Capitolo 24.1 - Questione di vita o di morte
Federica
«Riccardo, ti prego, fa' qualcosa.» lo implorai mentre avevo gli occhi incollati su quel video. «Riccardo, fa' qualcosa! Dov'è questo posto? Perché nessuno fa niente per trovarlo?» La mia pazienza vacillò e urlai, come una pazza isterica.
«Mantieni la calma, ok? La polizia è stata già informata. Vedrai, lo troveranno.»
«Dottoressa Andreani, il suo telefono.» Una giovane infermiera mi porse il cellulare che stava squillando. Il mittente era sconosciuto e risposi.
«Pronto?»
«Sta perdendo tempo. Ha ancora una possibilità. Ha sette minuti e mezzo prima che il suo Giovanni muoia soffocato. Sette minuti e mezzo.»
«Chi è lei?»
«E... il conto alla rovescia è iniziato. Non dimentichi: sette minuti e mezzo.» ribadì, ignorando la mia domanda e attaccò.
Dovevo essere diventata bianca come un fantasma, dato che Riccardo mi chiese cosa succedendo. Rimasi a guardarlo immobile con il braccio a mezz'aria. Dopo essermi cambiata, ci infilammo nella mia macchina e sfrecciai per le strade, infischiandomi di infrangere la maggior parte dei limiti di velocità. C'era in gioco molto di più, ovvero la vita di mio marito e avevo intenzione di raggiungere quel posto prima dello scadere del tempo.
«Quanto rimane?» Chiesi.
«Non molto...»
«Quanto, esattamente?»
«Cinque minuti e mezzo.»
«Cinque minuti e mezzo.» ripetei sottovoce, con lo sguardo fisso alla strada che stava percorrendo, premendo l'acceleratore così tanto che il contachilometri schizzò oltre i settanta chilometri. «Ci arriveremo.» E sorpassai poi una vettura che andava più piano.
«Fede, calma. Guarda, la polizia sta andando lì, è tutto ok.»
«Sto arrivando, Gio.»
«Fede, so che stiamo correndo contro il tempo, ma dovremmo comunque essere prudenti.»
La cosa più importante era raggiungerlo e sfrecciai come un fulmine in una curva. Sapevo che mi stava aspettando. Aspettava che arrivassi e lo salvassi. In cuor mio, tenevo viva la speranza che avrebbe tenuto duro.
«Resisti. Resisti, Gio.»
Seguii meticolosamente le istruzioni, fermai la macchina davanti ad un edificio apparentemente abbandonato e scendemmo. «Gio!» esclamai, sbattendo forte lo sportello.
«È questo l'indirizzo, sarà qui.» affermò il dottor Gentile, gettando un'occhiata sbrigativa ai dintorni. Entrammo in un portone, scendemmo cinque scalini che ci condussero verso un'altra porta, a vetri. Appena la spalancò, un lungo corridoio che si snodava in varie direzioni.
Era come camminare in un labirinto, mi indicò prima dritto e poi a sinistra e, vedendo la teca di cristallo, mi paralizzai.
«Che diamine di posto è?»
Iniziammo una corsa forsennata e salii su una specie di palco.
«Gio!» urlai a squarciagola.
«Giovanni, riesci a sentirci?»
«Gio!»
«Il tempo è quasi scaduto.» mi informò Ric. Dovevo tirarlo fuori da questa trappola mortale.
«Gio! Mi senti? Gio, ti prego rispondimi! Gio!»
«Giovanni!»
«Riccardo, facciamo qualcosa! Non possiamo lasciarlo lì!»
«Non c'è modo di entrare da nessuna parte.» disse, spuntando da dietro la lastra infrangibile.
«Che cosa facciamo?»
«Dobbiamo rompere questo vetro.» Schiantai i palmi aperti contro quella superficie. «Federica! Ehi!» Indicò qualcosa con un cenno della testa e mi voltai. Vidi esposto un martello. Era la nostra ultima speranza, l'unica soluzione. Ci scambiammo uno sguardo d'intesa, poi balzai giù dal palcoscenico e mi fiondai verso quella direzione. Riccardo mi disse di fare attenzione e agguantai il martello, tornando immediatamente indietro con il cuore che batteva all'impazzata. Sfoderai tutta la forza fisica, grazie agli allenamenti del pugilato e colpii la lastra una prima volta. La polizia fece irruzione e l'ispettore mi ammonì. "Stia attenta!". Strinsi più forte la presa sul manico e lo scagliai una seconda volta, riuscendo a creare una crepa. Dopo il terzo colpo ben assestato si spezzò e precipitò, frantumandosi in mille pezzi. Lasciò disperdere la nube di fumo tossico e portai il braccio alla bocca per non respirarlo. Entrai nella cabina e tossii.
«Gio...»
«Giovanni!» Seduto su quella sedia però non c'era mio marito, ma un pupazzo che gli assomigliava, perfino con la stessa acconciatura e i baffi «"Troppo tardi. Oh, no, ritentate. Sarete più fortunati."» Lessi sul cartellone appeso al collo. «Dov'è Giovanni?» chiesi ai due. Non ottenni risposta. Era evidente che quel farabutto ci aveva teso un tranello e attirato qui con l'inganno.
Arrabbiata da quella presa per i fondelli, per non dire altro, iniziai a camminare avanti e indietro, torturando le mani. «Calma, Fede. Forse è un buon segno che non sia qui.»
«Come faccio a calmarmi, Riccardo? Non vedi? Un pazzo ha sequestrato mio marito e sta giocando con noi a nascondino. Ti stai divertendo, bastardo?» Mi rivolsi a quella presenza sinistra che si celava nell'ombra.
«Non sappiamo ancora dove...» Esordì l'ispettore.
«Dov'è? Guardi!» Gli mostrai il manichino e il cartello con il braccio alzato. «Dov'è Gio? Dove?! Eh!»
«Non si preoccupi, lo troveremo.»
Riccardo mi fece cenno con la mano di non sbraitare.
«E come pensate di farlo? Come? Come fate a sapere che non gli sia successo nulla, che non sia ferito o peggio!»
L'ispettore Cavaliere posò la mano sulla mia spalla. «Mi ascolti, Giovanni non è un mio amico, quindi quello che le dico è frutto di esperienza. Suo marito non è morto. Se l'obiettivo di questo maniaco fosse stato ucciderlo, l'avrebbe già fatto. Il suo scopo non è uccidere, sta solo giocando. Si fidi di me, troverò suo marito.»
«Lo troveranno, sii forte, Fede.»
«Capo! C'è qualcosa di sotto, venga a vedere.»
Uno dei ragazzi della squadra si avvicinò, l'ispettore lo seguì e io gli andai dietro, come un segugio. Avevano scoperto una stanza con un letto sprovvisto di materasso e una poltrona accatastata in un angolo. La scientifica si mise all'opera per scoprire se ci fossero tracce.
«Giovanni è stato qui.»
«Molto probabile.» rispose l'ispettore.
«Quel bastardo l'ha tenuto qui e l'ha preso prima che arrivassimo.»
«Sembra di sì.»
Il mio sguardo si fece incupito. «Lo ha preso dal nostro letto e l'ha trascinato qui.» Una scintilla di speranza però baluginò nei miei occhi e mi voltai. «Ma lasciano sempre degli indizi, vero? Non può aver ripulito tutto quanto.» Gli occhi dell'ispettore vagarono per l'ambiente. Una parte di me ci sperava. Gli addetti della scientifica spolverarono la testiera del letto alla ricerca di eventuali impronte digitali. Poi, trassi un respiro e diedi di nuovo le spalle ai due.
[...]
«Federica?» Appena uscimmo, Riccardo mi toccò il braccio per attirare la mia attenzione. «Giovanni è ancora vivo e lo sai.»
«E dov'è? Stiamo trascurando molte cose.»
«Lo troveremo, vedrai. Cerca di non farti prendere dalla rabbia, ok?»
Era facile parlare, non sapendo bene come mi sentissi. Fremevo dalla voglia di prendere a pugni quel maledetto sequestratore.
«Abbiamo cercato all'interno, ma non abbiamo trovato nulla.» Esordì l'ispettore, avvicinandosi.
«Perchè non mi sorprende?»
«Questo non è un normale sequestro, signora Federica. Chi ha rapito suo marito sta giocando con noi, è un tipo scaltro.»
«Cosa intende?» domandò Riccardo.
Feci spallucce. «Con che razza di persone abbiamo a che fare?»
«Chi l'ha rapito ha pianificato tutto nei minimi particolari, non ha lasciato tracce. Questo posto è abbandonato e non ci sono nemmeno le telecamere.»
«Quindi aspettiamo con le mani in mano senza fare nulla?»
«E... il numero di telefono che mi ha chiamato all'ospedale? Ha scoperto qualcosa?»
«La informeremo appena ne sapremo di più, Federica.»
Alzai gli occhi al cielo e mi avviai verso la macchina, salendo e sbattendo la portiera dietro di me, con stizza.
Accidenti. Più passava il tempo e più si riduceva la possibilità di ritrovarlo vivo. Ma perché quel tipo ci stava dando il tormento? Che cosa voleva esattamente da Giovanni o da me...
Giovanni
Uno stizzo di tosse mi strappò bruscamente ad un sonno pacifico. Udii lo squillo insistente di un telefono, la mia vista, a tratti, era nebulosa e sbattei le palpebre. Spostai gli occhi di lato e notai l'aggeggio abbandonato sul sedile del passeggero. Osservai la mano sinistra, stranito, era stata fasciata a dovere. Quel farabutto aveva in mente qualcos'altro. Cosa mi aveva fatto. Sullo schermo lampeggiava la scritta "numero sconosciuto". Poi, sgranai gli occhi, sentendo un sapore rancido salire in gola e dovetti spalancare lo sportello, ritrovandomi a vomitare accasciato sulle ginocchia. Mi svuotai da tutta la tensione. Era una roba biancastra. «Sei un maledetto psicopatico e un figlio di puttana...» Presi dei respiri, fissai interdetto la stecca al mio dito. Mi misi in piedi a fatica, quel fastidio allo stomaco non accennava a diminuire. Roteai il busto per guardare in ogni direzione, era l'ennesimo posto abbandonato e somigliava ad un autorimessa. Con una mano posata sul fianco sfinito e nauseato, mi poggiai alla carrozzeria. L'unica anima viva che passò fu un cane, ridotto a pelle e ossa, che annusava nel bidone della spazzatura con il muso in cerca di cibo commestibile.
«Mi fa male... lo stomaco...» biascicai e mi aggrappai allo sportello anteriore. Mi allungai a prendere il cellulare che non aveva smesso di squillare.
Lo misi a tacere. «Ciao!»
«Complimenti. Non sei morto neanche oggi.»
Mi appoggiai meglio alla carrozzeria con la mano posata sullo stomaco. «Maledetto bastardo, figlio di puttana, dove sei? Vieni così posso vederti in faccia, andiamo! Vieni qui!»
«Ma io sono qui.» rispose e guardai in ogni direzione riducendo le palpebre in fessure. «Sono ovunque... e allo stesso tempo da nessuna parte.»
«Ancora questi giochetti?»
«Credimi, mi sto divertendo un mondo.» confessò.
«Ti stai divertendo, eh? Bastardo! Vieni fuori così posso vederti, perché non ti sopporterò più, capito? Bastardo!»
«Oh, no, no. Non ancora. Prima devo spiegarti la seconda parte della nostra folle avventura insieme.»
Buttai indietro il capo e una smorfia mi si formò sulla bocca all'ennesima fitta. Mi piegai in due. «Cos'altro vuoi?»
«Salvare una vita, proprio come hai sempre fatto.» Aggrottai la fronte. «Vediamo se sei un bravo medico, come dicono.»
«Hai fatto qualcosa a qualcuno, vero?» Alzai il tono. «Ti avevo detto di lasciare stare i miei cari! Se hai fatto qualcosa a mia moglie, se le hai torto un solo capello, ti ucciderò con le mie stesse mani! Mi hai sentito?»
«Mi offende che pensi sempre il peggio di me, davvero. Mhm... è stato un semplice incidente.»
«I... Incidente? Di cosa stai parlando? Chi?»
«Chi? Bella domanda. Chi ha avuto l'incidente?» La sua sfacciataggine mi fece ribollire il sangue. «Be', dovresti andare lì... per scoprirlo. Dovrai prima trovare la persona ferita e poi salvarla.»
«Dov'è? Dove sta?!»
«Ti basta seguire il navigatore. A proposito, non c'è di che, per aver reso il tuo lavoro più facile, visto che Roma è grande e sarebbe stato come trovare un ago in un pagliaio.»
Quel bastardo stava farneticando, non gli dovevo alcun ringraziamento e cercai il navigatore tra le varie applicazioni. Sapevo esattamente come sarebbe finita questa storia se avesse ferito le persone che amavo. Non avrei avuto alcuna pietà, mi aveva sequestrato e allontanato da mia moglie nel momento più bello subito dopo il matrimonio e fremevo dalla voglia di riempirlo di botte. Non sarebbe scappato. M'infilai al posto di guida per accendere il motore, imprecando:
«Se solo tocchi mia moglie o qualcuno a cui tengo, giuro che ti troverò e ti ucciderò! Ti ucciderò con le mie stessi mani, non avrò pietà, farabutto. Sto venendo a prenderti, Fe. Tieni duro, amore mio.» Inserii la marcia, partendo a tutta velocità, immergendomi nella strada. Non sapevo dove mi avrebbe condotto, le indicazioni dicevano che non era lontano. «Dove stiamo andando?» Tirai uno schiaffo contro lo sterzo. «Dove mi stai portando? Ti ucciderò. Se osi far del male a qualcuno della mia famiglia, se tocchi un capello di Federica, giuro che ti ammazzo. Ti troverò ovunque ti nasconda!» Una lacrima mi percorse la guancia e l'asciugai. «Ti troverò, vigliacco, e te la farò pagare per tutto quello che hai fatto!» Gettai un'occhiata alle indicazioni sulla mappa, il puntino blu stava giungendo a destinazione. Nonostante la pesantezza che mi gravava addosso, mi costrinsi a tenere gli occhi ben spalancati. Una volta arrivato, parcheggiai e vidi un taxi sul ciglio della strada, o quello che ne restava, c'era del fumo che usciva, il parabrezza distrutto e i finestrini non esistevano più. «Merda!» Immediatamente corsi rischiando di incespicare sui miei piedi, sbirciai gli interni. Guardai anche sotto. Niente.
Non c'era nessuna persona che aveva bisogno di cure...
Quello psicopatico aveva mentito?
«C'è qualcuno? Avete bisogno di aiuto? Rispondete!» Ero in mezzo ai boschi, una zona isolata e non ricevetti risposta. Un lieve capogiro mi fece barcollare e mi appoggiai contro il taxi, un fischio assordante nelle orecchie. «Cavolo... Dove sei? Dove sei? Dove sei?» Tuffai le mani fra i capelli e li arruffai per il nervoso. Poi mi venne in mente di chiamare la polizia. Non ci avevo pensato prima. Afferrai l'aggeggio e stavo componendo il 112, quando tornò a squillare.
Quel maledetto aveva un sesto senso o era una coincidenza...
«Ora cosa vuoi da me? Rispondi, che cosa vuoi?!» ringhiai.
«Volevo ricordati che non puoi chiamare nessuno con questo telefono, mi dispiace.»
«Bastardo!»
«Qual è il problema? Non l'hai trovato?»
«Non riesco a trovarlo! Dimmi dov'è, avanti!»
«Senti, un buon chirurgo è attento e meticoloso... ma tu non lo sei, perché se fossi un buon chirurgo sapresti che non bisogna muoversi fino a quando le ferite non sono guarite.»
«Smettila di dire cavolate una volta per tutte! Dimmi! Dov'è?!»
«Sto solo dicendo che, a causa della tua pigrizia, perderai una persona a cui tieni molto...»
«Ascolta, se per colpa tua perderò qualcuno a cui tengo, giuro che ti ammazzo. Mi stai ascoltando? Ti ucciderò con le mie stesse mani! Mi hai sentito? Mi hai sentito, stronzo! Dov'è?» Presi a calci i pezzi della carrozzeria del taxi. Allontanai poi il cellulare e ispezionai i dintorni. Torturai i capelli con le mani e mi piegai sulle ginocchia, finendo per accovacciarmi. «Calma, Gio, calma. Stai ignorando qualcosa. Ti sta sfuggendo qualche dettaglio.»
«Decisamente...»
«Chiudi quella cazzo di bocca! Chiudi la bocca! Dimmi dov'è, dov'è? Taci, dimmi dov'è?!» Stavo ricominciando a parlare da solo, ma non potevo dargli quella soddisfazione. Mi coprii la bocca alzandomi e vidi del sangue gocciolare a terra. «Me... merda... Federica! Federica! No! No!» Mi precitai all'auto con cui ero venuto, inserii la chiave nella serratura e spalancai di scatto il bagagliaio. «Fede...» Sbarrai gli occhi e rimasi immobile. «Lo... Lorenzo...»
«Sorpresa!» Esclamò, scoppiando in una risata sinistra. Una lacrima mi solcò la mascella e deglutii. «Ti rimane poco tempo per salvare tuo suocero...»
«Zitto! Zitto, psicopatico! Lorenzo, stia tranquillo.»
«Ok, ti spiego com'è la situazione: il paziente è un uomo di 60 anni con un cattivo rapporto familiare con le sue figlie.» Asciugai la guancia, un altro fischio e dovetti strizzare le palpebre. La vista mi si annebbiò, mi sentii debole. Scossi il capo. «Sei rimasto zitto? Che c'è? Ti fischiano le orecchie?»
«Zitto! Sta zitto!» Tuonai.
«L'hai trovato grazie a me, dovresti ringraziarmi.»
Era per colpa sua se quest'uomo era in queste gravi condizioni. Non potevo controllare le pupille, non avevo una torcia con me.
«Devo portarlo in ospedale.»
«Hai ragione. Ha un grave trauma toracico, possibili danni al cranio e fratture multiple. È incosciente e non reagisce agli stimoli. Pupille diseguali, ma foto reattive. È probabile che abbia emorragia cerebrale e polmonare.»
Mi bloccai un istante. «Sei... un medico.» affermai. Strofinai un occhio e tenni aperto lo sportello con la mano. Dovevo essere forte e non perdere la concentrazione, era essenziale. «Dobbiamo fare una TAC subito.»
«No, non c'è tempo. Puoi iniziare subito aprendo il petto. Guarda nel portabagagli, puoi trovare qualcosa di utile.» consigliò e iniziai a scavare, buttando via una marea di cianfrusaglie, poi trovai una borsa medica. «Forza, dottore, mi faccia vedere cos'è in grado di fare. Mi stupisca.»
Dovevo però tirarlo fuori.
Cercai di sollevarlo, anche se era diventato un peso morto. Lo adagiai delicatamente sull'asfalto e cercai di tamponare le ferite con una spugna per il lavaggio e lo rassicurai con parole dolci. Non doveva arrendersi. Doveva ritornare dalle sue figlie e dalla sua nipotina. Avevano bisogno di lui, specie la mia Federica.
«Non si preoccupi, la salverò. La porterò dalle sue ragazze. Deve resistere un altro po'... per Federica e Alessia. Saremo una grande famiglia. Sta sanguinando molto. Maledizione, devo drenare il sangue.» Cercai nella borsello del pronto soccorso. «Resista, ok? Lei è un padre, può farcela. È il padre della mia Federica.» Dissi, intingendo l'ovatta di disinfettante. «Non posso farle questo... devo salvarla.» Sulle mie labbra si formò un sorriso. «Si fidi di suo genero.» Le orecchie ripresero a fischiarmi e scossi il capo, strizzando le palpebre per far passare quel fastidio. «Le farà un po' male ma dovrà sopportarlo... Ok? Presto potrà respirare meglio, si fidi. Io e lei non abbiamo mai parlato, non ci conosciamo bene, ma lo faremo.» Creai un buco con un bisturi e lo tenni aperto con la punta delle forbici, strappando il cerotto adesivo con i denti. «La salverò, resista... ancora un po'. Saremo una grande famiglia, ci lasceremo tutto questo schifo alle spalle. La salverò. Mi... Mi dispiace di averla coinvolta.» biascicai con voce rotta. Quel tipo voleva colpire me, e io non potevo fare nulla per impedirglielo. Tirai su con il naso e mi rimisi in piedi per cercare un tubo. Controllai ovunque, da una parte all'altra, sia nel taxi che nell'auto. Doveva essere grande. Ne trovai uno, di colore giallo. Era della giusta lunghezza. Perfetto. Doveva funzionare. Cercai di tagliarlo con il bisturi, ma si ruppe e imprecai. «Ah, merda! Merda!» Lo buttai e provai con un altro paio di forbici. Lo spezzai, presi il pezzo corto e lo introdussi nel buco, spingendo in profondità. Afferrai l'altra estremità e iniziai a soffiare dentro con tutto il fiato che avevo in corpo, facendo risalire lentamente il sangue. «Sì... menomale!» esultai, traendo un sospiro. Dovevamo raggiungere l'ospedale. Gli ricordai di tenere duro per le sue figlie e che avremo ricominciato tutto dall'inizio. Lo sollevai per le spalle, cingendogli il busto con le braccia e trascinai verso la macchina. «Non lascerò morire nessuno! Non lo permetterò... Non permetterò che nessuno muoia per colpa mia!» Dopo averlo sistemato sul sedile posteriore, misi in moto e lo supplicai di resistere. Gettai svariate occhiate indietro, non si muoveva, era privo di sensi ed ero in preda all'angoscia. Gli chiesi più volte di aspettare finché non avrei trovato un ospedale dove lo avrebbero operato. Lo avrei salvato. Non avevo altre opzioni, perché la vita di mio suocero dipendeva da me. Non potevo permettere che Federica ne risentisse, aveva già perso troppe persone. «Vuole bene a sua figlia Federica, no? Se le vuole bene... non la deluda! Non le dia questo dolore! Deve resistere, lo faccia per le sue ragazze. Per favore...» Parcheggiai davanti ad un piazzale, vedendo l'insegna "clinica Enea Medical" di Anzio e tirai il freno. Scesi all'istante. «Ho bisogno di aiuto!» Mi avvicinai all'ingresso e chiesi una barella.
Tornai nuovamente alla macchina e intimai di sbrigarsi. Un uomo con aria perplessa, un po' in carne e gli occhiali dalla montatura nera, uscì.
«Sono qui, che succede?»
«Presto, una barella!» Si sporse a osservare i sedili interdetto, con un cenno di diniego. «É una questione di vita o di morte, si sbrighi!»
«Una barella?» Ci pensò. «Sì, sì, torno subito.» Rientrò e mi piegai per monitorare le condizioni di Lorenzo.
«É qui per colpa mia, ma io la salverò.» Sollevai lo sguardo e l'uomo portò fuori una sgangherata sedia a rotelle. «Ho detto una barella, cos'è questa?»
«La ruota della barella si è rotta, volevo aggiustarla... ma ci faremo andare bene anche questa. Avanti, non perdiamo tempo prezioso!»
Alla fine gli feci cenno di seguirmi.
«Non c'è nessun altro che possa aiutarci?»
«Lo farò io.»
Dopo averlo messo sulla sedia a rotelle, lo conducemmo nel pronto soccorso di quella clinica.
«Trovate un letto. Non ci sono più letti disponibili?» chiesi.
«Sono tutti occupati.» Distolsi lo sguardo e trattenni uno sbuffo. «Com'è successo, signore?»
«Un incidente stradale. Mi servono quattro unità di sangue e una torcia, ok?»
«Dobbiamo aspettare il medico di turno, chi è lei per sostituirlo?»
«Sono un medico e non posso aspettare! Forza, faccia quello che le ho detto.» L'uomo ordinò all'infermiere le sacche di sangue. Chiesi anche un collare ortopedico, ma una giovane infermiera rispose che erano usati tutti. «Bene, gli tenga il collo e non lo faccia muovere.» L'uomo, di ritorno, mi porse la torcia, premetti il pulsante, ma non funzionava. La svitai, non c'erano le batterie e ordinai di inserirle. Indossai i guanti, mi servivano le garze pulite. «Mettetegli una maschera d'ossigeno. Vi devo dire tutto io? Stiamo correndo contro il tempo!»
«Dottore, la torcia...»
«Tenga la spugna.» Gliela passai e puntai la luce nelle iridi marroni dell'uomo, avvertendo di nuovo quel fastidioso ronzio che mi fece di colpo serrare gli occhi. «Non reagisce alla luce, è incosciente. Dobbiamo fare una TAC il prima possibile, il trauma cranico potrebbe essere grave e, per favore, mi porti l'ecografo.»
«Sì, dottore.»
«Sono antidolorifici?» chiesi, afferrando una siringa piena da un carrello.
«Sì.»
«Si allontani.» Feci un'iniezione al collo mentre intanto preparavano il macchinario. Afferrai la sonda, gli feci alzare il maglione e la mia vista fece di nuovo i capricci. Gli passai la sonda sull'addome e, come mi aspettavo, c'era presenza massiccia di sangue.
«Signor Raffaele, cosa sta succedendo?! Cosa sta facendo lei?» Un'altra infermiera arrivò e la rassicurai di essere un medico. «Il nostro medico di turno sta arrivando.»
«Così perderemo il paziente.»
«Che sta facenn?!» Proruppe un'altra voce femminile e rimproverò l'uomo di aver permesso una cosa simile.
«Sono un medico.» ripetei per la centesima volta. «Mi dispiace, non c'era tempo da perdere.»
«Non è il medico di turno, si levi!» Mi fece scansare e incenerì con i suoi occhi cristallini e penetranti. «Che abbiamo?»
«Incidente stradale, ha bisogno di una TAC il prima possibile.»
«E lei dice di essere medico, non vede l'emorragia allo stomaco?»
«L'ho vista, ma la ferita alla testa è più importante. Dobbiamo controllare se c'è o meno un'emorragia cerebrale.»
«Non si può fare la Tac, non c'è più tempo. Infermiera, prepari la sala operatoria.»
«La prima cosa da fare è una TAC.»
«Senta, quello che succede in questo ospedale è sotto la mia supervisione. Esca, per favore.»
«Sta commettendo un errore. Può gestire l'emorragia addominale, ma non...»
«Se continua a insistere, la faccio sbattere fuori dalla sicurezza, quindi le consiglio di andarsene. Sloggi!» Si impadronì della sedia a rotelle e lo trascinò via.
«Dottoressa, sta commettendo un errore! Aspetti un attimo!» Urlai, per poi fiondarmi in corridoio.
«La pressione sanguigna si sta abbassando!»
«Le ho detto di fare una TAC.» insistei.
«É troppo rischioso, potrebbe scendere troppo la pressione. Non c'è tempo! Portatelo dentro.» rispose, lasciando mio suocero nelle mani degli infermieri.
«Sì, abbiamo tempo! Il paziente è stabile, dobbiamo fare subito una TAC, è più urgente.»
«Non abbiamo un radiologo!»
Scrollai le spalle. «In che senso? Chiamatelo e fatelo venire.»
«Se c'è n'è uno nel suo ospedale, lo mandi qui da noi, che dice?» spiegò e portai le mani ai fianchi.
«Dannazione! Com'è possibile?»
«A quanto pare, non è l'hotel a cinque stelle super attrezzato in cui lei è abituato a lavorare. È un centro medico! Se vuole scusarmi, devo trovare la fonte dell'emorragia, perché, come ha detto, stiamo perdendo tempo.»
Afferrai la corvina per le spalle. «Abbiamo tempo! Possiamo aspettare ancora un po', l'importante è l'emorragia cerebrale, ok? Si fidi di me. Anche in questo caso, è necessaria una Tac, la farò io stesso, non importa.»
«Ora è anche un radiologo?» chiese, irrisoria. «Mi dispiace, devo eseguire una laparotomia.»
«Quella può aspettare. È evidente che ha un'emorragia cerebrale, le ripeto che ha bisogno di una TAC. La farei io, ma lei non me lo permette!» borbottai contro la mora, che restò impassibile. «É evidente che non ha esperienza con questo tipo di lesioni.»
«Prima attacca l'ospedale e ora addirittura le mie capacità da medico, se ne vada ORA.» Ordinò facendo per andare in sala operatoria.
«Perderemo il paziente a causa della sua incompetenza!»
Riuscii a proferire, prima di sentirmi troppo indebolito e tutto si fece oscuro all'improvviso.
Alessia
Tommy aveva chiamato il professore Gentile per avere delle notizie e si era scoperto che quello nel video non era mio cognato, ma un manichino.
Cose da pazzi.
Mi recai nella stanza di papà per visitarlo e trovai un letto vuoto, ma al suo posto c'era una persona, anzi l'ultima che avrei voluto vedere.
«Perchè non mi sorprende?» le dissi. «Anche se ti cacciano finisci sempre per tornare con la coda fra le gambe, mamma.»
«Devo parlare con tuo padre.»
«Allora non parlare con me, non ho niente da dirti.»
«Adesso parli proprio come quella sciagurata di Federica.» mi schernì. «Dove si è cacciato tuo padre? È da mezz'ora che lo aspetto.»
Tirai fuori il cellulare dalla tasca. Mi stava snervando. «Ascolta, oggi non è proprio giornata, vattene, conosci l'uscita.»
«Non me ne vado, finché non parlo con tuo padre.»
«Ti butta fuori dalla porta e tu cerchi di entrare dalla finestra. Ti sei dimenticata che l'hai abbandonato qua?»
«Sono affari miei!»
«Oh, ma figurati, non mi importa un cavolo.» Feci spallucce cercando il contatto sul cellulare. «Vediamo se vuole vederti.»
«Certo! Non è un traditore come te!» La guardai, beffarda. Forse avrebbe dovuto vedersi allo specchio e giudicare le sue azioni dell'ultimo periodo. Il telefono continuò a squillare a vuoto e mia madre diede la colpa a me. Quando l'infermiera Emanuela entrò, le chiesi dove fosse andato e mi rispose che era uscito un'ora fa. «Di cosa parli? Non è tornato?» Mia madre continuò ad inveire. «Ti stai zitta un po'?»
«Non era nel suo letto e pensavo fosse in bagno, poi sono andata al pronto soccorso e me ne sono dimenticata.»
«Cosa? Mio padre è stato via per un'ora e me lo dici solo adesso?»
«Dottoressa Andreani, ero occupata e l'ho dimenticato.»
«Dov'è tuo padre? Avreste dovuto occuparvi di lui.» La fissai in cagnesco e ripresi a contattarlo. «Non guardarmi così! Se lui è sparito, è solo colpa tua.»
«Fammi il piacere di starti zitta.»
«No! Non starò zitta! Dov'è quell'indisponente di Federica? È lei il capo qui! Dovrà prendersi le sue responsabilità.» Sbraitò e uscii, ma mi venne dietro.
Mentre informavo il poliziotto della sparizione di papà, mia sorella stava risalendo le scale a capo chino e mani nelle tasche. «Fragolina!» Si fermò e mi avvicinai. «Che succede? Si sa altro?»
Scosse il capo. «No, lo stanno cercando.»
Appoggiai la mano sul suo braccio. «Lo troveranno sano e salvo.» Abbassò lo sguardo e annuì. «So che non è il momento migliore però...»
«Però... Cosa c'è?»
«Non riesco più a trovare papà, non risponde al cellulare.»
«Non conosci papà, Ale? È da qualche parte ad aspettare che passi questa tempesta, è tipico della sua indole.»
«Tu dici?»
«Si farà vivo quando le acque si calmeranno.»
«Sì, ma non credo che voglia lasciarti sola in un momento del genere.» le feci notare. Ed ero certa che non sarebbe scappato.
«Mi scusi.» Intervenne l'ispettore. «C'è qualcosa che la insospettisce?»
«Non lo so... è strano che se ne vada in giro mentre è ricoverato in ospedale con quelle ferite.»
«É meglio essere prudenti, faremo delle ricerche.»
Mi chiese di dare un'occhiata ai nastri delle telecamere di sicurezza e gli mostrai la strada, cingendo la schiena di mia sorella con un braccio.
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