Capitolo 3.2 - Alla ricerca di un miracolo

Giovanni

Attesi con pazienza l'ascensore, dato che di piani ne erano circa una decina in ospedale e prendere le scale con un tutore non mi pareva il caso. Voltandomi notai la donna incinta arrivata ieri che vagava nel corridoio senza la più pallida idea di cosa stesse cercando lì. "Avrebbe dovuto restare nella sua camera a riposare, che ci faceva in piedi nelle sue condizioni?"

Si fermò a pochi passi da me e allora la interpellai. «Mi scusi?» Ruotò la faccia. «Che sta facendo qui fuori, signora? Non sa che è molto pericoloso, vuole partorire in mezzo al corridoio? Torni in camera, per favore.»

«Mi perdoni, dottore. Sto cercando mio padre. Ha detto che andava in chiesa a pregare, ma è passato molto tempo e non è ancora tornato.»

«D'accordo. Per prima cosa, la porterò in camera e metterò a letto. Poi vedrò di trovare suo padre. Okay? Lo prometto.»

Annuì. «Bene.»

Ad un certo punto, si piegò raccogliendo le mani sul pancione e gemette per il dolore.

«Fa tanto male?»

«Un po'.» rispose con una smorfia sulle labbra. Poteva trattarsi di contrazioni preparatorie oppure che il parto era imminente.

«Quant'è frequente il dolore? Ogni quanti minuti?»

«Ogni tanto.»

«Okay. Non c'è al momento da preoccuparsi. Non sembra essere in travaglio attivo. Ma è meglio assicurarcene. Andiamo nella sua stanza. Controllerò personalmente la situazione.»

Lei guardò oltre le mie spalle e strillò impaurita. «Papà!» Spostai lo sguardo in basso e vidi l'uomo disteso sul pavimento, del tutto privo di sensi. «Papà!?»

«Signora, si calmi. Qualcuno venga subito qui!» Lanciai le stampelle da qualche parte e mi introdussi nell'ascensore. Poco dopo due ragazzi del personale mi raggiunsero e lo sollevarono di peso per trasportarlo fuori. «Attenti, attenti con il collo! Fate piano. Si calmi. Non sta succedendo nulla.» cercai di tranquillizzare la figlia sempre più spaventata. Lo adagiarono a terra e ordinai di non muoverlo, oltre di occuparsi di Chiara.
«Signore, signore, riesce a sentirmi?» Non ricevetti risposta e schiacciai sulla carotide per controllare i battiti. Non c'erano. Mi piegai verso la sua bocca e non sembrava che respirasse. «Codice rosso. Ottavo piano. Ottavo ascensore. Portate gli strumenti di pronto intervento, forza!» Intanto iniziai con il massaggio cardiaco, spingendo sullo sterno più e più volte mentre la figlia dell'uomo continuava a disperarsi. Gli misi un lembo del camice sulle labbra e ascoltai probabili flussi d'aria. Ma nulla. Continuai la manovra salvavita. Arrivarono i ragazzi della squadra e mi voltai appena. «Wax, prepara il defibrillatore.  Presto!» Tommaso si accovacciò e tirò su la maglietta per posizionare gli elettrodi sul petto. La linea che apparve sul monitor era completamente piatta.

«Impostalo a duecento volt.»

«Sta arrivando, allontanati. Duecento pronti. Tre-due-uno, libera!» Sfregò le piastre, aspettò la carica necessaria e gli diede una prima scarica.

Stesso risultato. «VF. Riprova.»

«Ancora.»

Ripeté il procedimento e gli diede una seconda scarica, anche questa non portò a risultati.

«VF. Ancora una volta.»

Per la terza volta di seguito nel giro di qualche secondo Tommy gli assestò la scarica elettrica, però stavolta i battiti salirono a settanta e ci guardammo. «Abbiamo polso, ritmo irregolare. Trasferisci il paziente in terapia intensiva. Portate la barella!» alzai la voce e lo caricarono immediatamente su di essa. «E non muovetelo troppo!» ricordai all'equipe.

«Papà... non andartene, ti prego!» lo supplicò la figlia piangendo a dirotto, facendosi scivolare vicino alla parete. «Perchè non ha aperto gli occhi? Cos'ha?»

La barella fu condotta via.

«Tommy!» Fermai il giovane che si stava apprestando a seguirli e si voltò di rimando. «Resta qui con lei. La signora non si sente molto bene. Riportala in camera e richiedi il consulto ostetrico e facciamole un tracciato. Ha avuto delle contrazioni poco fa.» Lo superai, lasciandolo a prendersi cura della paziente.

[...]

Con l'espressione più contrariata di questo pianeta, stavo mostrando al mio caro genitore il terribile manifesto che avevo trovato sparpagliato per tutto l'ospedale. Era proprio di una bruttezza terrificante e invece di essere d'accordo con la mia opinione, stava sogghignando sotto i suoi baffi.

«Sì, ridi, ridi pure! Che robaccia è, papà? Potresti spiegarmelo? Ci sono manifesti come questo dappertutto. Almeno avrebbero potuto scegliere delle foto più decenti. Questa è venuta una schifezza! Che razza di figuraccia!» brontolai gettandolo sul tavolo basso che ci divideva.

«Non dirlo a me, figliolo. Li ho visti stamani anch'io. Ma giuro che non c'entro niente!» Alzò le mani e inclinai la testa di lato. «Li ho fatti togliere. Non preoccuparti.»

E menomale, direi.

«Anch'io ne ho tolti alcuni. Sono un medico, non un fenomeno da circo.»

«È rotto?» mi chiese cambiando improvvisamente discorso mentre sgranocchiavo gli arachidi nella ciotola. Feci un cenno affermativo. «Chi ti ha convinto a farlo controllare?»

«Federica.» risposi prontamente alzando il viso.

Mio padre si staccò dallo schienale e poggiò i gomiti sulle ginocchia per spingersi in avanti. «Mhm... Ora che mi ci fai pensare, volevo parlare con te del nuovo medico dell'ospedale.»

L'argomento mi fece sorridere ampiamente, o forse era il pensiero di lei. «Il tuo nuovo medico è una mia ex alunna: Federica. È molto talentuosa, brillante ed è una persona fantastica. Non ti pentirai della scelta di averla assunta.»

Tornò a contatto con lo schienale e sgranò le pupille scure sbalordito dalla descrizione o dal fatto che i miei occhi fossero diventati i fari di uno stadio. «Oh, cielo! Che ragazza questa Federica. Anche Riccardo mi ha detto meraviglie su di lei e ora tu.»

«Riccardo?» ripetei smettendo di masticare per guardarlo.

Si limitò a mugugnare e drizzai la schiena. «È venuto a trovarmi in ufficio ieri sera. Senti, Riccardo lavora per me da anni e non mi ha mai chiesto nulla. Lo conosci. È molto orgoglioso.»

«Che voleva da te?» indagai assottigliando le palpebre.

Gonfiò il petto con un sospiro profondo. «Di non licenziare Federica.»

«Licenziarla?» ripetei ancora più stupito. Il mio vecchio annuì. «E da dove viene quest'idea? Perchè dovresti licenziare Federica? Chi ha fatto la proposta?»

Mio padre si avvalse della facoltà di non rispondere, ma in fondo sapevo che a qualcuno la presenza di Federica dava fastidio e che avesse fretta di disfarsene. Maddalena aveva moltissima influenza sulle decisioni tossiche di nonno e padre e il fatto che avessi scelto Federica come mia assistente non le era mai andato giù. Probabilmente era stata lei.
Ma non ci sarebbe riuscita, mio padre non si sarebbe fatto scappare un elemento simile e Federica poteva dare lustro alla sua nutrita schiera di medici.

Federica

Intenta a sistemare lo stetoscopio attorno al collo, qualcuno con la grazia di un elefante in un negozio di cristalleria mi chiuse di colpo l'armadietto. Voltandomi mi trovai davanti la biondina. Sembrava un gatto a cui avevano pestato la coda. Non so quali problemi l'affliggessero per comportarsi come una bambina.

«Che ti prende?»

«Penso che dovrei farti la stessa domanda. Che ti prende?» riformulò. «Pensi di essere la migliore, vero? Ti piace molto metterti in mostra. Vuoi avere tutti i ragazzi di quest'ospedale sul palmo della tua mano, non soltanto Giovanni.»

Continuai ad aggiustare lo stetoscopio senza dar retta alla sua gelosia morbosa. Mi domandavo quando ci avesse dato un taglio dato che non aveva più sedici anni e non era più una studentessa liceale.

«Non ho voglia di rivivere la stessa situazione. Me ne vado. Sono stanca. E, per favore, smettila con le paranoie.»

Maddalena mi prese saldamente il braccio impedendomi di fare un passo. «Guarda che non te la caverai così facilmente, Andreani.»

«Va bene, dimmi tutto quello che devi dire.» La guardai dritto negli occhi. Non avevo paura di lei o della sua sfrontatezza. «E lasciami andare il braccio.»

«Altrimenti che farai? Mi colpirai?» Roteò gli occhi. «Oh, ho dimenticato che quello che vuoi è bruciarmi viva.»

«Lasciati il passato alle spalle e volta pagina.» consigliai liberandomi dalla sua presa.

«Sai una cosa?» Tornò a fronteggiarmi. «Tu sei la persona più astuta che abbia mai conosciuto in tutta la mia vita. Sei una serpe! So perché mi hai chiamato ieri sera. Volevi mettermi in ridicolo di fronte a Tommaso, no? Ma è finita.» sentenziò con determinazione. «Stai per essere licenziata. Non c'è più posto per te qui dentro. Ti auguro il meglio.»

«Hai finito? Posso andare?» chiesi annoiata e infilai le mani nelle tasche del camice per poi abbandonare lo spogliatoio. Se pensava che mi sarei abbassata al suo livello e avrei risposto alle sue minacce, si sbagliava.
Non utilizzavo più la mia forza se non in casi molto estremi, quindi la rabbia di miss reginetta non mi scalfiva come un tempo.

[...]

Tornai al pronto soccorso, in compagnia dell'infermiere Zenzola, per occuparmi di Christian, il bimbo che era arrivato per una caduta.
Salutai i suoi genitori che erano in attesa di buone notizie sugli esami e mi rivolsi al piccoletto, intento a giocare sul cellulare.

«Come stai, Christian?»

«Sono uscite le mie foto?» domandò curioso.

«Certo. Mi sono piaciute tanto.» Mi piegai. «Ti farò un album bellissimo così lo farai vedere alla tua amichetta Sara.»

«Che bello!» esclamò contento.

Gli esami erano puliti, ciò significava che oltre a un bello spavento non era successo altro. Guardai la madre, dicendole che era tutto nella norma e che lo avremmo dimesso presto. Poi mi curvai verso il piccolo. «Chri, posso dare un'occhiata ai punti?»

«Solo se non fa male.»

«No, non ti farà male, promesso.» Staccai piano il cerotto dalla pelle e controllai se fosse apposto. Il bimbo si lamentò appena e si comportò bene. «I punti sono perfetti e tu sei ancora bellissimo, tranquillo.» Mi spostai verso il carello per controllare l'andamento della flebo quando la donna urlò allarmata e vidi il bimbo guardare in cielo e tremare sul lettino. Gli rimossi il cuscino velocemente da sotto la testa e lo mantenni per le spalle. «Sta avendo un attacco. Veloce, un milligrammo di diazepam!» Mattia corse a riempire la siringa mentre quei spasmi erano forti. Mi girai verso la madre che gli stava tenendo le caviglie. «Suo figlio ha l'epilessia?»

La donna scosse la testa. «No, no!»

«Non ha mai avuto convulsioni?»

«No, mai.» rispose il padre.

«Più veloce!» urlai a Mattia che mi passò la siringa. Dopo poco, l'attacco passò e il bimbo tornò tranquillo anche se perse i sensi. Controllai le pupille e poi mi raddrizzai. Non era un sintomo normale.

«Che è successo, dottoressa? Ha detto che stava bene.»

Non volevo intimorire quella donna, ma le convulsioni non erano sintomi normali.

«Credo non abbia nulla a che fare con la caduta.» Mi rivolsi quindi all'assistente. «Facciamo dei test per capire cosa c'è che non va. Infermiera, può venire?» Posai poi la mano sul braccio della madre e mi allontanai, seguita a ruota da Mattia. Ci fermammo fuori al pronto soccorso. «Fai una tac. Avvisami quando usciranno i risultati.» Il ragazzo annuì, andando via di corsa mentre un dubbio stava prendendo forma nel mio cervello. Forse stavamo ignorando qualcosa di fondamentale, ma quei test ci avrebbero aiutato a trovare una causa o anche una cura adatta.
Il tintinnio di una notifica mi fece tornare alla realtà e presi il cellulare leggendo il messaggio. Dopodiché ripresi a camminare.
Raggiunsi le camere di degenza in un altro corridoio e osservai un uomo nerboruto, che si era intrufolato in una delle porte.
Lo trovai strano, ma continuai il tragitto finché non mi avvicinai al gruppo agli scagnozzi, che stavano litigando per una monetina. Appena mi videro sopraggiungere si misero sull'attenti e quel comportamento mi fece sorridere. «Potrebbero pensare che sia il loro capo...» pensai ad alta voce e uno di loro mi aprì la porta facendomi passare.

Arrivai vicino al letto e il boss stava ridendo di gusto con il suo braccio destro. Le loro risate si smorzarono quando mi videro.

«Perchè mi hai chiamato? Non ti senti bene?»

«No. Mi sento bene. Grazie a te.» Feci un cenno d'assenso. «Petit!»

L'uomo aprì il cassetto del mobile e prese un cofanetto che poi aprì di fronte a me mostrandomi una costosa collana di diamanti.

Distolsi lo sguardo a quella vista. «Perché?»

Fabio assunse un'espressione confusa. «Non le piace? È piccolo, vero?»

«No, non è questo.» Obbiettai.

«Sapevo che non avresti dovuto incaricare lui.» ringhiò a denti stretti rivolgendo un'occhiataccia al giovane. «Mettilo via, incapace!» L'altro obbedì, chiuse subito il cofanetto e lo nascose dietro la schiena.

«Non è necessario un regalo. Come non c'è alcun bisogno che quegli uomini stiano alla porta. Qui sei al sicuro.»

«Dottoressa, si sbaglia. Ho molti nemici. Se scoprono che sto così, verranno a cercarmi.»

«Scappare dai problemi o nascondersi dietro ad un muro, non risolve il problema. Prima o poi dovremo affrontare il nostro passato. Non lo pensi anche tu?»

«Ha ragione.» concordò lui, dopo un po' pensandoci.

«Ok, cerca di dormire.» Gli dissi e senza aggiungere altro mi recai all'uscita. Una volta fuori, gli scagnozzi smisero di scherzare e nascosi un altro sorrisetto.

In ufficio, smanettai sulla tastiera e compilai alcuni referti medici lasciati in sospeso da altri, quando qualcuno bussò leggermente alla porta. Gli diedi il permesso e Mattia si avvicinò alla scrivania informandomi che i risultati del bambino erano appena usciti.

Scollai gli occhi dalla schermata del pc e lo fissai. «E?»

«Dia lei un'occhiata.»

Aveva un'espressione funesta dipinta in faccia. Mi porse quei fogli e li sfogliai. «La tac è negativa. Fai la risonanza.»

«Ehm... lo so. Ne già ho fatta una. Sono le fibre nervose ad essere colpite. C'è un alto livello di demielizzazione.»

Agguantai il tablet per guardare meglio la lastra e in effetti la diagnosi era terrificante.

«Spiegherebbe la difficoltà nel camminare e la debolezza.»

«Comprese le convulsioni.» aggiunse Mattia.

«Malattia di Krabbe. Infermità grave.» sentenziai. Mattia si limitò a mugugnare qualcosa. «Ha otto anni. Sarà del sottotipo di inizio tardivo.»

«È così piccolo.»

«Sarà costretto a letto e poi finirà in stato vegetativo.»

«Esiste una cura?»

Abbassai le mani e guardai un punto nel vuoto. «No...»

Mi alzai dalla sedia. Sentivo un groppo in gola e mi sembrava di soffocare tra quelle pareti. Com'era possibile una cosa simile? Un povero bambino che aveva tutta la vita da vivere... condannato a una fine inevitabile. Non poteva fare niente per invertire il processo. Mentre passeggiavo per il giardino, mi tornarono in mente quei momenti in ambulatorio, i suoi complimenti e quelle parole che mi stavano scavando un buco nello stomaco.
Mi ero impegnata e avevo studiato tanto per salvare vite umane, non per vederle morire.

Avevo la testa ingarbugliata, martellata dall'eco di parole del bambino, che quando incrociai Giovanni mi fermai su due piedi con una faccia a metà tra confusa e devastata.

Mi stava chiamando da una panchina non molto distante eppure non mossi un muscolo.

«Vieni...» Fece per prendere le stampelle. «Se non vieni tu, vengo io da te.» A quel punto mi scongelai e mi avvicinai, per poi sedermi sulla panchina. «Che ti succede?»

«Non importa.» tagliai corto con gli occhi rivolti al terreno.

«Federica, io non ti credo. Apriti con me. Hai intenzione di dirmelo o devo cavartelo io dalla bocca?» insistè e mi voltai nella sua direzione. «Ti prego...»

«Ho un bambino di otto anni come paziente e sta per morire.»

«È orribile. Mi dispiace.»

«Non ho cura o conforto per quel bimbo e la sua famiglia. Per te, è normale? Dov'è il miracolo?» Mi sentivo sprofondare in un baratro di tristezza e non sapevo come fare per uscirne. Mi chinai in avanti coprendo la bocca con la mano e intrecciai le mani. Non esisteva una giustizia divina?

Giovanni mi prese le mani e le tirò verso di sé per convincermi a guardarlo. «Federica... Per prima cosa, stai calma.»

I miei occhi si inumidirono. «Devo dire alla famiglia che il fratello potrebbe attraversare lo stesso incubo.»

«Mi dispiace.»

Distolsi lo sguardo traendo un sospiro. Mi sentivo così impotente. «Dimmi... Come faccio?» sibilai.

«Dì loro la verità. Sii diretta. Non dar loro false speranze. Devono capire la gravità della situazione. Una minima speranza li farà soffrire di più.» suggerì.

«Ma è ingiusto.» bisbigliai.

«Quando qualcuno riceve tali notizie gli si spezza il cuore. Potrebbero voler fare milioni di domande o preferiscono essere lasciati da soli a metabolizzare. Possono reagire in mille modi diversi, ma ciò di cui hanno davvero bisogno è qualcuno che comprenda il loro dolore. Che non dica le cose per pena. Se vuoi, possiamo farlo insieme.» Ciò che volevo era una cura alternativa. «Ma devi sapere che questa è la cosa più difficile da fare... come medico. E non riuscirai ad allievare il dolore.»

Mi piegai di nuovo rivolgendo uno sguardo al vuoto mentre avevo gli occhi del moro su di me. Giovanni restò in silenzio rispettando i miei tempi mentali. Avevo bisogno anch'io di metabolizzare la parte dura del mio lavoro.

[...]

I bambini erano a pochi passi, giocavano e coloravano inconsapevoli di quale tempesta si sarebbe abbattuta sulla loro famiglia. I genitori erano davanti a me e io dovevo farmi forza.

«Christian ha una malattia che progredisce nel tempo ed è composta da fasi. Dai cinque ai sette anni prima di essere confinato in un letto. Poi resterà in stato vegetativo.»

«Ma c’è una cura? Ci sarà una cura, vero?» chiese la donna speranzosa.

Mi scambiai un veloce sguardo con Giovanni al mio fianco e continuai riportando lo sguardo serio sulla donna. «No... non per adesso.» Immediatamente si portò la mano al petto e iniziò a piangere mettendosi seduta sul divano. Il marito invece tentò di non mostrarsi debole.

Nessuna madre avrebbe accettato a cuor leggero la morte di un figlio così piccolo.

«Come sarebbe a dire “no”? Non potete salvarlo?» domandò.

«Mi dispiace...» La donna non potendo smettere di piangere, toccò il dorso della mano del marito con la fronte. «Tratteremo tutti i sintomi di suo figlio quando compariranno… ma alla fine avrà bisogno di essere collegato ad un respiratore per continuare a vivere.» L’uomo guardò da un'altra parte, con gli occhi lucidi e incrociai di nuovo quelli verdi di Giovanni. «C’è un’altra cosa.» sussurrai. Poi chinai la testa contro il pavimento. «La malattia purtroppo è ereditaria. È necessario fare dei test anche al fratello.»

«No.» La donna si levò dal divano scuotendo il capo. Guardò i bambini. «Anche lui?»

«Ha mai fatto questi esami?»

«No... N-Non riesco a ricordarlo.»

«Ha partorito in quest’ospedale?»

«Sì. E se anche lui è portatore della malattia, che gli succederà?»

«Se non ha mostrato i sintomi finora… potremmo trattarlo con le cellule staminali e tentare di fermare il processo della malattia.»

«È possibile? Può fermarlo?» chiese il padre ritrovando un barlume di speranza.

«Dottoressa Andreani, diamo un’occhiata agli esami.» Giovanni reclamò la mia attenzione e mi limitai ad un cenno con il capo.

«Mi dispiace.»

La donna si abbandonò sul petto del marito riprendendo a piangere e si lasciò ricadere sul divano con le mani premute sulla bocca. Girai le spalle, a testa bassa, il cuore in frantumi e mi bloccai quando incrociai i sorrisi e i volti dei due bambini. Erano spensierati e ignari di quanto fosse accaduto. Entrambi mi salutarono e la mia anima si disintegrò. Ricambiai il gesto e mi allontanai nel corridoio con gli occhi tristi. Lasciai Giovanni lì, ma avevo bisogno di stare sola e mi fiondai nel bagno. Appoggiai i palmi sui bordi del lavandino e guardai la mia immagine riflettersi allo specchio, respirando con sempre più affanno. Non potevo respirare, avevo una pietra che mi stava schiacciando il petto, il cuore batteva così forte da sentirlo nelle orecchie e le lacrime intrappolate negli occhi mi rigarono le guance. Non riuscii a ricacciarle indietro e le lasciai scendere senza alcun freno. Mi aveva scalfito più di quanto credessi. Il mio scudo di forza era d’un tratto crollato ed ero fragile.
Non ero forte, lo avevo capito. Non ero nemmeno in grado di curare bene il piccolo Christian, ma solo di dargli un crudele benservito. Asciugai i residui di pianto con la manica del camice e presi della carta dal dispenser. Non potevo farmi vedere in quello stato, dovevo reagire.













Giovanni

«Dottore?» Mi sentii chiamare alle spalle e nel girarmi vidi la madre del bambino a cui Federica aveva dato quella spiacevole notizia avvicinarsi e rimasi ad aspettarla.

«Mi dica.»

«Ci... potrebbe aiutare?»

Era già stato sofferente sentire che il figlio non aveva scampo e sarebbe morto fra qualche anno.

«Certo. Cosa vuole che faccia?»

«Non so come dire a Christian che è malato.» Le si ruppe la voce in un singhiozzo. «Come possiamo dirgli che sta per morire?»

Non si era mai pronti per una cosa di questo genere, né come genitori né come figli.

Annuii. «Lo so, è dura.» La donna continuò a scuotere la testa. «Ma per prima cosa, come madre e padre, dovrete essere forti. La persona che ha davvero bisogno di saperlo è Christian. Perché così potrà vivere la sua vita senza problemi e così tutti noi. Deve sapere la verità. Non possiamo nasconderglielo.»

«Può aiutarci dottore, per favore? La supplico. Non possiamo dirgli una cosa del genere… ma lei- lei… potrebbe?»

Sapevo che richiesta mi stesse facendo e visto che avevano bisogno di supporto, accettai di farlo. Non potevo lasciarli in balia di quella situazione.



[...]

La donna gli baciò dolcemente le manine tirando su con il naso e trattenne le lacrime che minacciavano di straripare. «Tesoro... Christian. Ci hai chiesto perché tuo fratello è stato sottoposto al test.»

«Non sarà malato?»

«No, piccolo.» rispose il padre in piedi accanto al capezzale appoggiando la mano sulla spalla del figlioletto. «Non è malato, ma c'è una cosa che dobbiamo dirti.»

«Bene.»

«Abbiamo chiesto aiuto a questi medici per spiegartelo.» continuò l’uomo indicando me e Federica rimasti davanti alla finestra.

Il bambino ci osservò. «Sono quelli che aiutano tutti e hanno i superpoteri, giusto?»

Inclinai il capo da un lato rivolgendogli lo stesso sorriso.

«Sì, piccolo mio.» Tirò un’altra volta su con il naso e tentò di avere la voce ferma. «Ascoltami bene. Sei… sei molto malato.»

«Mamma, non piangere. Il dolore è sparito.»

«No, non proprio. È un po' più grave.»

Il bambino a quel punto guardò nella nostra direzione. «È come l'influenza dottoressa, posso contagiare pure Sara?» La bruna a stentò mugugnò un no.

«Nessuno può contagiarsi.» La donna iniziò a piangere e non riusciva a continuare. «Dottor Giovanni.»

«Christian.» Mi aveva lasciato il posto e posai le stampelle, sedendomi sul suo letto. «Christian, campione. Questa è una malattia diversa, è una che non hai mai avuto prima.»

«Mi darete medicine per il sangue?»

Schioccai la lingua sotto il palato. «No, non lo faremo.»

«Fantastico, non mi piace per niente quella cosa! Se vuoi, puoi misurarmi la febbre.»

«Tu non hai la febbre.»

«Sto meglio allora?»

Per qualche secondo, lo fissai senza dire niente. «No, campione. Mi dispiace. In questo caso, non migliorerai. La malattia di cui soffri non ha cura.»

«Come quando hanno detto al nonno ch'era malato?» Guardò i genitori e la madre lo confermò. «Ma lui è morto. Sto per morire anch’io?»

«Sì…» risposi dopo un po' di titubanza. «Ma tra molto tempo.»

«Tra un anno o più?»

«No, di più. Forse, cinque.»

«Menomale! Sono tantissimi!»

La sua reazione positiva scatenò altri piagnistei da parte della madre.

«Sì, sono abbastanza.»

«Dottore! Con questa malattia posso mangiare il gelato?»

«Oh, tutto il gelato che vuoi. Be’, tutti i gelati che tua madre ti permette di mangiare.»

Il bambino subito si voltò a guardarla. «Sì, posso mangiare il gelato. Posso, mamma!»
La madre cercò di sorridergli con calore, nonostante le lacrime sul volto e anche il padre acconsentì.
Era ingiusto che un bambino pieno di vita fosse costretto a sopportare un simile calvario.

[...]

Visto che il campione voleva mangiare il gelato, acquistai due coni e ci mettemmo su una panchina in giardino.
Avevo anch'io voglia di un gustoso gelato, a quell'ora.

«Penso che il gelato sia un miracolo, dottore!» disse il giovanotto mentre stavamo gustando i due coni. Cioccolato per me e nocciola per lui.

«Perché?»

«Ho sentito i miei genitori dire che mi serve un miracolo per guarire.»

Sorrisi per la sua perspicacia. Non sembrava avesse otto anni.

«E?»

«Mangiare il gelato mi fa stare meglio. Ecco perché penso che sia il miracolo di cui ho bisogno.»

Risi. «Ottimo.» Tirai fuori dalla tasca del camice un disco, che avevo inciso qualche mese, e glielo porsi. Era un pezzo a cui avevo lavorato per anni pur di farlo venire perfetto e raccontava di ragazzi che partivano verso paesi sconosciuti per costruire il loro brillante futuro. Era un brano che avevo intitolato: “Laggiù”. «Ti faccio un regalino. Qui dentro c’è tutta la mia arte incompresa — gli strizzai l'occhio complice e il ragazzino sorrise con la faccia sporca — quando mangerai il gelato e sentirai questa musica ti sentirai di nuovo meglio e penserai a questo momento. Poi se vuoi vedere un vero eroe, basta che ti guardi allo specchio.»

«Veramente? E perché lo da a me? Non ci è affezionato?»

«Sì, molto, ma è un regalo che sto donando ad una personcina speciale. Ho altre copie a casa, questa invece la terrai tu.»

«Davvero?! Pensa che sia un miracolo?»

Mi sporsi.«Di sicuro. E il più forte di tutti.» Sollevai il pugno e lui colpì le mie nocche con tutta la potenza riprendendo a mangiare prima che si sciogliesse del tutto.














Federica

Raggiunsi la donna in giardino, che stava guardando da lontano il moro e suo figlio che mangiavano il gelato. Mi guardò in apprensione quando notò che stringevo il referto nelle mani appartenente all'altro bimbo. Per fortuna, non tutto aveva un epilogo disastroso. I risultati erano negativi e non era portatore della malattia.
La donna si lanciò tra le mie braccia, come se le avessi ridato la pace dei sensi. Era grata di sapere che uno dei suoi figli era sano. Christian corse da noi e la donna mi lasciò, accovacciandosi alla sua altezza. «Sai mamma che il dottor Giovanni mi ha fatto un bellissimo regalo, perché dice che sono un miracolo

Ah, Giovanni… con le sue storie strampalate e poi cos’era la storia del regalo che gli aveva dato?

La donna confermò quella teoria bizzarra per poi accarezzargli le guance e lo strinse forte in un tenero abbraccio. «Saluta la dottoressa Federica.» Si rimise in piedi e il bambino sventolò la manina. Gli scompigliai i capelli. La donna mi ringraziò per l'ultima volta prima di andarsene.

«Cosa hai dato a Christian?» chiesi a Giovanni quando mi affiancò.

«È un segreto professionale.»

«Perché gli hai detto quella cosa?»

«Che è un miracolo?» Feci un cenno d'assenso e mi girai. «Perché lo è.» Tornai a guardare avanti a me. «Reagire con così tanta positività sapendo che stai per morire. Quale miracolo più grande potrebbe esserci? Molti adulti dovrebbero prendere esempio da lui. Lo vedi, Federica?» Mi voltai quando mi sentii presa in causa. «Ogni miracolo è diverso.» Risposi con un’alzata di spalle e nel mio campo visivo entrò la figura di Paolo Svevi in compagnia di una collega come un lampo che squarciava il cielo sereno.
Mi fece un cenno educato con la testa e a stento mossi la mia.
Poi sparì oltre la siepe.

«Non lavoro con i miracoli, ma con i fatti.» sentenziai con lo sguardo puntato in quella direzione.






[...]

«Vai a visitare con frequenza il signor Fabio. Voglio che tu mi faccia sapere se noti qualche peggioramento.» Alzai gli occhi per controllare il numero del piano, a braccia conserte. «Se migliora come previsto, lo dimetteremo tra una settimana.»

«Lo farò. Penserò io a tutto.» mi rassicurò il rossiccio.

A quel punto, abbassai il viso, e le porte si aprirono con un tintinnio ed entrammo.

Premetti il pulsante per far ripartire l'ascensore e il telefono squillò. Era la chiamata che aspettavo.

«Dica. Perfetto, vado subito in archivio. D'accordo.»

Se tutto andava secondo i piani, avrei trovato quel file oggi stesso, e soprattutto ad ogni costo.

«Cosa va a fare nell'archivio?»

Guardai Wax inarcando il sopracciglio. «Cerco una cosa. C’è qualcos’altro che vorresti sapere?»

Anche a lui successivamente squillò il telefono, ma riattaccò in faccia la chiamata. Mi riservò poi un sorriso beffardo. «Mi stanno aspettando. Sono desolato. Dovrà continuare da sola, purtroppo.»

«Che peccato. Non è carino da parte sua, signor Lucido.» Subito dopo le porte si spalancarono sul piano desiderato e uscii.

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