dalla faccia un sorriso per non compiacerlo.

«Ah, a proposito, sei stato troppo duro con Tommaso. Ha fatto quello che poteva.»

«Bene. Ora saprà cosa fare se gli capitasse una situazione simile. Imparerà a gestirla.»

Interruppi il discorso a metà, l'ascensore si era fermato e mi catapultai fuori, tallonata da Giovanni che con le stampelle era più lento di un bradipo.
Una volta arrivati al pronto soccorso, l'equipe era già operativa e il rosso stava ascoltando la frequenza cardiaca. Lo feci spostare dalla barella e gli tolsi lo stetoscopio, chiedendo anche un paio guanti.

«Segni vitali.» esordì Giovanni.

«Battito, 130. Pressione, 90.» risposi guardando il monitor.

«Due linee endovenose.»

«Certo, dottore.»

«Mattia, abbiamo bisogno del siero.»

Intanto afferrai la testa della donna. «Potrebbe aver colpito la testa nell'impatto. Facciamo una TAC.» Giovanni chiese se avessero fatto un emogramma e nel frattempo tentai di comunicare con la ragazza. Riuscì ad aprire gli occhi. «Senta, è stata investita da un'auto, ha un'emorragia in corso, ma la fermeremo.»

«No, no... fermi...» biascicò e mi girai in automatico verso il dottor Rinaldi, togliendo lo stetoscopio dalle orecchie.
Lui suggerì di tagliare le vesti per controllare il resto e Gianmarco mi passò le forbici dal carrello.

«Potrebbe avere un'emorragia interna.» affermò mentre con estrema velocità tagliavo. «Ha altre ferite?»

«A parte la commozione cerebrale, c'è troppo sangue.» Stracciammo il vestito interamente e notammo un cordone ombelicale spuntarle in mezzo alle gambe. «È quello che sto pensando?» domandai, strabuzzando gli occhi.

«La ragazza ha appena partorito.» concluse Giovanni.

«Che intende?» Esclamò Gianmarco.

«Non più di cinque minuti fa. Datemi le pinze.»

«La placenta è ancora dentro, perciò non smette di sanguinare.» aggiunsi.

«Avvisate Ginecologia. Dite che preparino la sala operatoria. È necessario un intervento.»

Tentai di far riprendere i sensi alla ragazza, dandole dei leggeri buffetti. «Mi senti? Ehi? Dove hai partorito? Dove sta il bambino?» Ma non mi diede risposta e riperse conoscenza. Guardai il moro e poi spostai gli occhi sul biondo. «Mattia. Vieni, accompagnami.»

Uscii dal pronto soccorso senza far caso ai richiami di Giovanni, ma non potevamo perdere altro tempo prezioso. Tolsi i guanti e Mattia mi condusse nel corridoio, indicando le persone che avevano portato qui la ragazza. Erano due uomini. Appena incrociai lo sguardo del più giovane, quest'ultimo si rimise in piedi a rallentatore e avvicinandomi sempre di più riconobbi i tratti del suo viso - un viso che mi era familiare e che non vedevo da così tanto tempo -.

Superai il biondino e Enne abbassò la testa, a disagio. Era apparso dal nulla, così come in passato. Che faceva qui?

«Siete i parenti della paziente?» chiesi distogliendo l'attenzione.

«No, dottoressa. Questa donna è saltata contro il mio taxi. Appena è successo, l'ho portata qui di corsa. Questo giovane è un testimone! Li mortacci tua, che farò ora? In che guaio mi sono cacciato!» si riferì a Nicolò e lo fissai a mia volta ma continuava a rimanere in silenzio. «Ragazzo, rispondi! Dì qualcosa. Le giuro che è saltata contro il mio taxi, mi creda, non ho fatto nulla!» Poi sentendomi osservata, spostai gli occhi dall'altra parte e incrociai quelli di Giovanni, fermo nel corridoio. Poi tornai su Enne, che stava scrutando Giovanni. Gianmarco corse a chiamare quest'ultimo per avvisare che la paziente era pronta per la TAC.
Era come essere tra incudine e martello, quindi mi rivolsi al povero tassista, che stava imprecando in dialetto.


«Da dove è saltata fuori esattamente?»

«Era molto vicino a qui. Ho appena accompagnato un altro cliente. Era a una strada di distanza.»

«Va bene. Per favore, portami un kit per il parto. Sbrigati.» ordinai al biondino che annuì. «Mi indichi dove.» Il tassista acconsentì.

«Vengo anch'io.»

Mi bloccai girandomi verso Giovanni. «No, non venire con il piede così. Ci penserò io.»

Poi inseguii il tassista e uscimmo fuori. M'indicò la direzione con il dito e iniziai a correre. Arrivammo in un quartiere leggermente isolato e mi spiegò che non era distante, potevamo usare quella scorciatoia. Feci un cenno d'assenso e scendemmo giù alla scarpata.

«Che sta cercando?» chiese mentre continuavo a guardare i dintorni. Poi arrivando ad un incrocio, l'uomo mi balzò di fronte. «È saltata fuori qui!»

«Per dove è arrivata?»


«Per di là.»

«Corra!»

«Dottoressa, non ho colpe. Sono un guidatore prudente.» Nel mentre che esploravo ovunque, dovevo sentire le sue lamentele. Tesi il palmo della mano, chiedendo di fare silenzio. «Mi creda, sono innocente!» Mi abbassai a guardare sotto una vettura in sosta e poi tra i cespugli oscuri di un parco. Ma non trovai niente. "Dove poteva essere?" L'uomo riprese a straparlare e lo zittii bruscamente. Vidi dei bidoni dell'immondizia e andai a rovistare tra le buste, sciogliendone i nodi. «Che stiamo facendo? Che stiamo cercando?» Mentre gettavo l'ultima busta, adocchiai un enorme borsone della palestra e mi ci soffermai. Mi abbassai e lo sollevai con attenzione per trasferirlo sulla strada. «Cristo, è sangue?» Mi accovacciai aprendo la zip. «Cosa c'è in quella borsa, dottoressa?» Lo aprii e dentro trovai un neonato di pochissimi chili. «Non posso credere a quel che vedo! Quello è un bambino?»

Mi girai per gridare a Mattia di venire subito con quel kit. Il giovane mi raggiunse e senza perdere tempo gli chiesi di passarmi i guanti e anche il telo sterile. Presi la neonata e la adagiai delicatamente. Mi piegai per sentire se ci fosse respiro. «Non respira. Dammi l'ambu, avanti.» Lo tolse dalla confezione e me lo porse, così lo appoggiai su una faccina grande quanto il mio pugno. Iniziai a premere più volte e poi ascoltai. «Dammi la pinza. Dobbiamo fermare l'emorragia.» Feci il clampaggio del cordone. Riprovai a pompare ossigeno e successivamente premetti con due dita sul suo piccolo petto, ricoperto di liquidi e sangue. Anche Mattia la incitò mentre continuavo imperterrita ad eseguire il massaggio cardiaco. Mi piegai un'altra volta e finalmente sentii una lieve vibrazione divenire più costante sotto il mio orecchio. «Respira!» dissi e la neonata emise il suo primo vagito. Mattia tirò un lunghissimo respiro di sollievo assieme all'autista, lasciandosi andare ad una risata. Guardai i suoi piedini muoversi e sorrisi. Era sopravvissuta. «Dammi la coperta.» Mattia me la porse e ci avvolsi quel piccolo corpicino per evitare che prendesse freddo.

«È stata fantastica! Le ha salvato la vita! Questa bambina è stata fortunata!» esclamò il tassista.

Presi la neonata in braccio, avvolta in quel lenzuolino più grande di lei, osservando il suo faccino dolce e tranquillo.

«Sei al sicuro. Sei stata molto brava. Tranquilla, è tutto finito.» Era così piccola, ma la forza non le mancava. Aveva combattuto e aveva vinto la sua battaglia contro la morte.

«Dottoressa, la porto di corsa in ospedale.»

«No, raccogli queste cose e seguimi, ok? La porto io.» Mi alzai in piedi tenendo la neonata stretta e iniziai a correre forte.

[...]

Una volta rientrata in pronto soccorso dopo aver lasciato la neonata alla nursery, mi guardai attorno alla ricerca del ragazzo, ma non sembrava essere da nessuna parte.

Era sparito, appena l'avevo perso di vista. Accidenti!

Magari la ragazza al banco accettazioni poteva darmi informazioni in più, ma la vidi intenta a ripassare il rossetto. Con un colpo di tosse, attirai la sua attenzione e smise.

«Salve, dottoressa! Chi sta cercando?» domandò, alzandosi in fretta dallo sgabello.

«Quelli che hanno portato la donna che è stata investita. Sai dirmi dove sono andati?»

«Il tassista è rimasto qui finché non ha saputo che la bambina stava bene, poi la polizia ha raccolto la sua deposizione e credo se ne sia andato.»

«C'era un'altra persona.»

La castana accennò un lieve sorriso. «Dottoressa, ho molto lavoro da fare. Non riesco ad avere tutto sotto controllo.»

«Immagino che rinfrescare il rossetto ti dia un bel da fare.»

Assottigliò fortemente le labbra in imbarazzo e la salutai, andando via a grandi falcate.














Giovanni

Mi stavo dedicando al lavaggio delle mani sfregando con il sapone, quando venni chiamato alle spalle da qualcuno.

«Dottore?» mi voltai di scatto incontrando il volto di Gianmarco. «I risultati...» Me li mostrò dal tablet.

«L'edema è grande. Ginecologia è dentro, appena escono entreremo noi, ok?»

Il ragazzo scosse il capo in segno affermativo. «Certo, dottore. Ho pure una splendida notizia! La dottoressa Andreani è riuscita a trovare la bambina e sta benissimo!»

Altro buon motivo per essere orgogliosi, si impegnava a fondo per i pazienti. Mi venne da sorridere spontaneamente. «Sono contento. Bene.» Annuii. «Brava, Federica. Brava.» Tornai a guardare il ragazzo alto. «Federica ha svolto un ottimo lavoro. Che ne facciamo di te, Gianmarco?»

Il diretto interessato alzò simultaneamente le sopracciglia non cogliendo il senso della domanda.

«Che vuol dire, dottore?»

«Vuoi venire?»

«Dove?» domandò perplesso.

«In sala operatoria. Chi mi assisterà?»

«Io, dottore?» Continuai ad avere gli occhi puntati su di lui, che distolse lo sguardo per riflettere. «Sì, ci devo pensare.»

«Gianmarco. Non pensare, agisci.» Quest'ultimo fece un altro cenno d'assenso.

«Sì, ha ragione. Non mangio da parecchie ore e non sono lucido.» poi senza aggiungere altro, andò a cambiarsi. Dopotutto non poteva contestare l'ordine del suo superiore.

Feci il mio ingresso in sala operatoria dove il primo intervento era in svolgimento salutando l'equipe e la ginecologa mi riferì che c'era voluto più tempo del previsto per riparare l'utero danneggiato. Se non fossero intervenuti, non sarebbe stata in grado di avere altri figli. Aveva un fatto un lavoro impeccabile. Ora toccava a noi e avremmo fatto il possibile per salvarle la vita.

«Sarà in grado di rimanere di nuovo incinta dopo aver gettato via la sua bambina. È ingiusto.» dichiarò Matteo irritato.

«Non è affar nostro.» Sollevò lo sguardo incrociando il mio dalla parte opposta. «Il tuo lavoro è salvare vite umane.»

«Non lo merita!» alzò il tono di un'ottava. «Donne così non meritano di essere madri.»

«Non sei qui per giudicare. Sei un medico. Il nostro unico dovere è aiutarli, non far pagare loro per gli errori che commettono. Ti avverto: cambia questa tua mentalità.» Il ragazzo indirizzò occhiate ai presenti per cercare consensi, ma nessuno fiatò, era presente solo il suono dei macchinari. Mi dispiaceva essere stato duro, ma era necessario fargli capire quella differenza. La donna mi avvisò di aver finito e mi lasciò il posto. Guardai soprattutto il rossiccio. «Se siete d'accordo con me, cominciamo.» Feci un cenno a Gianmarco che si spostò dall'altra parte, mentre Wax abbassò immediatamente lo sguardo sentendosi a disagio per aver sbroccato in quella maniera. Mi posizionai sullo sgabello e diedi il via al secondo intervento.
Wax si allontanò leggermente per riprendere il controllo.














Federica


«Vieni, baby, apri la bocca!» Avvicinò il cucchiaio per costringermi ad assaggiare la crostata che aveva preparato, nonostante avessi fatto una colazione talmente abbondante da non aver bisogno di mangiare nemmeno a pranzo.

«Non mi va, sono piena.»

«Sei troppo sciupata, Fede! Stai andando avanti con caffè e stuzzichini da giorni! Di questo passo, mi diventi uno spaventapasseri! Su, avanti. Non farmi penare! Apri!» incalzò e nonostante i miei miliardi di no alla fine l'ebbe vinta lei. Sembrava peggio di una nonna, in certi casi.

«Uffa! Nina, sono in ritardo. Dimmi una buona volta quello che vuoi farmi vedere!»

La castana posò il cucchiaio sul piattino da dessert. Era da ieri che voleva parlarmi di questa notizia "bomba" e ancora si ostinava a tacere.

«D'accordo, lo vedrai entrare da quella porta.» mi indicò con un cenno del mento quella della caffetteria.

«Chi entrerà?»

«Appena lo vedrai, non crederai ai tuoi occhi! Sarà uno shock come lo è stato per me.»
Si piegò in avanti e i suoi grandi occhioni si dilatarono.

«Nina, devo andare o arriverò tardi. Guarda che ore sono...» Recuperai la borsa dall'altra sedia e feci per alzarmi, ma la ragazza, udendo un rumore, poggiò le mani sulle mie spalle e mi fece rimettere seduta, per poi coprirmi anche gli occhi, come a "mosca cieca".

Sbuffai. «Non sto capendo nulla! Si può sapere che combini?»

«Sta arrivando. Uno-due-tre... arriva!» prolungò la vocale finale il più possibile ma la sua espressione mutò, tramutandosi in delusione. Il sorriso le si affievolì sulle labbra e il piccolo moro tolse gli occhiali da sole che stava sfoggiando. «Cos'è questo? Dov'è Nicolò?»

«Nicolò?» ripetei sbalordita, guardando l'uno e poi l'altra.

Angelina mi guardò. «Sì.»

«Stavi aspettando questo ragazzo?»

«Proprio così.» confermò.

«Sarebbe venuto qui?» chiesi.

Angelina fece un altro cenno affermativo con il capo.

«Ti ho deluso?»

A quella domanda, le scappò una leggera risata. «Sì...» Giovanni aggrottò la fronte e la mia amica la smorzò. «Beh, ehm, no.»

«Che faceva Nicolò qui?»

«È apparso... ieri.» Fece la ragazza guardandomi.

«Ecco perché era in ospedale.» confessò il ragazzo e nel sentire quella frase, Angelina mi indirizzò un'occhiata di sbieco.

«Federica! Perché non me l'hai detto?»

Mi limitai ad una semplicissima alzata di spalle e poi osservai il moro, che ne approfittò per infierire ancora di più.

«Sì, perché non gliel'hai detto?»

Chiusi gli occhi. Entrambi si erano messi d'accordo per farmi perdere la pazienza di prima mattina e non ne avevo alcuna voglia.

«OK, vado in ospedale. Non ho tempo per questo.»

Scattai in piedi per oltrepassare la figura mingherlina del giovane, ma prima che riuscissi nell'intento, mi afferrò saldamente il braccio. Mi impedì di muovermi e lo guardai attentamente negli occhi.

«Non ti lascerò tornare da quel motociclista pazzo, lo sai, vero?»

«Non lo so. E nemmeno mi interessa» Slegai la presa e un sorriso sornione si stampò sulle mie labbra, quando udii un lamento provenire alle mie spalle. Mi bloccai a metà strada vedendolo saltellare sul piede sano, continuando a mugugnare e toccare la gamba infortunata. «Che ti prende?»

Giovanni alzò lo sguardo verso di me. «Non lo so.» Assottigliai le palpebre. Faceva sul serio o stava fingendo? «All'improvviso ho avvertito una fitta molto forte.»

«Strano. Un minuto fa camminavi perfettamente.»

«Capitano le ricadute. Se non ti dispiace, mi appoggerò a te.» Allungò il braccio e mi accerchiò le spalle. «Andiamo insieme. Che ne dici di darmi un passaggio con la tua bella macchina, eh, dottore Andreani?»

Annuii alla proposta.
«Bene, andiamo.» Angelina si lasciò sfuggire un'altra risatina, mordendo la cannuccia tra i denti e le lanciai un'occhiata di traverso, mentre conducevo la mano sulla schiena di Giovanni, per aiutarlo a scendere quei tre gradini. Lo sapevo che avrebbe travisato il gesto di carineria, d'altronde lo stavo solo aiutando.

Dopo aver compiuto quella buona azione, arrivai giusto in tempo e svoltai bruscamente nel parcheggio tanto da far stridere le ruote sull'asfalto per piazzare la macchina accanto ad una BMW bianca. Spalancai la portiera scendendo, incrociando lo sguardo di Tommaso Daliana che se ne stava lì a fissare il vuoto. Poi lo vidi incamminarsi senza rivolgere un saluto.

«Tommy.» Stava con il capo chino sullo schermo del telefono e allora lo chiamai di nuovo. Non si voltò e gli corsi dietro per bloccarlo. Si voltò di scatto. «Ti stavo chiamando, non mi hai sentito?»

«Che succede? Cosa vuoi?»

«Grazie per avermi difeso ieri.»

Il ragazzo increspò un finto sorriso. «Ha finito Giovanni e ora tocca a te prendermi in giro. Trovati qualcun altro. Non lo sopporto, vattene.» Mi liquidò.

Non capivo perché si fosse offeso, dicevo sul serio per prima, non era una presa in giro. Aveva preso le mie difese, perché non voleva accettare i ringraziamenti?

Gli andai dietro, afferrandogli il braccio per passargli davanti.

«Di cosa stai parlando? Perché dovrei prenderti in giro? Ti sto ringraziando.»

«Sono passato per un codardo dato che non ho combattuto contro quell'uomo. Non hai alcuna compassione.»

Mi oltrepassò, mantenendo quell'atteggiamento da ragazzino permaloso, cosa che non mi diede ai nervi. A quel punto, appoggiai la borsa sul cofano anteriore di una macchina e afferrai il braccio del giovane, spingendolo all'improvviso contro quella carrozzeria. Lo tenni immobile, schiacciandolo con il mio corpo, riuscendo a guardarlo dall'alto, nonostante la stazza più elevata della mia. Mi osservò con la bocca leggermente schiusa e gli occhi dritti nei miei. Forse non mi conosceva bene, ma non era la prima volta che mi capitava di affrontare qualcuno. Avevo sempre fatto gare a livello agonistico e racimolato medaglie per la mia prontezza di riflessi.

«Sono anni che combatto, ok? Sono stata ben addestrata. È normale che abbia reagito prima di te. Sono una professionista.»

Mi guardò per qualche secondo mentre tenevo il braccio fermo sopra la sua testa.

«Beh... p-posso alzarmi? Eh?»

«Non mi sarei salvata se non fosse stato per te.» Lo liberai ma il giovane restò incollato alla portiera. Ripresi la pochette e lo sorpassai, dirigendomi verso l'ospedale. Il tempo non era mai abbastanza, quando si trattava del mio lavoro.

Mentre raggiungevo l'entrata, l'assistente mi venne incontro, accogliendomi con un sorriso smagliante. «Menomale! Dottoressa! Che gioia vederla!»

Non era passato chissà tempo dall'ultima volta...

«Buongiorno anche a te, Gianmarco.»

«Certo, buongiorno a lei, dottoressa.»

«A che devo tanta frenesia?» domandai tagliando corto. Il giovane stava per rispondermi ma guardò un punto oltre alle spalle e si illuminò, vedendo che stesse arrivando l'altro.

«Avevo bisogno di un medico e adesso siete apparsi entrambi. Se non è fortuna questa!»

«Che succede? Non dire sciocchezze. Perché ti occorrono due medici?» lo rimproverò Tommaso con le mani ai fianchi.

«Beh, dottore, l'incubo è tornato. Le due famiglie sono qui.»

«Che dici? Ancora! No!» borbottò il ragazzo con la mano sulla fronte.

«Temo proprio di sì, dottore.»

«Che intendete?» domandai non capendo il filo del discorso. Sembrava un dialogo in codice. Ovviamente la mia domanda venne bellamente ignorata.

«Cosa ci aspetta, mamma mia.»

«Può dirlo forte, dottore. Siamo fritti.»

«Chi è questa gente?» continuai.

«È tutto pronto?»

«Ovviamente, tutto pronto.»

«Qualcuno mi spiega che sta succedendo o tiro ad indovinare?»

Guardai entrambi i ragazzi.

«Lo capirai quando entreremo.» si limitò a dire Daliana e non mi restò che stare al loro passo.

[...]

Quando entrammo nel pronto soccorso seguita, trovai dinanzi a me delle persone intente a lanciarsi occhiate di puro odio e punzecchiarsi a vicenda.

«Che cos'è?»

«Due famiglie nemiche. Litigano spesso così.» rivelò Gianmarco accanto a me.

«Si, ok, ma la bara, che ci fa qui?» La indicai sulla barella, fungeva da vero e proprio separatore.

«La bara è una tradizione. Le due famiglie in conflitto depositano una bara, affinché nessuno muoia e che la disputa non si concluda in un bagno di sangue.»

«E come ogni singolo anno finiscono qua. Ferite alla testa, braccia rotte, di tutto e di più, e come vedi affollano sempre il nostro pronto soccorso.» spiegò Tommaso.

«È sempre la stessa storia. Quest'anno hanno litigato perché credono che i figli siano scappati.»

«Non è vero, dottore! Mia figlia non è scappata. Quel delinquente di suo figlio ha rapito la mia povera figlia!» obiettò la signora con l'indice rivolto a un ragazzo con il collo bloccato da un collare.

«Non inventare le cose. È stata la tua indecente figlia a scappare con mio fratello!»

«Senti, ma come ti permetti di dare dell'indecente a mia sorella!» La ragazza gli lanciò la prima cosa addosso che gli capitò sotto tiro e la situazione degenerò in un lampo. La bara si ribaltò e passarono immediatamente alle mani, sotto i nostri sguardi basiti.

Tentammo di convincerli a calmare i loro animi, ma le nostre parole non erano sufficienti. Urlammo di calmarsi, che era un ospedale non un ring, ma erano sordi e troppo impegnati a picchiarsi. La situazione era fuori controllo quando una voce maschile intervenne, immobilizzando i presenti e riportando la quiete.

«È finita! Ognuno torni a posto.» Sembrarono tutti dare retta all'arzillo anziano in sedia a rotelle che si era palesato lì. «Sembrate un branco di animali. Che sta succedendo? Che vi prende? Smettetela con questo chiasso, questa rivalità ci ucciderà tutti! Non litigate più, mi avete sentito? I medici hanno ragione.» ordinò ai presenti che si lanciavano sguardi minacciosi.

«Chi è questo?» chiesi a Gianmarco.

«Non lo chieda, dottoressa. Il signor Romeo è la ragione dell'inimicizia. È stato sposato per molti anni con la nonna dell'altra famiglia, però non potevano avere figli. Non c'è stato alcun modo di...» raccontò come se davvero mi interessasse il remake di Shakespeare.

«Gianmarco, lascia stare la storia di Romeo e Giulietta, per piacere. Dimmi qualcosa sul caso.»

«Vede dottoressa, stavano litigando in mezzo alla strada quando un camion li ha travolti.»

«È meglio separarli o finiranno per uccidersi a vicenda. Porta questa famiglia nella zona gialla e io porterò l'altra nella rossa.» ordinai al ragazzo che annuì. Puntai lo sguardo su Tommaso che continuava a osservarmi. «Tommaso? Andiamo.» lo incalzai e si riprese dalla paresi facciale, occupandoci di condurre le due famiglie che volevano accapigliarsi. Non sarebbe stato semplice evitare uno sterminio di massa.



[...]

Uscendo in corridoio un'altra volta, notai una signora anziana seduta comodamente sul divano e mi chiesi chi fosse stato l'incapace che non avesse controllato bene sbattendo le braccia ai fianchi. «Wax!» Il rosso arrivò veloce come un fulmine e gliela indicai con il dito. «Che fa qui la paziente? È una sala d'attesa il corridoio?»

«Certo che no, però...»

«Non ti ho chiesto spiegazioni! Era tuo dovere.» sbottai, alzando il palmo della mano.

«Non sgridare il ragazzo!» mi rimproverò la signora. «Non voglio condividere lo spazio con quell'uomo.»

«Quindi, non intende entrare nella stanza con gli altri?»

«Proprio così. Non entrerò.»

Feci spallucce, mettendo le mani in tasca. «E che farà qui?»

«Finché quel pazzo non se ne andrà, non entrerò nella stanza.»

«Vincerà il premio per la donna più ostinata. Direi che ci sono poche speranze di convincerla.» confessò Matteo, piegandosi leggermente verso il mio viso.

«Ma deve entrare per permettere ad un medico di visitarla.» le dissi con gentilezza, sedendomi così al suo fianco.

«Non mi importa. Mi rifiuto di stare nella stessa stanza di quella feccia!»

«Feccia?»

«Parlo di Romeo. È un rifiuto umano. Cos'è che non capisce?» affermò stizzita e riportò a galla un ricordo stipato nel mio cervello. Mia nonna aveva detto la stessa cosa del figlio, quando mi aveva trovato fuori alla sua pensione dopo aver raccolto i soldi che aveva lasciato.
Lo aveva chiamato "rifiuto umano" e quello mi fece sorridere.

«Okay, in questo caso... darò un'occhiata qui.» Portai la mano nella tasca del camice per estrarre la torcia. La donna protestò che non le serviva, si sentiva bene, non era come quello stupido di "Romeo" che non aveva visto il camion, lei si era buttata dall'alto lato. Quel suo atteggiamento di donna tutto d'un pezzo mi fece sorridere di gusto. Controllai le pupille, sembrava nella norma, compresa la lingua lunga.

Poi si rivolse al ragazzo in piedi, chiedendogli se sapesse qualcosa sulle condizioni dell'uomo.

«Chi? Il signor Romeo? Vuole che lo scopra?»

«Non è necessario! Voglio sapere se è morto, ma non succederà. Quello lì ha sette vite come i gatti!» Increspai un sorriso divertita dalla preoccupazione che non riusciva a mascherare, neanche sforzandosi un po'.

«Signora Giulietta, il signor Romeo sta bene, è fuori pericolo, non si preoccupi.» la rassicurò Tommaso.

«E allora che devo fare io!? Lascia che me ne vada. Sto bene, voglio andare a casa mia.»

«Quando avremo i risultati dei suoi esami, potrà andarsene.»

«Sono così stanca! Dai, lasciatemi andare, per favore.»

Si alzò in piedi scocciata e lo stesso feci io, ponendole le mani sulle spalle. «Risolverò il problema. Glielo prometto, ok? Si sieda qui e mi aspetti. Devo fare alcune cose.»

La donna sbuffando si rimise seduta sul divano. «Non metterci troppo, cara. Mi annoio.»

Annuii e chiesi a Wax di controllarla, riprendendo a camminare affiancata da Tommaso Daliana.

«Non se ne andrà da qui finché non saprà che il signor Romeo sta bene. Non credere a ciò che dice.»

«Oddio, è tanto testarda?» mi bloccai su due piedi.

«Neanche te lo immagini. Ma... è un grande amore.»

«La vera ferita è nei loro cuori.» dichiarai per poi abbandonare il ragazzo in mezzo al corridoio, per proseguire il tragitto da sola.












Giovanni

Il bussare leggero mi distolse dalla lettura di alcuni documenti e quella persona era Maddalena.

«Ti ho preso in un momento sbagliato?» chiese dalla soglia con la mano sulla maniglia.

«Devo visitare un mio paziente, ma vieni pure.»

«Ti ruberò solo cinque minuti, tranquillo.»

Entrò, portando con sé un piatto, che poi appoggiò sulla scrivania con un pezzo di torta al cioccolato ricoperto di glassa.

La guardai un po' riluttante.
«E questo per cosa?»

«Un nuovo inizio.» rispose raggiante.

«Perchè vorresti iniziare di nuovo, Maddalena?»

Si tolse una ciocca di capelli dal suo viso e la spostò dietro l'orecchio. «Dottore, qualche tempo fa ho sentito una cosa e mi ha fatto riflettere. Si dice che il tempo è come un circolo vizioso, la gente finisce per fare sempre le stesse cose.»

«Che significa?»

«Te lo spiego in un altro modo, per fartelo capire meglio, Giovanni. Non ho mai smesso di amarti e non credo che lo farò. Ho deciso di portarti questa torta perchè dicesti che durante una confessione non bisognava presentarsi a mani vuote.»

Scossi la testa accennando un sorrisetto. «Maddalena non mi piace la torta con le fragole.»

Inclinò il capo da un lato.
«A volte, non abbiamo altra scelta che fare cose che non ci piacciono. Per esempio, a volte devo mantenere segreti, anche se mi aggrada.»

«Di che segreti parli?»

«Sono segreti. Non te lo posso dire. Però il signor Giorgio te lo dirà quando sarà il momento.»

«Maddalena, non davvero ho idea di cosa tu stai parlando. Puoi essere più chiara?»

La biondina sorrise enigmatica.
«Credo che stasera riceverai tutte le risposte alle tue domande.» Distolsi lo sguardo, infastidito. Odiavo non essere al corrente di qualcosa riguardante la mia vita, perché era di quella a cui si stava alludendo. Prese la fragolina disposta come decorazione e se la mise in bocca. Dopodiché girò i tacchi, leccandosi il dito sporco e uscì dall'ufficio, lasciandomi con mille interrogativi in testa...

[...]

Riccardo spezzò la ciambella a metà, dividendola con il sottoscritto, e me la passò mentre eravamo seduti su una panchina di fronte alla vista del Tevere.

«Se vuoi parlare di Federica, questo è il momento giusto.»

Feci dondolare l'asta dei miei occhiali e continuai a guardare il mio amico. Di lui mi fidavo, e conosceva bene la situazione. Gliene avevo parlato.

«Lo sai che sono ancora innamorato di lei?»

«Sei sicuro?»

«Proprio così. Non è cambiato nulla, anzi direi che ho capito che questi sentimenti sono cresciuti. È la donna che voglio al mio fianco.»

«Forse è cambiata lei.»

«Sai qualcosa che non so?»

«No.» negò, ridendo. Si alzò dalla panchina e si avvicinò per ammirare il panorama di fronte a noi.

«Senti, Riccardo.» Si voltò masticando il boccone. Volevo mettere le cose in chiaro fin dal principio. «Non voglio rovinare il nostro rapporto per questo.»

«Sembra che tu mi voglia sfidare a duello, Gio. Che ti prende?»

«Non perderò Federica di nuovo. Farò tutto il possibile stavolta.»

L'uomo annuì. «Mi stai spaventando. Che ti è successo? l'America ti ha reso un macho?» Quasi sorrisi tra i baffi. «Mi stai dicendo che potrai impedirmi di vedere Federica.»

«No. Ti sto solo avvisando che lotterò per i miei sentimenti.»

«Bene. Finalmente hai fatto mente locale e hai ben chiaro ciò che vuoi. Mi fa piacere per te.»

Abbassai lo sguardo, prendendo un respiro e il cellulare interruppe il discorso. Wax mi avvisò che la paziente che avevamo operato aveva ripreso conoscenza. Era il momento di andare, così raccolsi le stampelle e informai Riccardo.

«Gio.» Tenni il mento alzato. «Non ti ossessionare troppo. Non è un trofeo che puoi vincere per metterti in mostra con gli altri.»

«Ci vediamo in ospedale.»

Mi salutò a sua volta e lo lasciai a godersi un altro po' il panorama. La mia ora libera era terminata. Dovevo tornare alla base...

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