Capitolo 3.1 - Alla ricerca di un miracolo
Giovanni
Il corpo di un essere umano era stato creato per rispondere in modo tempestivo ad ogni situazione di pericolo, poiché entrava in gioco un ormone denominato "adrenalina".
Era scientificamente provato.
Quei lenti sospiri accompagnavano l'alzarsi e abbassarsi del suo sterno mentre i suoi occhi marroni erano focalizzati nei miei. Bramavo di avere quelle labbra premute sulle mie, ma non ero certo lo volesse anche lei.
Mentre il mio sguardo si soffermò in quel punto preciso e avvicinai il viso di più diminuendo le distanze, Federica girò il capo dall'altra parte, infrangendo il mio sogno.
Di sicuro, non sarebbe stata una facile impresa con quel carattere testardo che si ritrovava.
Mi issai con le braccia spostandomi dal suo corpo e poi allungai la mano per aiutarla. Quella lotta aveva consumato un bel po' di energie, i miei muscoli avevano implorato pietà e mi passai le mani tra i capelli corti. Sistemai la canotta bianca che mi si era attaccata al torace per il sudore e tirai un sospiro.
Ero veramente esausto...
«Finalmente, sono riuscito a spiegarmi.»
«A proposito, di cosa?» chiese.
«Non sono sposato.» Ribadii e roteò gli occhi senza dire alcunché, passandomi accanto. «Non te ne frega niente?»
Si girò con le mani sui fianchi. «Mia nonna aveva ragione. Nessuno ha voluto sposarti.»
«Be', ed è un male per te? Pensavo che saresti stata felice.»
«È per questo che sei tornato?»
Mi strappò una lieve risata e, a mia volta, la sorpassai. «Chissà.» Dipendeva dai punti di vista. Batté le palpebre e appoggiai il piede su una delle corde, ma il dolore si intensificò e contrassi i muscoli facciali. Provai a celare il fastidio, stringendo i denti, ma Federica non aveva smesso di scrutarmi con gli occhi ridotti in fessure. «Sto bene.» mentii. Stavolta fu lei a passare sotto le corde blu elettriche del ring.
«Non intendo accettare obiezioni. Verrai con me in un posto.»
«Dove?»
«Lo vedrai.» Senza aggiungere altro, discese la scaletta per andare a cambiarsi. Non avevo la più pallida di cosa dovessi aspettarmi, ma mi sollazzò molto la curiosità. La mia testa stava già viaggiando verso scenari romantici, degni delle migliori sceneggiature americane, ma la speranza svanì di colpo, quando mi condusse in ospedale e mi trascinò di peso in Radiologia. Eppure ero stato categorico, non c'era niente che non andasse, ma non aveva voluto sentire giustificazioni. Mi costrinse ad entrare in quella saletta e a prender posto sul lettino. Continuai a schiacciare un pulsantino e a muovere il capo su e giù, mentre Federica preparava tutto dall'altra stanza separata da questa tramite un vetro.
Sembrava divertita.
«So già cosa farò con te. Mi vendicherò, sappilo.»
«Non credo farai molto con quel piede...» replicò attraverso il microfono collegato.
Increspai un sorriso. «Ho già ribadito che non ho nulla. Sto benissimo.» L'infermiere intanto mi fece indossare delle cuffie protettive sulle orecchie. Federica mi salutò con la manina e ricambiai il gesto, poi mi misi sdraiato a mani giunte sull'addome, aspettando di sottopormi a quell'esame. Poi all'improvviso sollevai col busto, mettendo il broncio e le puntai l'indice contro. D'altronde era solo sua la colpa se mi trovavo richiuso fra quelle quattro pareti senza possibilità di fuggire.
La ragazza annuì con il mento sollevato e accennai con un gesto di procedere, rimettendomi sdraiato. Mi fecero scivolare nel tubo e dovetti stare fermo per qualche minuto prima di conoscere l'esito definitivo.
[...]
Era ciò che purtroppo mi aspettavo, ovvero una frattura, quindi mi avevano messo un tutore, che avrei dovuto portare fino alla completa guarigione. Non so cosa fosse peggio, che lei avesse avuto ragione o il fatto di somigliare ad un pinguino ad ogni passo che facevo. Era un'autentica tortura, ma soprattutto scendere quelle rampe di scale si stava rivelando un'impresa titanica. Provavo a non fare la figura del "ridicolo" mentre tenevo il passo con lei. Poi si voltò e, notando quanto fossi impacciato nell'utilizzo delle stampelle, chinò la testa per trattenere una risata.
«Che hai da ridere?»
«Hai ragione. Non è giusto ridere dei malati...» rispose riprendendo a scendere.
«Ti stai burlando di me!»
All'improvviso, il tacco slittò sul gradino facendole perdere l'equilibrio, ma riuscii ad acchiapparla evitandole una probabile caduta. La tenni ancorata con il braccio avvinghiato attorno all'addome e dovetti lasciare la presa sulla stampella, che volò giù. Per qualche istante restò paralizzata. Si era presa un bel spavento e così aveva perso le parole.
Iniziò a respirare prima velocemente e poi più piano, riprendendo il controllo.
«Che stai facendo?»
Che domanda scontata...
«Ti ho protetto con il piede rotto mentre mi prendevi in giro.»
Tornò in posizione eretta, terminando di scendere.
Mi sarebbe piaciuto ricevere un "grazie" ma non si poteva pretendere il mondo da Elsa, la regina dei ghiacci.
«Posso proteggermi da sola.»
«Non sempre possiamo. A volte abbiamo bisogno degli altri.»
«Non nel mio caso.» Obiettò.
«Smettila.»
«Non sono più una tua studentessa, ricordi?»
Sorrisi. «So che non lo sei più.» Mi guardò intensamente e mi sporsi per avvicinarmi al suo volto. «Ora sei un miracolo.»
Un'espressione perplessa le si palesò in faccia. A disagio, piegò la testa per terra e poi tornò a puntare gli occhi nei miei.
«Non credo nei miracoli, ho lavorato duramente per arrivare qui.»
«Da sola?»
Inspirò profondamente dal naso. «Sola.»
«Non ti ha aiutato Riccardo?»
Ridusse gli occhi. «Cosa stai insinuando con questo? Parla chiaro. Non mi piacciono le mezze frasi.»
«Ho sentito dire che ti ha sempre protetto in tutti questi anni, che ti ha sostenuto. Non è confortante sapere che qualcuno veglia su di te mentre percorri la strada del successo?»
«Non ho bisogno che nessuno combatta al mio posto. Mi ha aiutato all'inizio, sì, ma niente di più.»
«Bene.» La conversazione fu interrotta dall'arrivo della bionda. «Come va, Angelina?» La ragazza non mi degnò di un saluto e guardandomi in cagnesco tirò dritto per andare a servire un cliente. Riportai lo sguardo sorpreso su Federica. «Che l'è preso? Non capisco.»
«Aspetta...» bisbigliò spostandosi da me mentre l'amica le venne incontro.
«Baby! Pensavo fossi andata ad allenarti. Da dove viene... questo?» Puntò gli occhi sul sottoscritto guardandomi dall'alto in basso con un misto di rabbia e di disprezzo.
«Questo?»
«Oh, mi scusi, dottor Giovanni.» Poi si rivolse alla bruna. «Scusa, non posso stare zitta.»
«Nina, aspetta...»
«Aspetta tu!» Lo sguardo della più piccola si trasferì automaticamente su di me. Sembrava pronta a farmi una ramanzina in nome dell'amicizia che la legava alla brunetta. «Senta, dottor Giovanni, gli uomini sposati non sono affatto nello stile di Federica, ok?» La diretta interessata cercò invano di interromperla. «Quindi, mantenga le distanze. Stia lontano, altrimenti dovrà vedersela con me.»
«Nina, sta' zitta, aspetta...» borbottò poi a voce bassa.
«Vede? La mia amica sta per morire di imbarazzo per colpa sua! Fuori, fuori di qui. È da anni che la sta aspettando e non se lo merita!» Un ghigno indugiò sulle mie labbra. «Non è giusto che le faccia questo! È una vergogna!»
«Non è sposato, Nina. Non è sposato!» Quell'affermazione fece ammutolire la ragazza, che arricciò la fronte.
«Ah. Come?»
«Non lo è.» confermò.
«È divorziato?» Feci un cenno di dissenso, schioccando la lingua. «H- Ha figli?» I nostri cellulari squillarono in quel momento. Lo prendemmo e rispondemmo all'unisono. Gianmarco dall'altra parte della linea mi parlò di un emergenza e che se non fossi andato sarebbe andato tutto a rotoli, così riattaccai e lo stesso fece Federica. La nostra piccola ora di svago era durata come un gatto in tangenziale. A quel punto, la bruna m'indicò la direzione, avviandosi verso l'uscita secondaria e salutai la biondina rimasta impalata. «Non lo meritava, eh.» aggiunsi salutandola con un cenno della mano e seguii la sua amica.
[...]
Arrivammo in ospedale nel minor tempo, ma la situazione che ci trovammo dinanzi quando varcammo il pronto soccorso era confusionaria. Due donne sulla sedia a rotelle stavano bisticciando, tirandosi i capelli a vicenda, per un motivo a noi ignoto... e un altro uomo si soffiava il naso in continuazione e imprecava. Il dottore di turno Daliana ci venne incontro con i nervi a fior di pelle, sul punto di esplodere come un vulcano.
«Signorina Andreani, finalmente! Finalmente!»
«Che succede?»
«Puoi occuparti dei pazienti senza fare domande stupide?»
La ragazza ispezionò il luogo prima di guardarlo un'altra volta. «Quale paziente?»
«Quello a cui cola il naso!»
Senza obiettare si diresse dal paziente e mi lasciò in compagnia del tizio alto come un lampione. Notando il tutore alla gamba mi augurò di guarire al più presto prima di correre a sedare la rissa delle due.
Gianmarco entrò come una saetta in reparto. «Dottore! Eccola qui... Oh, ma cos'è?» fece segno al tutore bloccandosi.
«Lascia perdere. Dimmi. Perché mi hai chiamato?»
«È la paziente dell'aereoporto. La situazione sembrava stabile, ma adesso è peggiorata.»
«Le avete fatto una Tac?»
«Sì. Proprio ora.»
«Ottimo.» Improvvisamente delle grida femminili e le richieste accorate di aiuto movimentarono la situazione che già era allo sbando stanotte. Voltandomi, notai un uomo che stava portando in un braccio una donna incinta. Urlai all'équipe di portare la barella e Tommaso tolse la ragazza dalle braccia dell'uomo. Doveva aver camminato parecchio per raggiungere l'ospedale.
Ci spiegò che avevano tamponato un'ambulanza e che la loro macchina si era rotta nel tragitto, così aveva deciso di caricare la figlia e portarla fin qui a piedi.
Lo rassicurai che sarebbe andato tutto bene mentre Tommaso tastava il pancione della donna, che ancora si lamentava fortemente per il dolore. Bisognava controllare il bambino e che non ci fosse un'emorragia. Chiedemmo il consulto del ginecologo e, nel frattempo, ci occupammo dei controlli di routine, effettuando l'ecografia. L'infermiera mi chiamò avvisandomi che purtroppo il ginecologo era impegnato in un caso urgente e non poteva venire di sotto. La ragazza che avevo scoperto chiamarsi Chiara parve calmarsi un po'.
«Come sta il bambino, dottore?»
«Il sedativo ha fatto effetto.» Rivolsi lo sguardo all'immagine del monitor. «La frequenza cardiaca è tornata normale.»
«Anche i valori sono normali. Non c'è emoraggia interna.» aggiunse Tommaso leggendo i risultati delle analisi.
«Facciamo la Tac.»
«Dottore, mia figlia sta bene, vero?» chiese l'uomo spaventato tenendole la mano.
«Sì, sembra stare bene. Per il momento non ci sono problemi. Preparate la paziente per la Tac, ragazzi.» Tolsi i guanti sporchi e l'uomo tirò un sospiro. «Può accompagnarci, se vuole.»
«Le sono grato, dottore. Dio la benedica.» mi ringraziò senza staccarsi dalla figlia.
Anch'io decisi di andare con loro per controllare Valeria.
Durante il tragitto verso Radiologia, Tommaso mi fece notare che non aveva bisogno della mia presenza e riusciva a cavarsela. Lo rassicurai che ero lì per una mia paziente.
Mentre stavamo camminando, vidi affisso al muro un enorme cartellone con sopra stampata la mia faccia e mi bloccai.
Alla vista di quell'obbrobrio - perché senza dubbio, era imbarazzante - storsi il naso.
«Che roba è?»
«I vantaggi di possedere l'ospedale. Guadagni molta fama con questa pubblicità.»
Ma non l'avevo chiesto. Di chi era stata la brillante idea di affiggere questi poster? Era solo una perdita di tempo, di denaro e non serviva a niente...
«Papà, perché ti sei abbassato a fare una cosa del genere? Non ho bisogno di questa pubblicità.» parlai tra me e me, scuotendo più volte il capo. Perché poi non chiedermi una miseria opinione e agire alle mie spalle? Questa cosa mi faceva andare in bestia.
Poco dopo aver finito i controlli su Chiara e aver appurato che sia lei che la nascitura fossero fuori pericolo, uscii nel corridoio dove c'era il padre ad aspettarci.
«Dottore, come stanno mia figlia e mio nipote?»
Sorrisi. «Stanno bene. Non c'è niente di cui preoccuparsi ora.»
«Grazie mille, dottore! Non sa quanto sono sollevato. L'ho dovuta crescere da solo, senza sua madre. È l'unica cosa che mi resta. Ecco perché avevo così paura. Perdoni la mia insistenza.»
«Non deve scusarsi. Lo capisco. È normale che un padre si preoccupi per il proprio figlio.»
«E per mia nipote. Suo padre si è arruolato come soldato, combatte nel Sud Est. Sono anche molto preoccupato per lui, dottore.»
«Capisco. È normale, ma non dev'essere in pena. Siamo qui apposta per aiutarvi.» L'uomo a stento si stava reggendo in piedi e aveva una faccia smunta. «A proposito, lei si è fatto visitare? Non ha una bella cera.»
«No, no dottore. Sto abbastanza bene. E poi non mi succederà nulla finché non avrò visto la mia nipotina.» Appoggiai la mano sulla spalla dell'anziano e spostò l'attenzione dal sottoscritto quando portarono la figlia fuori dalla stanza. Si fiondò da lei, prostrandosi ai suoi piedi e l'abbracciò. Pianse lacrime di gioia. Lei lo rassicurò che era tutto apposto e osservai la scena intenerito, dovevano essere molto legati. Quando guardai Tommaso vidi onnipresente la sua espressione schifata, con le braccia conserte. Mai una volta che provasse empatia.
Federica
Al paziente gocciolava insistentemente il naso, e visto che c'era il rischio di un caso Covid19 — come ne avevo visto tanti negli ultimi due anni, mi preparai per fare un tampone.
«Ha mai sentito parlare di malanni stagionali? È solo raffreddore. Perché deve fare questi controlli? E inoltre non mi farò mettere quella cosa nel naso!» Brontolò il giovane facendosi indietro.
«Devo prelevare un campione del liquido altrimenti non potrò identificare il virus e stabilire una diagnosi.»
«Non mi frega niente del virus!» Guardò oltre le mie spalle. «Mi prenda un fazzoletto da là.»
Non volevo dargli un ceffone, ma stava mettendo alla prova la mia pazienza. «Signore... dimentichi il fazzoletto. Se non prelevo il campione, non potrò stabilire la causa e fermare il flusso.»
«Infermiera, sto parlando al muro? Voglio un po' di carta, non le ho chiesto tanto?! Oddio!»
«Ancora con questa storia! Oddio lo dico io!» sbottai. «Se spera di risolverlo con della carta, che ci è venuto a fare in ospedale?» Mi fissò inebetito e la sua faccia diventò più cianotica di quanto già non fosse. «E non sono un'infermiera, sono un medico. Ora, mi faccia prendere il campione, poi la manderò a fare la tac, altrimenti può anche alzarsi e andare a comprarsi i fazzoletti al supermercato.» Il tizio intimorito non spiccicò una parola. «Capito?» Non gli restò che annuire come un automa. «Allora, si prepari.» Inserii il bastoncino in una narice, prelevando un po' di liquido.
La voce del rosso mi giunse da dietro. «Dottoressa! Può venire. Abbiamo bisogno di lei.»
Mi voltai. «Che succede?»
«È arrivato un bambino al pronto soccorso. Ha sette anni ed è caduto.» Consegnai a Wax il campione chiedendogli che venisse portato in laboratorio per analizzarlo per poi abbandonare il pronto soccorso, senza avere un attimo di tregua.
[...]
Alzai la palpebra del ragazzino, puntando nell'occhio la luce della torcia.
«I suoi occhi assomigliano a quelli di Sara.»
«E sono belli gli occhi di Sara?» domandai continuando la visita.
«Ha gli occhi più belli di quelli della terza elementare. Sono gli occhi più belli che abbia mai visto!»
Il signorino sapeva il fatto suo, non avrebbe avuto difficoltà a fare strage di cuore da grande. Posai la penna in tasca e mi risollevai. «Grazie per il prezioso complimento, signorino.» Fissai i genitori nella stanza. «Eravate con lui quando è successo?»
«Sì, eravamo a casa dei nostri vicini. Stava giocando col fratello ed è inciampato.» spiegò il padre.
Un bimbetto si fece avanti, mortificato. «Anch'io ero lì...» Sorrisi per il suo intervento e il padre lo tirò per il braccio riportandolo accanto a sé.
«È molto goffo, dottoressa. Non smette di cadere. Ho paura che gli accada qualcosa di brutto.»
«Non sembra essere niente di grave.» Guardai Mattia. «Ma faremo gli esami necessari.» Poi mi curvai verso il bambino. «Vedi questo ragazzo - glielo indicai con il dito - ti farà una foto alla testa, ok? In questo modo avrai qualcosa per impressionare Sara quando torni a scuola.»
«Grande! È fantastico!»
Sorrisi alla madre un'ultima volta e dopo averli salutati augurandogli una pronta guarigione, mi recai fuori dall'ambulatorio.
[...]
«Dottoressa! Dottoressa Andreani!» Ero ferma al banco delle accettazioni per dare un'occhiata alle cartelle cliniche quando qualcuno mi chiamò e voltandomi mi trovai dinanzi proprio Mattia con il tablet in mano. «I risultati della secrezione nasale.»
Me lo porse e osservai l'immagine. C'era qualcosa che catalizzò la mia attenzione. No, non era quello che pensavamo. Non era semplice muco.
Sollevai di colpo la testa. «E il paziente?»
«In pronto soccorso.»
Gli restituii il tablet e accelerai subito il passo. In men che non si dica arrivai al pronto soccorso e tirai via la tenda che separava un lettino da un altro, scoprendo che era vuoto e non c'era traccia del paziente.
«Dov'è?» Mattia scrollò le spalle. «Dov'è andato?» Chiesi a un'altra infermiera. Magari avrebbe saputo darmi più informazioni.
«Se n'è andato. Gli abbiamo chiesto di rimanere finché non avremmo ricevuto i risultati, ma era abbastanza alterato.»
Alzai il braccio a mezz'aria interrompendo ogni giustificazione. «Andate a cercare nei registri il numero e ditegli di venire immediatamente in ospedale. Chiamatelo al cellulare! Forza!»
I due obbedirono.
Nel frattempo un uomo fece irruzione dentro. «Aiuto! Un medico! C'è un dottore? Un uomo è svenuto davanti al mio negozio. È rigido e non sono riuscito a spostarlo. Sembra stare molto male! È giù in strada. Vi prego.» Feci cenno a Mattia di accompagnarmi e l'uomo ci scortò poco distante. Molta gente si era già radunata attorno ad un corpo esanime e l'uomo gridò di farci passare. Ci aprirono la strada e mi inginocchiai davanti alla testa del giovane. Poi mi piegai verso la bocca con l'orecchio teso. «Non respira...» Tirai fuori la torcia per puntarla negli occhi. «Nessun riflesso pupillare. Ho bisogno di una cassetta intraventricolare. Va' intubato. Svelto, corri!» incalzai Mattia che si rialzò di corsa. «Porta il trapano!»
«Cosa? Il trapano?» Si immobilizzò all'istante.
«Ti ho detto di correre! Dai!»
Il giovane annuì e scappò in direzione dell'ospedale per prendere gli strumenti. Purtroppo non era possibile spostarlo. L'uomo mi spiegò che gli aveva chiesto un panino, ma prima che glielo desse era crollato. Pregai mentalmente che Mattia facesse in fretta. Non avevamo molto tempo e la vita del paziente era appesa ad un filo. Dopo poco, vidi quest'ultimo arrivare con il materiale e una cassetta bianca. Gli feci appoggiare tutto sul marciapiede e iniziai a stendere il telo blu.
«Federica, che stai facendo?» domandò il nuovo arrivato Daliana.
«Il paziente non respira e il polso sta diminuendo.»
«E perché sprechi il tuo tempo qui?» Ignorai bellamente le sue parole e chiesi alla gente di aiutarmi a spostarlo. Una volta posizionata la testa sul telo, arrivava la parte complicata. «Federica.» mi infastidí. «Federica, ma che cerchi di fare?»
«L'ho visto nella Tac. L'aria si è accumulata nel cervello.» Allargai la mascella per inserire la lama del laringoscopio. «Quello che sta uscendo è fluido spinale.»
«Come?»
«Dev'essere caduto qualche giorno fa. Non si tratta di sinusite, ma frattura del cranio!» affermai, collegando infine l'ambu.
«Va bene, portiamolo dentro e prepariamoci ad intervenire.»
«Devo perforare il cranio e abbassare la pressione.» dichiarai indossando i guanti.
«Sei pazza!? Guardati attorno. Non puoi farlo qui.» tuonò, ma non mi avrebbe fatto cambiare idea. Non avevo altra scelta se volevo salvarlo, dovevo rischiare.
«Non c'è tempo per lui di entrare.»
«Sei pazza. Non te lo permetterò. Se fai una cosa simile e ti va male, chi ne risponderà?»
Avvicinai il volto a quello di Tommaso, osteggiando i suoi occhi. «Questo è il mio paziente.»
«Non te lo lascerò fare. L'ultima volta ti è andata bene.» Chiesi alle persone di darmi spazio e Mattia li fece indieteggiare mentre puntavo il bisturi in un punto preciso del capo. «Federica!» Ruggì Daliana e alzai appena lo sguardo.
«Dammi il trapano.» mi rivolsi all'assistente.
«Mattia, non t'azzardare!» lo minacciò velatamente.
«Il paziente sta per morire.»
Non era una competizione, era in gioco la vita di una persona e Mattia pur intimorito dalle occhiate di fuoco del suo superiore decise di assecondarmi e me lo passò. Toccava a me non commettere passi falsi.
«Federica, non farlo.» insistè Daliana.
L'avevo studiato nei libri, ma era la prima volta che lo potevo mettere in pratica con qualcuno. Tracciai una linea invisibile con il dito che partiva dalla fronte fino al punto centrale della testa, calcolando mentalmente la posizione. Una volta individuata, azionai il trapano e lo feci sprofondare fino a raggiungere più o meno metà... poi lo tirai fuori e si riversò fuori uno zampillo di sangue. Strappai la carta del cerotto con i denti e glielo applicai sulla ferita. Dopodiché, passai a controllare le pupille e il battito cardiaco.
Un silenzio religioso mi circondava e dopo qualche secondo potei tirare un sospiro.
«Il polso sta aumentando. Ce l'abbiamo fatta.» Annunciai e la gente applaudì. Ma in quel momento dei complimenti che volavano da una bocca all'altra mi interessava poco. «Chiama la squadra di trasporto! Subito!» Mattia non se lo fece ripetere e si defilò. Intanto Daliana se ne stava lì a osservarmi con sguardo imbambolato e da pesce lesso. «Non stare lì a guardare! Aiutami, no?» Si riprese dalla trance e resse l'ambu, stavolta lanciandomi sguardi fugaci.
[...]
Lo raggiunsi vicino ai lavandini del blocco operatorio mentre stava terminando di sciacquare braccia e mani. Si voltò vedendomi arrivare.
«Non ti avevo detto di prepararti? Non hai sentito?»
«Sì, ti ho sentito. Ma non entrerò. Qualcun altro ti assisterà.»
«Chi?» A quel punto Maddalena sopraggiunse e fu una risposta più che palese. «Che fai tu qui?»
«L'ho chiamata io.» la anticipai. «Il dottor Daliana ha bisogno di aiuto.»
«Davvero? Non sei tu ad organizzare le squadre, Andreani. Tu verrai con me in sala operatoria.»
«Mi dispiace. Non contare su di me. Avevi bisogno di una brava assistente ed eccola qui.» Indicai Maddalena.
«Ah, non posso crederci! La signorina mi sta usando per fare il lavoro sporco al posto suo! Ma chi diamine ti credi di essere?»
«Madda, non ti intromettere.» la interruppe lui per poi rivolgersi a me. «Pagherai le conseguenze della tua decisione.» Alzò le mani in alto e lanciò via la carta con cui si era asciugato alle mie spalle. «Non opererò.» Girò le spalle, pronto ad andarsene.
«Che significa? Ti sei offeso?»
Tornò a voltarsi e venne verso di me sovrastandomi con la sua altezza. «Sei stata tu a bucargli la testa in mezzo alla strada. Quindi, va' e finisci.»
«Non avevo scelta. Stavamo per perderlo.»
«Per me va più bene. Finisci quello che hai iniziato, visto che ti consideri uguale a me. Operalo tu.»
Mi stava palesamente sfidando.
«D'accordo, lo farò.» Non avevo paura di niente e nemmeno della sua minaccia. «Allora accetterai che siamo tutti sullo stesso livello qui.»
«Se l'operazione andasse bene.» Fece un ghigno perfido. «Caso contrario, dovrai lasciare per sempre l'ospedale e non tornare mai più.»
«Affare fatto. Lo faccio. Accetto.»
Non intendevo tirarmi indietro, avrei affrontato e vinto la battaglia. A quel punto, conscio di avermi lanciato una sfida che credeva impossibile, se ne andò.
Giovanni
Rigirando la penna tra indice e pollice, seduto alla mia scrivania, stavo controllando dei documenti e, in quel preciso istante, bussò qualcuno.
«Avanti.»
La figura di Maddalena fece capolino dalla porta. «Dottore, ha un minuto?»
«Certo, vieni pure.»
La ragazza mi raggiunse e alzai gli occhi guardandola.
«Devo parlarti di una cosa importante.» Mi mostrò una radiografia.
Brutto caso. In una parola: complesso.
«Che vuoi sapere?»
«Sarebbe un caso difficile per un chirurgo alle prime armi?»
«Complesso. Non credo sarebbe in grado di gestirlo. Chi dovrà eseguire l'intervento? Riccardo oppure Tommaso?»
Sospirò. «Nessuno di loro. Lo farà Federica.»
La notizia mi fece rimanere immobile e totalmente allibito.
Federica? Che cosa?
«Che cosa?» Alzai il tono della voce. «E chi l'ha approvato?»
Alla fine, mi raccontò che l'idea malsana era partita da Tommaso Daliana. Mi catapultai fuori dall'ufficio e lo incrociai, mentre stava uscendo da una camera. «Tommaso.» Si bloccò alla mia vista e lo raggiunsi. «Federica è nella mia squadra. Non può operare senza il mio permesso.»
«Entrerà nella tua squadra la prossima settimana, quindi non ha alcun bisogno del tuo consenso. Inoltre lei è un chirurgo esattamente come te.»
«Ho studiato questo caso. È un caso complesso per un chirurgo alle prime armi.»
«Si è offerta lei.»
«Non lo consentirò. Entrerò io nell'intervento.»
«Anche se sei il figlio del proprietario dell'ospedale, questo non ti dà il diritto di fare quello che vuoi. Non ti do il permesso di operare il mio paziente, Rinaldi.»
«Il tuo paziente?» Ghignai. «Ora è il paziente di Federica, no?»
Dunque la sua opinione non contava ai fini dell'intervento e rivolgendogli un sorriso beffardo presi la direzione opposta.
[...]
Sapevo che non sarebbe stato facile, ma dovevo almeno provare e così mi presentai ai lavandini affiancandomi alla brunetta. Appoggiai le stampelle al muro e aprii il rubinetto facendo scorrere l'acqua.
«Non ti do il permesso di operare da sola.» Ruotò il collo verso di me. «Quest'operazione è molto più complessa di quanto pensi.»
«Non puoi proibirmelo.»
«Cosa ti rende così sicura?»
«Mi fido di me stessa.»
«Questo è positivo. Ma lo stai facendo per Tommaso.» Inarcò il sopracciglio. Sapevo quale fosse il motivo di tutta quella temerarietà e non volevo che si rovinasse la carriera. «E non te lo permetterò. Entrerò con te.»
«Per favore, stanne fuori.»
«Federica!» la ammonii.
«Stai tranquillo, combatto per le battaglie che so di poter vincere.» mi liquidò per poi varcare le porte scorrevoli.
Mai una volta che avesse imparato ad ascoltare i consigli di qualcuno, invece di ritrovarsi nei casini fino al collo. Quella ragazza continuava ad essere una mina vagante...
Stavolta avremmo combattuto insieme, non gliel'avrei data vinta, perché si sapeva, l'unione faceva la forza e in due i problemi erano più semplici da affrontare. Entrai, fregandomene del suo categorico divieto.
Feci abbastanza rumore a causa della mia difficoltà a deambulare con il tutore e mi avvicinai all'assistente, dicendogli di spostarsi perché volevo prendere il suo posto. Federica non poté rifiutare, era già nel pieno dell'intervento. Mi lasciò fare, non avrebbe potuto cacciarmi.
«Puliamo...» Le passai la pinza. «Disertore.» Mi ringraziò flebile e continuò a svolgere l'intervento. Osservai dalla telecamera il suo operato nella cavità cranica, un lavoro impeccabile, degno di un chirurgo esperto. Sembrava procedere bene e ci lavorava con una rapidità impressionante. «Pinze.»
Improvvisamente però un trillo incessante invase l'intera sala.
«È lacerato.» Anche Federica girò lo sguardo verso lo schermo. «Lascia fare a me.»
«No, posso farlo.» rifiutò riportando gli occhi sugli oculari. Non avrebbe gettato la spugna con facilità, la conoscevo bene.
«Lascia che si occupi Giovanni del resto!» Gracchiò Tommaso dall'osservatorio posto al piano di sopra.
«Federica.» Tenni lo sguardo su di lei cercando di capire quale intenzione le rivoltasse nel cervello. Capii che non voleva cedermi il posto, quando chiese un morsetto.
«Pressione arteriosa in diminuzione! Collegate la sacca di sangue!» ordinai.
«Federica! Vuoi uccidere il paziente? Giovanni intervieni!» bofonchiò Tommaso dall'altoparlante diventato come una mosca fastidiosa.
Non gli diedi retta.
«Concentrati.» spronai la ragazza che continuò a lavorare imperterrito. Dopo un po', il trillo cessò e riportò la calma nella sala operatoria e nella squadra. Federica ce l'aveva fatta, aveva passato la fase critica e ora non le restava che suturare.
«Vuoi chiudere tu?»
Le sorrisi nonostante la mascherina che mi copriva la bocca. «È tuo l'intervento. Chiudi tu.» Si accomodò così sullo sgabello e terminò di applicare i punti.
Federica
Quando varcai l'uscita della sala operatoria dopo l'intervento, ad aspettarmi trovai Daliana nel corridoio. "Oh, no, lui". Roteai gli occhi e decisa a non litigare di nuovo, provai ad allontanarmi.
«Federica.» Mi bloccai, aspettando che mi raggiungesse e si posizionò di fronte. «Ti chiedo scusa.»
Mi lasciò stupita.
Non me lo sarei aspettata da un uomo tutto d'un pezzo come lui.
«Troppo facile.» risposi schietta.
«Aspetta, aspetta, aspetta!» fui costretta ad aspettarlo e anche stavolta mi fronteggiò. «Che intendi?»
«Ti sei arreso troppo in fretta.»
«Non sono abituato a scusarmi.»
«Okay, ma combatti un po', altrimenti sarà tutto noioso.»
«Intendo combattere. Se mi sono scusato... è per rispetto di un buon medico.» Chinò la testa per accennare un inchino. «Aspetterò con ansia i nostri prossimi incontri. Non è facile trovare un buon avversario.»
«Sei particolare... ma mi piacciono le persone così. Mi ricordi molto mia nonna.» Loro si sarebbero capiti. «Sei trasparente e non abbiamo bisogno di tante parole per capirci.»
Increspò un sorriso. «Devo prenderlo per un complimento?»
«Credo tu l'abbia già fatto. A quanto pare, ti è piaciuto. È la prima volta che sorridi.»
«Federica.» La sua voce mi arrivò da dietro. «Dimmi una cosa.» Si avvicinò. «Il dottor Giovanni — stetti lì ad ascoltare e annuii. «Preferiva più... te?»
«Di chi?»
«Di Maddalena.»
Roteai gli occhi a quell'argomento. In questo posto si pensava troppo al gossip e poco al lavoro.
«Senti, non so cosa ti sia stato detto ma ciò che conta è quello che è successo, non le voci.» Feci una breve per sospirare. «Il dottor Giovanni era un bravo insegnante. Si occupava di studenti ribelli e con una condotta pessima. Io ero una di quelli. Ho sempre esasperato tutti e mi piaceva fare a botte con chiunque, ecco perché mi hanno espulso dalla scuola molte volte.» Diressi il pugno chiuso verso la sua faccia imitando la mia mossa e il giovane indietreggio mettendo le mani in avanti. Sgranai le iridi. «Ti ho spaventato!»
«No, perché avresti dovuto spaventarmi? Tutti hanno un passato. E inoltre — si mise in posizione di difesa con i pugni stretti all'altezza del viso — Nemmeno io ero uno studente modello a scuola.»
«Sì, sì, sono sicura che eri un ragazzaccio!» lo punzecchiai prima di andare con un sorriso divertito stampato sulle labbra.
In fondo, non era antipatico.
[...]
Una volta cambiati i vestiti, bisognosa di prendere aria, passeggiai per il giardino.
Il sentiero alberato era costeggiato da molte panchine e su una di queste, il piccolo moro se ne stava seduto a riposare esponendosi al sole di fine agosto. Mi avvicinai silenziosamente e osservai i suoi tratti distesi e tranquilli. Poi alzai gli occhi al cielo, anch'esso limpido, e sollevai in alto la mano per fargli ombra.
Un piccolo sorriso gli spuntò sulle labbra e la tolsi immediatamente, mentre riapriva gli occhi.
«Ti ho portato il caffè.»
«Grazie. È stata una notte estenuante. Non ho trovato il tempo nemmeno per l'acqua.»
«Sì, l'ho pensato. Questo è per te.» Tirai fuori una bottiglietta d'acqua naturale, che appoggiai sulla panchina assieme ai due bicchieri colmi. Il servizio era offerto dal bar, ovviamente. «Ecco qui... Come va il piede?» cambiai discorso.
«Il mio piede? Molto bene. Fai la carina e gentile con me perché ti ho aiutato con la tua operazione, no?»
«Non c'è modo di ringraziarti per quello.» Alzai lo sguardo. «Ma grazie per aver creduto che ce l'avrei fatta.»
Giovanni mi osservò in silenzio mentre gli versavo l'acqua.
«Federica.» richiamò la mia attenzione e si sistemò sulla panchina con il gomito poggiato sul bordo e le gambe accavallate. «Continuerai ad essere così?»
Mossi la testa. «Così? Come?»
«Ambiziosa. Direi un po' troppo.»
«Che c'è di sbagliato?»
«Sei una donna di successo ora. Invece di cercare di andare sempre più lontano, perché non ti fermi e ti godi il momento?» Si guardò attorno. «Per esempio, perché sei ancora in ospedale? Per l'acqua e il caffè?» Abbassai la testa. Avevo scelto di concentrarmi sul lavoro col risultato che i tempi da dedicare a me erano rari, con dispiacere della mia amica Angelina. «Quanto dormi a settimana?»
«Quattordici.» Il ragazzo sgranò le iridi e spalancò la bocca. «Quattordici ore di sonno mi bastano. Se dormissi quanto tutti gli altri, non sarei dove sono adesso.»
«E sei felice?» proseguì.
Ci pensai un po' su. «Non ho motivo di non esserlo.»
«Questa non è una risposta.»
Chinai di nuovo la testa. A volte non mi ponevo certi interrogativi se non ero sicura di avere la risposta a portata di mano. E parlare di futuro mi spaventava un po'. Tutte le mie fragilità o insicurezze rischiavano di venir fuori con quell'argomento.
«Il desiderio di mia nonna era che diventassi un medico... averlo raggiunto mi rende felice.»
«Sai quanto mi dispiace per quanto successo... Non ho potuto aiutarti, ma ora sono qui e ti darò tutto il mio supporto.»
«Non c'è bisogno. Non sono più la studentessa che ero.» Riabbassai lo sguardo giocando coi bicchieri.
«Pensi che mi avvicini a te perché ero il tuo professore?» Accennò un risolino sotto i baffi. «Se pensi questo di me, sei molto lontana dalla realtà!» Girò la faccia dalla parte opposta continuando a sogghignare. Lo fissai perplessa. «Non sono più il tuo professore. Mi avvicino a te come un uomo. Non sei in grado di vederlo?» Sbattei le ciglia più volte, vittima di una paresi. «Non sai quanto rimpiango quel giorno, l'ultima volta che ti ho visto...» Si bloccò. Mi ritornò in mente quella scena, quando a malincuore gli avevo detto addio e avevo ripreso a camminare senza voltarmi indietro. Quella lacrima che mi aveva rigato il volto e che avevo spazzato via per non far prevalere il sentimento sulla ragione. Enne mi aveva fermato e poi fatto salire sulla sua moto. Così era andata. Non ci saremmo dovuti rivedere di più, o almeno era quello il piano. «Lasciarti andare via così è stato l'errore più grande che ho fatto in tutta la mia vita.»
La mia mano si abbassò e finì per colpire il bicchiere facendo rovesciare l'acqua sulla panchina.
«Mi dispiace...» biascicai.
Giovanni scoppiò in un'altra risata divertita, probabilmente per la mia sbadataggine.
«Tranquilla, sto benone.» Si scrollò il pantalone e presi il tovagliolo per asciugare in fretta. «Me la stai facendo pagare per averti lasciato andare, vero?»
«No.»
Mi afferrò la mano e la strinse fra le sue, guardandomi intensamente negli occhi.
«Vuoi uscire con me?»
«No!» quasi gridai, sottraendomi al suo tocco come se mi fossi scottata.
«Dici sempre di no a tutto?» Mormorai "no". «L’hai fatta diventare una cattiva abitudine?»
«No…» ripetei come in un loop. Abbassai gli occhi imbarazzata mentre il piccoletto rise.
Che odio.
«No, naturalmente. Bene, continuerò a insistere. Magari sarò più fortunato la prossima volta.» Riprese le stampelle e tornò in piedi. «Ogni volta che io e te iniziamo a parlare di un argomento serio, so per certo che qualcosa accadrà.» Inclinò la testa. «Non so di chi sia la colpa...» Dopodiché iniziò a muovere qualche passo, ma si fermò di botto. «Ti chiederò di uscire di nuovo.» Deglutii un fiotto di saliva guardandolo a mia volta. «Voglio che in questa occasione la tua risposta sia sì.»
Poi se ne andò, lasciandomi immobile seduta sulla panchina.
“Ma perché finivo per fare brutte figure davanti a Giovanni Rinaldi?” Sbuffai e incastrai i fazzoletti zuppi nel bicchiere.
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