Capitolo 24.2 - Questione di vita o di morte

Giovanni


Quando spalancai gli occhi, ancora intontito, mi ritrovai davanti il volto rassicurante di un'infermiera che mi appoggiò la mano sulla spalla e mi consigliò di tornare a riposare e che il motivo dello svenimento era perché ormai ero a digiuno da un paio di giorni. Inconsciamente richiusi gli occhi ancora, non riuscii a tenerli aperti. Biascicai qualche frase e piombai in un sonno tranquillo, data la stanchezza che mi attanagliava.

Quando ripresi i sensi, guardai la stanza e di fianco a me c'era un altro paziente che riposava. Un ricordo riemerse con prepotenza e allora mi misi seduto. Vidi passare un'infermiera nel corridoio e la chiamai. La donna si bloccò ed entrò in camera. «Ho portato qui un paziente e l'hanno portato in sala operatoria, come sta andando? Come va?» Rispose che avevano contattato il neurochirurgo e che era tutto sotto controllo, mi avrebbe informato più tardi. Ma io non potevo aspettare e così scostai il lenzuolo, staccai la flebo attaccata al braccio e mi alzai, correndo immediatamente fuori. Quando irruppi in sala operatoria munito di camice verde e cuffietta, attirai su di me lo sguardo omicida della dottoressa testarda.

«Ma come osa? Ma lei è matto! Che vuo fa?!» mi rimproverò.

«Si calmi. Sto cercando di rimediare al suo errore.»

«Non può intrufolarsi qui come se niente fosse! Ma chi si crede di essere?»

«Mi ascolti: se c'è di mezzo la vita di un paziente, posso andare dove, quando e come voglio.»

«Questo è il mio intervento. Abbiamo già avvisato il nostro neurochirurgo, sarà qui a momenti. Dov'è Sebastian?» Poi si rivolse all'infermiera.

«Gli ci vuole un'ora per arrivare»

Un'ora? Era troppo. Rischiavamo di perderlo e non era nei miei piani. «Senta, io sono un neurochirurgo, metta da parte il suo orgoglio e mi lasci aiutare. Per favore. Se mi avesse ascoltato, non avremmo perso tempo.»

«Ha visto anche lei che ha un'emorragia allo stomaco.» mi fece notare, piccata.

«E sta perdendo tempo a discutere!» La mia uscita stizzita la portò a tacere e fare un passo indietro, finalmente. Allungai la mano per farmi dare il bisturi dall'assistente e di preparare l'occorrente per effettuare la craniotomia.

«Dottoressa Ciancio, lo lasci fare altrimenti perderemo il paziente» intervenne un altro e la donna comprendendo di non avere altra scelta se non quella di collaborare, si limitò ad annuire.

I continui fischi irregolari del macchinario riempivano l'aria carica di tensione e man mano che operavo tenevo sotto controllo i parametri vitali.

«Esce sangue dal tubo tracheale, servono due unità.» Annunciò la donna.

«Non c'è più sangue, dottoressa.»

«Cosa?! Che significa questo?!» Mi alterai e guardai l'infermiera che abbassò di colpo la testa. «Ci servono due unità. Le trovi ora. Forza.» Sfilai dall'altro lato del tavolo operatorio, ordinando di comprimere l'arteria splenica. Mi feci spazio, dando una spallata alla dottoressa lì impalata. Puntai lo sguardo su mio suocero.

«Il cuore cede.» mi informò.

Guardai simultaneamente i monitor, i valori erano sballati e iniziai a innervosirmi fino a spezzarmi la mascella. «Epinefrina, presto!» urlai e iniziai con la manovra sul torace mentre lo comprimevo. No, non sarebbe finita, quell'uomo non avrebbe perso la vita a causa mia. Non avrei dato un dolore così grande e insopportabile alla donna che amavo. Federica non lo meritava, Alessia non lo meritava e non mi sarei mai perdonato per il resto della vita.

Lui doveva farcela.

«Merda!» ringhiai. Perché doveva capitare proprio a noi? Noi non avevamo fatto niente di male. Volevamo solo vivere in pace e ed essere felici.

Perché...

«Tenga duro. Tenga duro, capito? Deve resistere per le sue ragazze. Per le sue figlie. Lei è molto forte, non ci abbandoni, capito?» Sollevai il viso, madido di sudore ed esplosi. «Il sangue? Dov'è?!»

«Gliel'ho detto... temo non ce ne sia più, dottore.»

«E io le avevo detto di andare a cercarlo. Si sbrighi!»

«Capisco il suo nervosismo.» Si intromise la Ciancio. «Ma non vengono molti pazienti a trovarci e abbiamo usato il resto delle scorte. Che cosa si fa?»

Mi bloccai per guardarla dritto negli occhi. Non poteva essere seria e sbraitai, con le vene sul punto di esplodere. «Che cosa?! Che razza di domanda mi fa? Chiedete agli ospedali vicini, al personale, ai parenti dei pazienti, a chiunque, ma trovate questo benedetto sangue. Va bene?!»

L'infermiera uscì un secondo, per ovviare alla mancanza di sacche e continuai con l'RCP e lo sguardo incollato al paziente.

Non lo avrei lasciato morire, ne valeva la mia stessa vita.







Federica

Con l'ispettore, avevamo visionato i filmati della sicurezza e scoperto che papà se n'era andato un'ora fa, chiedendo passaggio ad un taxi, ma il motivo era ancora ignoto. Alessia era preoccupata, era ancora in via di guarigione dell'ultimo incidente e se ne andava in giro per la città come se niente fosse? Era un sospetto che le orbitava nella testa, ma conoscendolo sicuramente sarebbe riapparso quando le acque si sarebbero calmate del tutto. Tipico di lui. Nel frattempo una chiamata improvvisa accese la nostra speranza quando l'ispettore ci comunicò che avevano ritrovato Giovanni, era in un ospedale non molto distante e la gioia prese il sopravvento su tutti, oltre che un forte senso di sollievo. Ci mettemmo in viaggio per raggiungere quel posto. Dopo un'ora, arrivammo e scesi per dirigermi verso l'ingresso, vigilato da due poliziotti.

«Giovanni... sta bene?» chiesi senza troppi preamboli.

«Federica... aspetti» mi interruppe il commissario. «Allora, ragazzi, che succede?»

«Giovanni Rinaldi è in sala operatoria.» rispose uno di loro e sobbalzai, il mio cuore accelerò.

«Come... Cos'è successo? Gli è successo qualcosa? Sta male?»

«Dovremmo entrare a controllare, possiamo essere d'aiuto.»

«Non si tratta di questo, sta operando.» si corresse subito.

Tirai un profondo sospiro. «Allora, se sta operando significa che... sta bene?»

«Come lo avete trovato?»

«Ha portato qui una persona ferita.»

«Quella che ha architettato tutto?»

«Non lo sappiamo ancora, commissario.»

Fu una risposta vaga. A quel punto, dovevo trovare la sala operatoria il prima possibile e li oltrepassai. Chiesi informazioni al banco accettazioni e proseguii in un corridoio. Dalle porte vidi sbucare un'infermiera e le andai dietro correndo come una forsennata.

«Infermiera, per favore, lei sa se Giovanni Rinaldi è lì dentro?» Indicai le porte da cui era uscita.

«Sì. Il medico sta operando.»

Sospirai, scambiandomi un'occhiata con Alessia. «E sa quando uscirà? Io sono sua moglie.»

«Il paziente è grave, non lo sappiamo. Potrebbe volerci altro tempo.»


«Senta, anch'io sono un medico. Posso fare qualcosa?»

«Signora, non posso trattenermi a parlare. Ho molta fretta ora. Ho bisogno di sangue e devo...»

«Che gruppo sanguigno le serve, infermiera? Magari noi possiamo essere d'aiuto.» chiese il dottor Gentile.

«Due unità di sangue zero negativo.»

«Sono zero negativo!» Annunciò Alessia. «Posso donare.»

«Davvero?» Un sorriso si formò sulle labbra della donna che invitò mia sorella a seguirla e Alessia non se lo fece ripetere. Anche sul mio viso tornò a splendere un sorriso, la notizia di Giovanni che stava bene mi aveva rincuorato e mi girai verso Tommy Dalì e Riccardo.


«È tutto finito, Fe.»
Mi buttai a capofitto nelle sue braccia e Riccardo mi posò la mano sulla schiena, concordando sul fatto che questa brutta esperienza era ormai passata. Presto avrei riabbracciato mio marito e ce lo saremmo lasciato alle spalle. Lo aveva promesso.









Giovanni

La situazione non migliorava, nonostante le mie suppliche a bassa voce e continuai fino a che non sentii le braccia formicolare per lo sforzo. Il mio tentativo si stava rivelando vano e così provai col massaggio cardiaco interno. Strappai dalle mani dell'infermiera lo strumento. «Andiamo.» Posizionai il divaricatore nello sterno e attesi, tenendo gli occhi puntati sul monitor e alla linea piatta. Trattenni un po' il respiro. «Merda, non funziona... Perché non sta funzionando? Per le sue figlie, Lorenzo. Non può abbandonare Federica di nuovo. Non può ... resista, per favore.»

«Sono quaranta minuti, ormai. Non tornerà.» Puntualizzò con voce impossibile la dottoressa.

Incrociai il suo sguardo, poi lo distolsi. Mi curvai in avanti. «Forza... Forza...» sussurrai con voce bassa e un nodo in gola.

«Il cuore ha smesso di battere, lo lasci andare.»

«Taccia!» ringhiai. «Ce la farà, vero? Per favore. Non ci faccia questo, non può morire. Come posso dire alle sue ragazze che non sono riuscito a salvarla? Per favore... signor Lorenzo...» Il mio cuore finì per sbriciolarsi e gli occhi si inumidirono. Guardai i miei guanti, imbrattati di sangue. Avevo quel sangue innocente sulle mani, quello del padre di mia moglie e che aveva pagato il prezzo al posto mio. «Torni indietro... Per favore. Per favore.» La rabbia che avevo incamerato culminò a tal punto che assestai un pugno sul petto dell'uomo, aspettando di vedere il cuore ripartire. Ma ciò non accadde. La morte era stata più lesta e me lo aveva strappato. Serrai le palpebre, le lacrime mi solcarono il viso. «Ho fallito, non ce l'ho fatta. Mi perdoni, Lorenzo. Lei è morto per colpa mia, mi scusi tanto...»

La dottoressa con una calma innaturale mi chiese di certificare il decesso. Tenni lo sguardo inchiodato al volto di Lorenzo Andreani. Federica... mi avrebbe odiato, non avrebbe più voluto vedermi e io non l'avrei biasimata. Il padre era solo la vittima di un gioco mortale.

«Ora della morte.» Alzai gli occhi verso l'orologio appeso alla parete e tirai giù la mascherina. «Ora del decesso: 21.54».

Il silenzio avvolse completamente la sala operatoria e i presenti, che non aprirono bocca. «Lei ha fatto il possibile, non si colpevolizzi...»

«Non ho fatto abbastanza e adesso... lui è morto, è il padre della donna che amo e ora ho il sangue sulle mie mani.»

«E cos'altro avrebbe potuto fare?» mi chiese la dottoressa.

«Non sprechi il suo fiato, lei non sa niente. È morto a causa mia, sono io il responsabile. Scusatemi.» Buttai via la mascherina chirurgica sul pavimento, sfilai i guanti, e abbandonai la sala sterile, senza voltarmi. Ora veniva la parte più orrenda. Mi avrebbe odiato, lo sapevo. Ero stato io con le mie scelte o con le mie azioni. Se mi fossi impegnato di più... a quest'ora sarebbe stato vivo.

Uscendo, con il capo chino e lo sguardo da reo confesso, appena guardai alla mia sinistra, incrociai gli occhi marroni luccicanti della mia amata e le lacrime si formarono nei miei.










Federica


Scattai dalla sedia quando la figura di Giovanni scivolò fuori dalla sala operatoria.
Poi girò il capo a sinistra e mi vide, i suoi occhi si incastrarono ai miei e mi sembrò un sogno diventato reale. Potei tornare a respirare con più calma e mi fiondai, avvolgendogli le mani attorno al corpo e lo strinsi. Dopo aver esitato, mi abbracciò anche lui e seppellii la testa sulla mia spalla. «Ero così terrorizzata, Gio. Ho avuto tantissima paura...» Non ricevetti alcuna risposta e gli stampai un bacio sul collo. «Stai bene? Quel pazzo maniaco ti ha fatto qualcosa? L'hanno trovato? Eh?» Ci staccammo e gli presi il viso che si ostinava ad abbassare. «Gio, stai bene? Ehi...»

«Sì, sto bene...»

«Io lo sapevo. Sapevo che saresti tornato.» Un sorriso gli increspò le labbra ma svanì subito e una lacrima gli scivolò sulla guancia.

«Mi dispiace... non... Non ho potuto. Non ce l'ho fatta.»

Inarcai un sopracciglio. «Gio... Cosa stai dicendo? Cosa non hai potuto, mhm?»

«Se n'è andato... per colpa mia. Ho fatto il possibile, Fede. Te lo giuro, ci ho provato, ma non è servito a niente.»

«Gio?» Stava continuando a parlare con sé stesso e a torturarsi. Gli tenni il viso. «Ehi, Gio?»

«Ho fatto quello che ho potuto...»

«Gio, Gio! Ehi, ehi!»

«Ho fatto di tutto, mi... mi dispiace tanto, Fede...» Mi fissò e la disperazione era palpabile, stava per scoppiare a piangere m «Ti ho delusa!»

«Gio, smettila di scusarti. Che cosa non hai fatto, eh?»

«É successo... per colpa mia...» biascicò, con la voce rotta.

Sembrava distrutto e non capivo il motivo. Lo fissai attentamente negli occhi che continuavano a guardare in basso, al pavimento. «Gio... dimmi che ti prende.»

L'urlo di mia sorella mi costrinse a voltare di scatto la testa e a fissare il corpo inerte sulla barella. Alessia fece qualche passo, barcollando, e tornai su Giovanni.


«Mi... mi dispiace...»

«Mio padre...» Mio marito non mi guardò in faccia e contrasse la mascella, continuò a piangere. «Gio... non è morto, vero?» Abbassò lo sguardo e posai la mano sulla spalla. «No. Eh? È vivo, vero? Dimmi che lo è. Dimmi che lo è...»

Alessia chiamò nostro padre così tante volte, fino a che il suo urlo di dolore rintronò fra le pareti. Ingoiai a vuoto la saliva. Iniziò a muoverlo, a scuoterlo, ma restò inerte. Mia sorella lo implorò, piangendo copiosamente. Poi strillò. «Fragolina! Fragolina, devi fare qualcosa! Federica... porca puttana, nostro padre è... morto! Nostro padre non c'è più!» Con lo sguardo, continuai a camminare e allontanarmi da quella visione raccapricciante, Alessia mi strillò altro, ma ero talmente scioccata che diventò un suono ovattato e distante. Nessuno mi bloccò. Sfilai accanto a mio padre, al suo corpo... e fino all'uscita, ricordando l'ultima nostra conversazione, quando voleva darmi dei soldi per provvedere al mio benessere, ma io gli avevo intimato di tenerli senza dirgli mai un "prenditi cura di te". Poi, quell'abbraccio pieno di amore, che non mi aveva mai dato e sentii le ginocchia non reggermi più. Per la prima volta, mio padre... mi aveva dimostrato il suo sostegno e quando pensavo di poter allacciare il rapporto se n'era andato... in un soffio. Non sentirti sola, Fede, papà sarà al tuo fianco." Quelle parole che mi rivolse mi strinsero il cuore, mi provocarono una fitta al petto. Non era altro che l'ennesima cicatrice su un cuore rattoppato. Era rivivere il dolore di mia nonna, della sua dipartita, ed esattamente come allora mi ritrovai a crollare in ginocchio e a lasciarmi andare al pianto. Strinsi le mani in pugni e avvertii il cuore battere molto più forte.

Accovacciata sull'asfalto, appoggiai la mano sul petto e boccheggiai. Se solo avessi potuto dimostrargli anch'io il bene che gli volevo... prima della morte. Ora l'unica cosa che restava erano i rimorsi e il senso di abbandono. Mi presi la testa fra le mani e poi vi nascosi la faccia, ero sempre stata la dura, la Forte contro tutto e tutti... ma adesso quella corazza era crollata. Quella parte di me era morta esattamente come mio padre.

Restai in quella posizione, mi dondolai avanti e indietro e Alessia si accovacciò vicino a me e l'avvolsi in un abbraccio, bacianndole la testa.
Ci saremmo sostenute a vicenda, papà avrebbe voluto così.


[...]

Angelina mi chiamò, ma io rifiutai il suo aiuto per non arrecarle disturbo visto che era insieme a Wax. Giovanni si era chiuso in bagno e andai a controllare, sentendo il rumore dell'acqua che scorreva...

Lo trovai seduto sul piatto della doccia, con le spalle curve, la testa piegata e l'acqua che gli stava piovendo addosso. Non si era nemmeno spogliato, i vestiti gli si erano attaccati come una seconda pelle. Mi avvicinai. «Gio...» Chiusi la manopola e poi mi inginocchiai. Alzò il viso, i suoi occhi magnetici ormai non brillavano più, erano spenti.

«Fe... Ti chiedo perdono. Ho fatto tutto il possibile per tuo padre.»


«Lo so.» mormorai.

«Se avessi avuto più tempo, magari... avrei potuto salvarlo.»

«Lo so, so che hai fatto il possibile.»

«Non guardarmi in quel modo, per favore.»

Lo fissai sbigottita. «Come...»

«Con risentimento. Come se fossi io il colpevole.»

«Non hai fatto nulla, Gio.» Allungai la mano e accarezzai la guancia bagnata. «Andrà tutto bene. Avrei fatto qualunque cosa per riportarti da me, Gio. Qualunque, perfino sfidare l'inferno stesso.» Giovanni tremò impercettibilmente e poggiò le mani sopra le mie, tirando su con il naso. «Se non fossi tornato, probabilmente sarei morta di dolore. Tu sei la mia unica famiglia. L'unica persona che conta a questo mondo.» Accostai il volto a quello di mio marito sfiorandogli la punta del naso e la sua mano risalì lungo il mio braccio, con dolcezza. Per qualche istante, fronte contro fronte ci fissammo, in silenzio.

Non servivano parole per capirci.

Avremmo superato tutto e sarebbe ritornato il sereno, ne ero certa. Tutti quei ricordi mi affollavano il cervello: la sua sparizione, il risveglio orribile, il video, la corsa in quella clinica. Ogni cosa che avevamo vissuto, ogni singolo momento di paura... e Giovanni che si scusava, non mi guardava e singhiozzava. Il nostro mondo si era capovolto.

Forse ci sarebbe voluto del tempo per sanare quella ferita. Tempo e molta pazienza.


«Sarà sempre così? Ogni volta... Ogni volta che mi guarderai, ricorderai cose brutte. Pensi... che possiamo superarlo? Riuscirai a dimenticare?»

«Non lo so, ma passerà.»

«Lo spero...» confessò, accomodandosi vicino a me ma senza invadere il mio spazio. «Ma non puoi perdonarmi, Fe. Non te lo posso chiedere...» Lo guardai con la coda dell'occhio mentre aveva gli occhi persi. «Come puoi?» Ruotai la faccia dall'altra parte e gli strinsi la mano. «Pensi di poterlo cancellare?»

«Non lo so.» Giovanni riabbassò la testa. «Ce la faremo. Riusciremo a rimettere i pezzi e ad essere felici, insieme. Ti prometto che sarà solo un bruttissimo ricordo.»

Scosse il capo: «So che non lo farai.» Ritrasse la mano, privandomi del contatto. «Non riuscirai a dimenticare tutto ciò che ti ho fatto passare. Non ci riuscirai, lo so. E anche se dovessi farcela, mi serberai rancore... perché ti ho rovinato la vita nel preciso momento in cui sei diventata mia moglie. Mi dispiace, mi dispiace per tutto il male che ho causato...» Appoggiai la mano sul suo petto, invitandolo a sdraiarsi, vicini anche se distanti, e si sdraiò.

Ci guardammo a lungo, poi chiusi le palpebre e, dopo due notti che non avevo dormito, presi sonno.










Giovanni

Per evitare di essere assalito dagli incubi, tenni gli occhi aperti e fissi al soffitto buio, avevo lasciato solo la luce accesa sul comodino. Guardai dalla parte di lei ed era crollata sopra le coperte. La vibrazione del cellulare mi distolse e lo presi. Non era numero che conoscevo, a causa del mio lavoro ero sempre in allerta. Mi alzai, spostandomi per non rischiare di svegliare mia moglie.

«Pronto?»

«Sono... Angela, la dottoressa incompetente di oggi. Aveva ragione lei. Un uomo è morto... perché non ho voluto fargli la TAC in tempo

«É inutile che mi dia ragione ora, non continui a parlarne.»

Ormai era successo e niente avrebbe cambiato il corso degli eventi.


«Intendo... pagare il mio errore

«Che cosa sta dicendo?»

Si limitò a sospirare e, dopo una breve pausa, proseguì. «Che accetto la mia punizione. Stanotte è il mio ultimo turno qui. Non si preoccupi, non ucciderò nessuno. Lascerò l'ospedale. Farò un favore a tutti.»

Mi girai un secondo verso Federica, ancora nel mondo dei sogni e abbracciata al cuscino.

«Dove si trova?»

«Stia tranquillo. So che non cambia nulla... però mi dispiace molto. Mi dispiace, dico davvero.»

Senza darmi il tempo di rispondere, staccò la telefonata.

Capendo al volo le sue intenzioni, mi vestii in fretta e, senza fare rumore, uscii. Feci ritorno così alla clinica e venni accolto dal signor Raffaele. Gli domandai dove fosse la dottoressa Ciancio e mi rispose che l'ultima volta l'aveva vista nella sala operatoria che loro non usavano mai. Lo ringraziai e proseguii verso quella direzione, sperando non fosse troppo tardi. Aprii le porte di colpo e la trovai abbandonata su una poltrona, rigirando fra le mani il bisturi. Mi paralizzai e, sentendosi osservata, sollevò il viso. Le lacrime le percorrevano le guance e tirò su con il naso.

«Non lo faccia. Per favore.»

«Non fare cosa?» Si mise in piedi e avvicinò la lama al polso. «Questo?» Notando la mia preoccupazione, increspò un sorriso e lo gettò sul tavolo operatorio. Rilassai le spalle. «Ci stavo pensando, però farei un altro pasticcio, la metterei di nuovo nei guai e dovrebbe salvarmi.»

«Sa, la capisco molto bene. Ha commesso un errore, si sta tormentando e, di conseguenza, ha deciso di prendere la strada più semplice e scappare.»

«Forse... ha ragione. Ma non so cos'altro fare.»

«Una cosa ci sarebbe...» Raccolsi il bisturi. «Sa bene qual è il suo obiettivo, dal giorno in cui ha preso in mano questo bisturi.»

«Quello di salvare vite...»

«Già, salvare vite.» Chinò lo sguardo. «Non ha potuto... Anzi, non abbiamo potuto salvarlo. Però, domani, arriveranno nuovi pazienti: il padre, la madre, il fratello o il figlio di qualcuno.» Buttai il bisturi sul tavolo e aggiunsi. «E lei li salverà!»

Dissentì, demotivata e con il morale a terra. «Non posso farlo.»

«Lo farà, imparerà dai suoi errori e andrà avanti. Sarà un medico migliore, farà di tutto per diventarlo, per il bene di tutti.»

«E se non ci riuscissi?»

Presi un respiro. «Ci riuscirà.»

«E come fa ad esserne così sicuro?»

«Niente è impossibile se ci si impegna, questo è certo.» Lo avevo imparato a mie spese, quando avevo rinunciato ad essere medico e poi la vita mi aveva condotto a riprendere quella professione e ad essere quello che ero oggi.

«Chi mi insegnerà ad essere un buon medico?»

«Guardi, per noi ogni paziente è uguale. Anche se alcuni di loro sono più speciali. Il signor Lorenzo... era molto speciale, per me, era mio suocero. Ha fatto un errore, non mi ha ascoltato e... lo abbiamo perso. Un medico non può permettersi il lusso di fare certi errori, capisce?» Distolse lo sguardo e strinse le labbra. «Per questo non lo dimenticherà mai. Vedrà la sua faccia in ogni suo paziente. Non pianga ora. Non pianga.» Fece un sospiro e riabbassò lo sguardo. «Qualunque cosa accadrà, darà tutta se stessa per rimediare e diventare una talentuosa dottoressa. Non si arrenda, ok?» Con la mano scacciò via le lacrime e restò ad osservarmi in silenzio con le braccia ai fianchi. «Perchè? Perché è un medico!» L'afferrai per le spalle. «Il suo scopo è aiutare gli altri. Faccia un bel respiro e si ricomponga, poi torni a lavoro e ce la metta tutta. Qui ci sono persone che hanno bisogno del suo aiuto. Non può abbandonarle al loro destino.»

Tornò a fissarmi con ritrovata determinazione. «Grazie per le sue parole e il suo incoraggiamento...» Sussurrò e abbassai gli occhi. Qualcuno, a quel tempo, anziché spronarmi a fare del mio meglio per migliorare, mi aveva detto o meglio, urlato in faccia che non valevo a nulla se non facevo lavorare il cervello come le mie mani e sarei stato relegato a un ruolo di margine.

Incamminandomi verso l'uscita, mi bloccai vedendo il signor Raffaele che imprecava contro la ruota della sedia a rotelle, scusandosi con la donna anziana e poi fissai la confusione spaventosa al banco accettazioni e la fila chilometrica, la gente stava perdendo la pazienza ad attendere. Di sicuro, in quel posto l'organizzazione mancava e il caos regnava indisturbato. Il signor Raffaele e un collaboratore trasportarono l'anziana fino alla sala visite. Una volta fuori, guardai interamente l'edificio, molto diverso dal mio ospedale, e poi mi accomodai sulla panchina solitaria per riflettere. Forse era stato il destino a condurmi qui...














Federica

Lo scatto di una serratura mi fece sobbalzare e aprire gli occhi. Mi voltai dalla parte di mio marito e di lui nemmeno l'ombra, così indossai le pantofole al volo e mi precipitai al piano di sotto.

«Gio!» Quando lo vidi, appoggiai la mano sul petto per rallentare il cuore che stava per schiantarsi contro lo sterno. Agganciò la telefonata e tirai un altro sospiro. «Sei tu...»


«Tesoro... ti ho svegliato? Scusami. Dovevo fare più piano.»

«Da dove vieni?»

«Qualcuno stava per commettere uno sbaglio e l'ho fermato.»

«Chi? Valentina?»

Inarcò il sopracciglio, come se avessi detto una cretinata. «Valentina?»

«Conosco la storia del bacio e di quella foto, è stato Tommy a raccontarmi tutto. Non è una cosa che mi preoccupa...»

Scosse il capo. «Neanche a me, cara. Valentina non significa niente per me. L'unica cosa importante nella mia vita sei solo tu.» Mi prese per le spalle e fece un passo avanti, incastrando le nostre iridi. «Ho aiutato una giovane dottoressa...»

«Chi?»

«Quella che mi ha affiancato nell'operazione di tuo padre.»

«Per quale motivo?»

«Per salvare la vita di qualcun altro, almeno.» Il mio volto si incupì un po' e Giovanni me lo chiuse fra le mani, baciandomi sulla fronte. Lasciò che appoggiassi la testa sul suo petto e mi avvolse fra le sue braccia. «Ti amo più di ogni altra cosa al mondo, Fede. Non dimenticarlo mai, okay?» bisbigliò, mentre ascoltavo il battito del suo cuore. «In tutti questi anni, non ho mai rinunciato a te, e mai succederà. Potrei rinunciare a tutto, ai soldi, al potere, all'ospedale, solo per renderti felice e proteggerti da ogni pericolo. Ti prego, non dimenticarlo mai, non importa quanto sia sbagliato...»

Le sue parole mi cullarono, ma mi stavo chiedendo perché le stesse pronunciando proprio ora, e perché? Rinunciai però a parlare e continuai a farmi stringere, era lui il mio porto sicuro, la mia strada di casa.

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