Capitolo 21.1 - Nessuno può amarmi come te

Federica

So che fa male sentirlo, ogni volta. Ma lo dirò lo stesso. L'essere umano non è immortale, né invincibile o inattaccabile. Tutti noi moriremo un giorno, solo che non sappiamo come e quando.

Lo sapremo quando arriverà quel momento...

Man mano che correvo per la strada, nel bel mezzo del parco, vidi in lontananza lo specchio d'acqua e cercai di accelerare.

Ma ci sono decisioni che possiamo prendere mentre siamo in vita...

Possiamo essere persone migliori.

Più forti.

Più compassionevoli.

Più gentili e più altruisti.

Stavo per lanciare la borsa e farla sprofondare nell'acqua, mancava poco per portare a termine quella missione e mettere tutti al riparo.

Quando, qualcuno mi bloccò il braccio e mi voltai.

«Mi sono sbagliato! Il mio errore è stato non sbarazzarmi di te.»

«La lasci!» Gridai, strattonando forzatamente, per fargli mollare la presa sull'oggetto.

«Mia figlia è morta per colpa tua!» Con un rapido gesto, lo sbilanciai e feci cadere, ma facendo ciò la borsa tornò in suo possesso.

Chi era lui per decidere del destino di tutte queste persone? Chi era lui per voler condannare un'intera città?

«La lasci! La lasci! Lei è pazzo? La lasci!»

«Mia figlia è morta a causa sua.» Il nostro litigio che stava culminando velocemente fece accorrere altre persone. Mi allontanarono da quel maniaco, prendendomi per le braccia.

Non capivano affatto che presto si sarebbe scatenato l'inferno, se non mi fossi disfatta della borsa.

«Signorina, cosa sta facendo?»

Mi trascinarono lontano, nonostante mi stessi opponendo.

«Aspettate un attimo! Per favore, ascoltatemi!»

«Se ne pentirà!»

«Andate via da lì, è pericoloso!» Nell'esatto momento, la borsa precipitò a terra e il ticchettio dei secondi divenne più ravvicinato, il tempo stava per scadere.

A un tratto, esplose con tutta la sua potenza proprio davanti a me, vidi solo una cappa di fumo offuscare l'intera scena e pezzi di terreno schizzare in aria, mischiato a urla di terrore. Quando riaprii gli occhi, ero distesa a terra, immobile, e un fischio assordante nelle orecchie. C'era qualche banco di nebbia, oltre alla puzza di bruciato. Decisi di tirarmi su, adagio. Quell'uomo era rivolto nell'erba e girandomi notai persone ferite. Mi rimisi in piedi e tentai di camminare, anche se barcollavo ad ogni passo. Mi guardai attorno. Udii dei lamenti e corsi in quella direzione, accovacciandomi accanto ad un uomo. «Ok, si calmi, si calmi. Chiamate un'ambulanza! Mi serve una cintura.»

«La gamba, la gamba... l'ho persa.»

«No, non è nulla di grave, signore.» Un ragazzo si tolse la cintura dai pantaloni e me la porse. Gliela misi al livello del braccio per bloccare il sanguinamento. «Resisterà finché non la porteremo in ospedale.» Gemette di più. «Non è niente. La porterò presto all'ospedale, ok? Non è niente, si calmi.» Mi sollevai. Molte persone avevano bisogno di andare in ospedale.

«Aiuto! Una bambina sta molto male!»

Mi rialzai, vedendo una donna giungere nella mia direzione, palesemente agitata.

«Mantenga la calma. Mi dica dov'è. Mi porti da lei.» Attraversammo svariati feriti, per fortuna non tutti erano gravi, alcuni avevano ferite superficiali. La bambina non era distante dal luogo in cui era esploso l'ordigno. Sembrava aver perso i sensi e quando mi abbassai per controllare, realizzai... con il cuore che batteva a mille, l'amara certezza.

«No, santo cielo!» Mi inginocchiai e tuffai le mani nei capelli. Mia nipote giaceva nel prato, la gamba le sanguinava, eppure le avevo chiesto di non muoversi fino al mio ritorno. Non mi aveva ascoltato. Percepii le lacrime salire agli occhi e premetti al lato del collo per sentire le pulsazioni. Niente. Non c'era polso. Tentai di schiacciare l'orecchio sul petto.
«No, devi resistere. Non lasciarti andare, piccola.» Iniziai il massaggio cardiaco. «Non puoi!» La mia voce si spezzò in un sibilo e continuai a spingere.

Uno, due, tre... svariate volte.

Giovanni

Mentre il dottor Gentile dava ordini all'équipe, avvertendo che dovevamo prepararci al peggio, cercai invano di tenere i nervi saldi e controllai l'ora. Wax tentò in tutti i modi di convincere Angelina a tornare a casa, ma quest'ultima era testarda, non voleva andarsene senza avere prima notizie di Federica. Eravamo tutti sul filo di un rasoio. L'ultima volta che avevo parlato con Federica era stato non più tardi di cinque minuti fa.

«Angelì, è un pronto soccorso, non una sala d'attesa. Lo vuoi capire o no?»

«Angelina, Wax ha ragione.» Intervenni, facendo girare la castana. «Stanno per arrivare i feriti, non puoi stare qui. Vai a casa.» Alessia si avvicinò per cingerle le spalle. «Wax, figliolo, vai in camera e riposati.»

«Dottore, non mi chieda di andarmene a riposare in una situazione simile.»

Annuii. «Va bene. Ma non sforzarti troppo, ok?»

«Sì, dottore, ho capito.»

«Dai, Nina.» Il rosso le scoccò un bacio sulla guancia e quando se ne fu andata, arrivò la prima ambulanza. Esalai un sospiro, quando non la vidi sulla barella, ma un uomo. Aveva avuto un arresto cardiaco e, per ben dodici minuti, gli avevano fatto l'RCP. Chiesi a Gianmarco di darmi uno stetoscopio. Controllai il respiro. Le condizioni erano critiche e non c'era riflesso nelle pupille. Andava operato. Lasciai il paziente nelle mani del collega e un'altra ambulanza seguì. Anche in questa non c'era.

Quando il paramedico, parlò di una dottoressa intervenuta sul posto, gli chiesi subito.

«E dov'è?»

«Non lo so.»

Tommy lo visitò, poi lo fece trasportare all'interno per occuparsi dei tagli e delle ustioni. Infine, un'altra ambulanza, stavolta doveva esserci lei.

Io e Alessia aspettammo entrambi. La rossa andò ad aprire lo sportello e la vidi.

Era viva, per fortuna...

Non sembrava ferita.

«Fragolina!»

Sospirai. «Menomale.»

«Ho bisogno urgentemente di sangue zero negativo!»

Alessia restò sgomenta. «Oddio! Che cos'è successo alla mia bambina?!» Balzò sopra. La macchina cardiaca trillava incessantemente.


«Fede, stai bene?»

«Sì, ma dobbiamo salvarla!»

«Non ti preoccupare, la salveremo. Portate la paziente in pronto soccorso e preparate sangue zero negativo.»

«Posso darglielo io!» Annunciò Alessia, a quel punto, scendendo giù. Trasportammo la bambina al pronto soccorso, mentre tutti gli altri erano già alle prese con altri casi. Mi passarono dei guanti e controllai dai monitor i parametri. «Federica...»

La ragazza non smetteva di fare il massaggio cardiaco, anche se le regole ci vietavano di occuparci dei parenti stretti. Era comunque sua nipote e si notava quanto fosse disperata.


«Ce ne occupiamo noi.»

«Si salverà. Non può... morire. Alessia non me lo perdonerebbe. Ho promesso che mi sarei presa cura di lei. Perché?!»

Stava divagando... aveva la testa totalmente nel pallone.

«Non morirà, però lascia farlo a noi. Portatemi il defibrillatore.»

«É piccola, non lo merita. Non deve pagare per un errore mio. Non può... non deve morire.»

«Fede... Dai, ci penso io.» Si bloccò per guardarmi con gli occhi intrisi di lacrime, e staccò lentamente le mani, facendo un passo indietro quando caricai le piastre. «Allontanatevi. Forza!» Contai fino a tre e diedi una scarica. Mi girai per controllare l'andamento. «Sempre uguale. Proviamo un'altra volta. Saliamo a 150.» Era troppo piccola per infliggere una scarica potente, ma nella peggiore delle ipotesi, bisognava caricare al massimo. Un'altra scarica. Per fortuna, il ritmo riprese senza problemi. Federica sospirò, sollevata. Ma non era fuori pericolo, dovevamo fare un intervento. Ordinai all'infermiera di portare i set chirurgici, le sacche di sangue e chiamare l'anestesista.

Circondai le spalle di Federica. Svevi entrò nel pronto soccorso con un diavolo per capello.

«Sapete se è qui il pazzo che ha piazzato la bomba?!»

«No, dottore, c'è stata una sola vittima nell'esplosione. Credono fosse lui.» spiegò l'infermiera. Tenni d'occhio la mia ragazza, ma lei abbassò lo sguardo contro il pavimento.

Mentre stavamo intervenendo, spostai gli occhi su Federica, notando quanto fosse tesa e si reggesse a malapena sulle gambe. «Bisturi...» chiesi poi, concentrandomi sul lavoro.

«Polso insolitamente rapido, pressione a settanta.»

«Non c'è circolazione. Possibile amputazione.» Dichiarò Svevi.

«Che cosa?! No, per favore.» Intervenne Federica, alzando la voce. «Non amputate la gamba! É troppo piccola. Ci dev'essere un altro modo. Provateci.»

Svevi, a quel punto, le rivolse un cenno affermativo.

«Metterò un bypass nell'arteria. Forse possiamo alimentarla.»

«Fede?» la chiamai, notando lo sguardo vacuo. Le lacrime scorrevano sul viso. «Va tutto bene?»

Non mi rispose, continuò a seguire i movimenti, in disparte.

«Situazione stabile, 97.»

«Si è salvata, non dovrà praticare l'amputazione... Vero?» L'uomo annuì e le fece tirare un profondo respiro. «Grazie...»

Quando mi girai verso di lei, notai i suoi occhi marroni fissare un punto invisibile e poi crollò a terra, perdendo i sensi.

«Federica! Cavolo...»
Lasciai un momento la paziente e mi fiondai al suo fianco, seguito a ruota dal dottor Gentile e altri. Le tememmo sollevato il capo e le afferrai delicatamente la faccia.

Dopo quello che era successo, tutte le preoccupazioni che aveva incamerato, per tutti i feriti e sua nipote e l'esplosione, avevano causato quel crollo fisico.


Angelina

«Come si permettono? Mi hanno buttato fuori come se fossi una bambina. Avrei dovuto studiare medicina, adesso sarei un chirurgo rinomato e avrei il rispetto che mi merito!» borbottai a braccia conserte, camminando sul marciapiede diretta verso la Noia. «Mi hanno rimproverato come se fossero i miei... genitori.»

«Ninni!» Esclamò una voce.

«Dimmi, papà?!» Sgranai gli occhi. Un momento. Non me l'ero immaginata. «Eh? Papà?» Mi bloccai e voltai. L'uomo accelerò il passo e mi raggiunse. «Cosa... Cosa ci fai qui?»

«Vieni con me. Sono venuto a prenderti.»

«A prendermi? Perché?»

«Verrai a casa. Adesso vivrai a Bassiano, dove posso vederti.»

«Bassiano?» Domandai con le sopracciglia aggrottate. «Ma... perché?»

«Come "perché" Angelina? Pensavi di sposarti senza dirmelo? Con chi? Se a tua madre non fosse sfuggito... non l'avrei mai saputo.»

«Io... stavo per chiamarti e dirtelo, papi. Te lo giuro.»

In fondo, avevamo ufficializzato il nostro rapporto da poco, e non c'era stato nemmeno il tempo di metabolizzare, figuriamoci dirlo alla mia famiglia.

«Quando? Dopo il matrimonio?» Alzai gli occhi al cielo e annuii distratta. «Abbiamo molte cose da chiarire, cammina.» Mi irrigidii e fianco a fianco riprendemmo il tragitto.

«Papà, sono grande e non vado da nessuna parte. Cosa faccio lì a Bassiano? Ora sono diventata una donna di città e ho anche una mia attività!»

Ridacchiò, seduto al tavolo. «Ma cosa dici? Ho sentito abbastanza, stasera vieni a casa con me e non fare storie. Puoi appendere il cartello "vendesi".» Mi indicò la finestra con l'indice.

«Ma perché?»

Perché voleva rovinare i miei piani? Ero venuta a Roma per essere indipendente e costruire il mio futuro. Avevo affittato un appartamento in comune con Federica e ormai quella vita di campagna non mi avrebbe portato a nessuno sbocco lavorativo.

«Non è così che funziona. Chi vuole sposarti deve chiederlo prima a noi che siamo i tuoi genitori, non fare quello che gli dice la testa. É chiaro?»

Sbuffai. «Papà, ma siamo nel 2022! Non nel medioevo!»

«Angelì!» Il rosso entrò di soppiatto e stagliò vicino al tavolo, incavolato di brutto, e mi alzai. «Senti, spero che sia per qualcosa di molto, molto importante. Hai visto anche tu che l'ospedale sembrava un campo di battaglia. Perché mi hai tempestato di chiamate?»

«Ok... ma Fede sta bene?»

«Sì, sì, calmati. Il dottor Giovanni l'ha portata a casa.»

«Bene...»

Mio padre si alzò a sua volta, gli mise la mano sulla spalla e si girò a guardarlo, stranito. «Eccolo il nostro signorino... finalmente si degna di farsi vedere. Vieni con me, ragazzo. Abbiamo molto di cui parlare. Che problemi hai?»

«Problemi? Cosa sta dicendo?» Increpando un sorriso divertito, mi guardò di sfuggita. «Angelina, chi è quest'uomo?»

«Il mio... mio padre.» Farfugliai.

Si girò. «Cosa?» Tornò a fissare mio padre, che lo stava squadrando con i suoi grandi occhi. «Tuo padre?»

«Già, è venuto per riportarmi a Bassiano stasera...» La perplessità si fece spazio sulla faccia di Matteo, dopodiché lo fissò perdendo l'aria da sbruffone. Resosi conto della gaffe, abbassò lo sguardo ai suoi piedi e deglutì un fiotto di saliva.

[...]

Si accomodò di fronte a mio padre, dall'altro lato del tavolo, e gli raccontò il delicato intervento al cervello che aveva subìto.
Mio padre gli augurò una pronta guarigione e poi ribadì.

«Non pensare che siamo persone insensibili che non capiscono l'amore. Anch'io ho perso la testa per la madre di Angelina da giovane, ma abbiamo fatto le cose per bene, senza fretta.»

«Ma noi...»

«Non interrompermi, ragazzo, e ascolta quando ti parlo. Pensi che sia un gioco?» Inarcai un sopracciglio. «Mettere un anello senza consultare prima i genitori... ti sembra un gioco? Siete solo dei ragazzini.»

«Certo che no.» Obiettai.

«Non ti immischiare in questa storia, Ninni.»

«Ha ragione, signor Mango.»

«So che ho ragione, quindi devi fare le cose per bene. Per prima cosa, dovete parlare con i genitori e chiedere il consenso.» Roteai gli occhi, esasperata. «Mia figlia non è sola. Vogliamo essere sicuri che ti prenderai cura di lei.»

Lasciai vagare lo sguardo fra i due, aspettando la risposta del mio fidanzato, che non tardò ad arrivare.

«Sissignore!»

«Bene, con te ho finito. Ora chiama tuo padre, fammi parlare con lui.»

Wax incrociò il mio sguardo, io non seppi come reagire e restai sulla sedia.

«Come prego?»

«Sei sordo o cosa, figliolo? Ho detto "fammi parlare con tuo padre". Se Angelina vuole rimanere qui e sposarti, devo prima parlare con tuo padre e incontrarlo di persona. Voglio sapere chi è... cosa fa... Andiamo, figliolo. Che aspetti? Chiamalo.»

Wax, in panico, iniziò a grattarsi distrattamente la cicatrice. Lo faceva quando era nervoso e non sapeva uscire dalle situazioni. Il fatto che fosse orfano, che non avesse né padre, né madre, né un parente, non era un punto a nostro vantaggio. Deglutii un groppo pesante in gola e mio padre insistè con quella storia.
Wax con la lentezza di un bradipo prese il cellulare e il cuore mi balzò nel petto.

Che cosa aveva intenzione di fare? Chi voleva chiamare...


Non sarebbe finita bene. Mio padre non avrebbe mai acconsentito al nostro matrimonio. Era una sfiga dietro l'altra. Prima la sua indecisione, poi appena succedeva, ecco che appariva mio padre, pronto a metterci i bastoni fra le ruote.



Giovanni

Era stata una giornata decisamente stressante e Federica stava dormendo beatamente sul sedile. Mi concessi di guardarla per un secondo, vista da quella prospettiva, sembrava dolce e fragile, ma era... un autentico uragano, pronto a spazzare via la noia dalla mia vita.

Iniziò poi a bofonchiare sottovoce nel sonno, a fare discorsi illogici.

«Sono solo 23 ore... No, non... prendi la spugna. Sì... tampona, attento...»

«Sei una pazza, signorina Andreani. Una pazza... Be', neanch'io sono tanto normale. A quanto pare, siamo anime gemelle. Ma mi piace... è così che mi sono innamorato di te.» Il soliloquio terminò quando squillò il cellulare. Vidi il mittente. «Dimmi, Wax.»


«Buonasera... Cioè... papà. Papà

«Cosa stai dicendo?»

«Papà, c'è qualcuno che vuole parlarti

«Chi vuole parlare con me?»

Non stavo capendo...

«Buonasera, signore.» Una voce gutturale e profonda si fece largo nella cornetta. «Sono il preside Marco Mango, il padre di Angelina. Ho bisogno di parlarle con urgenza.»

«Signor Marco, buonasera. Certo. Di cosa si tratta?»

«Di cosa si tratta? Di quello che fanno i nostri figli! Non credo sia giusto che abbiano deciso di sposarsi senza chiedercelo

«D'accordo. Naturalmente, non sembra giusto nemmeno a me, signor Marco. Facciamoci una chiacchierata al più presto.»

«Vedo che è d'accordo con me. Domani va bene per lei? Possiamo incontrarci alla caffetteria di mia figlia

«Fantastico. Ci vediamo domani alla caffetteria di sua figlia, verranno anche i bambini.»

Mi stavo comportando da padre modello e mi stupivo di quanto fossi bravo. Ci salutammo a vicenda e agganciò.

«Bambini...» Biascicò lei. «Di quali bambini stai parlando?»

«Oh, la mia principessa guerriera si è risvegliata.»

«Non prendermi in giro, Gio. Di quali bambini stavi parlando?»

«Abbiamo avuto un bambino... mentre tu dormivi.» Annunciai con espressione seria.

«Di cosa stai parlando, cretino?»

«Cretino io?» Sghignazzai e la vidi alzare gli occhi al cielo. «Ok... a quanto pare, d'ora in poi, avremo un figlio adorabile. Scusa se non te l'ho detto. Ha circa venti anni, è alto, bello... e fa il medico. E il suo nome è Matteo.»

«Non ho capito nulla.»

«Matteo ha qualcosa in mente. Ho appena parlato al telefono con il padre di Angelina.»

«Lo zio Marco è in città?»

«Sì, Wax gli ha detto che sono suo padre. Abbiamo parlato ma non mi ha riconosciuto.»

«In quale casino è finito quel ragazzino?» Sbuffò Federica.

«Non lo so, ma lo scopriremo. Comunque, non manca molto.»

«Dove mi stai portando? Devo preoccuparmi?»

Le lanciai un'occhiata di sfuggita. «Stiamo scappando dalla città. Finalmente, ti ho rapito.»

«Wow... tempismo perfetto!»

«Vedi, penso che il momento migliore sia quando ne hai voglia, ovviamente. Tieni a mente la frase, è bella.» Federica trattenne un sorriso e fissò avanti. «Guarda, non riesci nemmeno ad alzarti per la stanchezza, sei svenuta in pronto soccorso. Ti sei addormentata in macchina.» Mi guardò. «Stai delirando da mezz'ora... ed è il momento perfetto. Inoltre, l'ospedale sta andando bene, tua nipote si riprenderà, è tutto sotto controllo. Non credo che ci saranno altri disastri. O almeno, spero.» Ci scambiammo un'occhiata.

«Non so se Alessia la pensi come te e se mi perdonerà.»

«Non è colpa tua. Alessia è stata preoccupata per te tutto il tempo e la piccola è fuori pericolo. Quindi, approfittiamo di questa splendida serata, che dici?»

«Mhm, mhm... qual è il piano, dottore?»

Feci spallucce e si rimise di nuovo sdraiata per schiacciare un altro pisolino.

[...]

Appena arrivammo a casa, presi l'ombrello per ripararci dalla pioggia torrenziale che stava precipitando giù. Ci stringemmo l'uno all'altra.

«Questa situazione comincia a piacermi...» confessai, tra uno scalino e l'altro.

Rise. «Si vede.»

«Siamo come una famiglia. Che dici? Vogliamo anticipare la data del matrimonio? Dico di farlo domani.»

Giungendo sotto al portico, chiusi e scrollai l'ombrello zuppo.

«Eh, no...»

Suonò ironica e posai l'ombrello nel portaombrelli.

«Perchè no? Abbiamo gli anelli e il vestito da sposa... siamo a posto, cosa ci manca?» Abbozzò un sorriso e abbassò lo sguardo, inumidendosi le labbra. Tirai un sospiro. Era un miracolo che fosse qui. «Fede...» Portai le mani ai lati del viso e lisciai le ciocche scure con le dita. «Sono morto di paura. Quell'attesa in ospedale, senza avere notizie, mi stava devastando. Per un momento... ho immaginato una vita senza di te.» Non aveva smesso di fissarmi con i suoi occhioni da cerbiatta. «Solo a pensarci mi fa male il cuore.»

Anche lei portò le mani al mio volto, mi massaggiò la guancia con il pollice. «Sarò sempre al tuo fianco, okay?»

«Sarai sempre al mio fianco, sì. Mi sveglierò... e la prima cosa che vedrò ogni mattino sarà il tuo bellissimo viso e il tuo sorriso. Sempre insieme. Noi due.» La ragazza che aveva popolato per undici anni i miei sogni era lì e non intendevo rinunciare a lei. «Ti amo moltissimo, Federica.» Sorrise, quel sorriso luminoso. «Sono un uomo fortunato...» Le baciai il palmo della mano e guardai attorno. «Ma non prendiamo altro freddo, no?» La lasciai andare per scavare la chiave nel cappotto e spalancai la porta. «Prima le signorine...» La lasciai passare e mi tastai le tasche, scoprendo che non avevo il cellulare. «Lo avrò dimenticato in macchina. Tu entra e io arrivo subito, ok?»

Richiusi il portone e ripresi l'ombrello per non bagnarmi.

[...]

Accidenti... che sbadato! Mi accorsi di aver avuto il cellulare nella tasca della giacca, forse mi ero emozionato troppo. Rientrai in casa, dirigendomi nell'open space, che divideva il salotto e la cucina. Guardai la tavola sbalordito e poi la mia fidanzata: «Che significa questo?»

«Di solito, viene chiamata "sorpresa". Ti piace?»

Non poteva essere possibile...

«Una sorpresa. Quando l'hai preparata?»

«L'ho fatto quando non c'eri.» Scossi leggermente il capo. «Bello, no?»

Sorrisi, riservando un'altra occhiata alla tavola imbandita. «Certo, bello. Hai preparato i miei piatti preferiti. Come facevi a saperlo?»

«Diciamo... ho tirato ad indovinare.» Quasi non riuscì a guardarmi in faccia e si girò una ciocca dietro l'orecchio. «Non ti sarebbe bastato un uovo?»

«Un uovo? A pensarci... Torno sempre a casa molto stanco e affamato dopo il lavoro. Solo le uova mi farebbero venire un po' di fame.»

Inarcò il sopracciglio. «Perciò ti saresti lamentato?»

«Come posso lamentarmi di te che mi coccoli e mi cucini queste cose buone?» Le presi il viso, avvicinando la bocca alla sua, a qualche millimetro di distanza. «Il solo vederti a tavola con me mi basta. Non mi importa altro.»

Federica distolse lo sguardo e lo feci anch'io. «Senti, Gio...» Richiamò la mia attenzione. «Non l'ho preparato io.»

Circondai il suo corpo con le braccia, spingendolo contro il mio. «L'ascensore... Lo so. Non l'hai fatto tu... perché non è affatto nel tuo stile. Be', non è il nostro stile, ma comunque è stata una sorpresa di compleanno incredibile. Mi sono divertito e non ho detto nulla per non rovinare l'atmosfera. Dai, godiamoci questo cibo, va bene? Vado a prendere qualcosa da bere per festeggiare.»

Federica annuì e le scoccai un bacio a stampo, prima di superarla e rifugiarmi in un'altra stanza, l'ex studio di mio padre. Mi avvicinai alla libreria e presi il telefono. Quella storia doveva metterla nel dimenticatoio al più presto. La chiamai, controllando di tanto in tanto la porta.

«Ehi, Giovanni...» rispose, allegra.

«Cosa pensi di fare?»

«Volevo ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me

«Ringraziarti? Quale ringraziamento?! Che stai dicendo? Mi prendi in giro?»

«Ho fatto qualcosa di sbagliato...»

«Certo!» la interruppi bruscamente. «Come ti è venuto in mente di entrare in casa mia senza permesso? Chi ti ha dato il diritto?» La voce di Federica risuonò dall'altra stanza, mi chiese se stessi venendo e mi allontanai dal cellulare per un attimo. «Sto arrivando, more. Sto arrivando.»

Dovevo risolvere quella cosa.

«Ok, hai ragione, scusa. Posso venire da te e parliamo. Sono qui fuori

Strabuzzai gli occhi. «Sei qui?»

«Sì, posso venire. Parliamo, ok

«Stai ferma. Ferma. Resta lì, arrivo subito.»

Agganciai la chiamata.
Quella donna si era messa in testa di tormentarmi, ma mi ero già rotto.

Tornai in sala dalla mia fidanzata. Mi fissò svariati secondi, vedendo che ero a mani vuote.

«Non dovevamo festeggiare?»

«Non c'è più da bere, compro qualcosa e torno subito.»

«Non preoccuparti. Vieni, siediti.» Mi prese la mano e tirò.

«More.» La bloccai, dandole un altro bacio. «Saranno cinque minuti.»

Mi affrettai ad uscire. Una volta, in strada, guardai i dintorni e qualcuno mi indicò la posizione lampeggiando con i fari. Attraversai la strada e mi recai verso la vettura nera. Scese e mi avvicinai, così si riparò sotto il mio ombrello.

«Meraviglioso, vero? Proprio come ai vecchi tempi e la pioggia è così romantica.»

«Valentina, i vecchi tempi sono finiti. Senti, questa è l'ultima volta che te lo dico.»

«Ok, non esagerare, Gio. Era una cena per il tuo compleanno...»

«Cosa vuol dire "non esagerare?"» Il mio sguardo si fece truce. «Con quale diritto ti sei intrufolata in casa mia, eh? La donna che amo mi ha appena mentito, guardandomi negli occhi. Mi ha mentito per colpa tua.»

«Davvero? Ha mentito? Non ci credo. Farà di tutto per tenerti al suo fianco. Dovresti interrompere questa relazione.»

Ridussi gli occhi. «Che razza di persona sei, Valentina? Cosa stai cercando di fare? Ti stai prendendo gioco di me?»

«Sto scherzando.»

«Scherzando?»

«Ok, mi dispiace... Giuro che mi dispiace tanto, davvero tanto. Non avrei mai immaginato che una semplice cena ti avrebbe fatto sentire così a disagio. Mi dispiace davvero.»

«Per favore, non fare nulla per scusarti.»

«Giovanni!» Feci per andare, ma mi trattenne saldamente per un braccio, ma staccai le sue mani.

«Valentina, stammi lontana. Stai lontana da noi e dalle nostre vite.» Dopo aver detto quello, non avevo nulla da aggiungere e mi allontanai, dandole le spalle.

Se pensava che facendo ciò... mi avrebbe separato dalla donna che amavo, aveva fatto male i conti. Non gliel'avrei permesso.






Federica

Che stupida ero stata...

Avevo mentito spudoratamente a Giovanni e a stento lo avevo potuto guardare negli occhi. Come avevo fatto a cadere così in basso? E a fare certi giochetti?!

Non ero così. Non ero questo tipo di persona...

Quando avevo letto quel bigliettino, quelle parole che gli aveva rivolto erano state come un pugno allo stomaco.


"Tutto questo è per te, Giovanni... come ai vecchi tempi. So anche anche tu non l'hai dimenticato. Buon appetito... La tua Val."

Ero letteralmente andata su tutte le furie e mi ero affrettata a nasconderlo dietro alla schiena, dicendo che gli avevo preparato quella cena per fargli una sorpresa. Ne stavo appunto discutendo con Ale, rischiando di sprofondare per la vergogna.

«Ah... Ale, vorrei avergli detto la verità. Perché non l'ho fatto? Cos'ho che non va?»

«Non essere sciocca, fragolina. Ascoltami, non fare cavolate

L'avevo già fatta.

«Se non lo faccio io, quella donna prima o poi glielo dirà. È meglio che lo sappia da me.»

«Ok, ma non stasera. Perché vuoi dare una soddisfazione a quella donna

«Non voglio darle una soddisfazione, Ale. Ma non hai visto la cena che ha preparato. Ci sono piatti a perdita d'occhio... e alcuni manco li conosco.»

«Te l'avevo detto dal primo giorno che questa donna era pericolosa e tramava qualcosa

Sbuffai. «Brava, avevi ragione.» Dalla parte opposta non udii alcun rumore, forse era caduta la linea. «Pronto... Ci sei, Ale?»

«Sì... cosa stavi dicendo

«Me ne vado. Non posso rimanere qui, sono così frustrata. Non posso fare queste cose. Non sono quel tipo di persona.»

«Non essere cretina e non muoverti da lì. Siediti, lui tornerà presto

«Lo chiamerò per strada. Prenderò un taxi e andrò a casa.» Ormai mi ero decisa, restare lì e non poterlo guardare negli occhi era peggio e sbattei il telefono in faccia ad Alessia, mandando al diavolo i suoi tentativi.

Uscii di casa, non vedendo nessuno nei paraggi e non c'era nemmeno un taxi in questa zona. Decisi di farmela a piedi, quando un fragore mi fece fermare di botto. Qualcuno stava implorando aiuto e cercai di capire da dove provenisse la voce. Mi intrufolai all'interno di un fabbricato, seguendo la voce. Percorsi il corridoio e mi fermai in cima alle scale, gettando un'occhiata sotto dove un uomo era a terra, con un lampadario che gli stava trafiggendo il torace. Implorava aiuto. «S-Sono qui.»

Mi fiondai giù dalle scale, gettai a terra il cappotto e la borsa e mi accovacciai accanto a lui.

«Sono qui, non si preoccupi.»

«Era per mia moglie... voleva un lampadario rosso, l'ho comprato e la stavo... montando.»

«Stia tranquillo...»

«Così poteva vederlo quando arrivava. Domani ci saremmo trasferiti in... questa casa.»

«Sono un medico. La aiuterò, ok? Mantenga la calma.»

Era ricoperto di sangue e i frammenti del vetro erano sparsi sul pavimento. Gemette. «Com'è caduto? Fa male...»

«Si calmi...»

«Mi fa male...»

Si strappò via dal collo un pezzo di vetro e sgorgò sangue.

«No! No!» Tamponai con le mani, cercando di far pressione per bloccare l'emorragia. «Ok... si calmi.»

La borsa era lontana, ma non irraggiungibile, dovevo cercare di arrivarci con i piedi.

«Dottoressa... sto per morire?»

«Non le succederà nulla, si calmi. Sono qui con lei. Okay?» Cercai di avvicinare la punta, ma invano. «Non riesco a raggiungerla. Elia... Elia, vero? Senta, sto facendo pressione sulla ferita al collo, quindi ho bisogno che prenda la borsa. Cercherò di spostarla al suo lato destro, ok? Ho bisogno che prenda il cellulare.»

Era l'unica opzione, non potevo muovermi da quella posizione altrimenti si sarebbe dissanguato.

«O... Ok...» Farfugliò. «Dottoressa... comincio a sentirmi strano. Non sento più nulla. È un male, giusto?»

«Non le succederà nulla, ok? Non si preoccupi. Prenderà il cellulare e chiamerà l'ambulanza.» Riuscii ad afferrare la borsa col piede e buttarla nell'esatto punto. Non restava che fare la sua parte. «Non si muova troppo, ok? Senza muoversi, metta la mano dentro la mia borsa.» Digrignò i denti e provò a muoverla.

«No...»

«Andiamo, andiamo.»

«Non posso...»

«Non abbia fretta. Respiri, respiri. Forza, un'altra volta. Forza... Ci siamo quasi.» Avvicinò la mano e sospirai. «Bene, ci siamo quasi. Forza. Continui.»

«Non ce la faccio...»

«Piano, piano.»

Infilò la mano in borsa, tossendo leggermente. Eravamo vicini al nostro obiettivo e lo agguantò.

«Chiami il 118. Forza!»

Il cellulare squillò e gli scivolai. Cercai di togliere la mano, ma il sangue zampillò fuori e dovetti premere. «Cavolo... Apra gli occhi. Apra gli occhi, mi guardi!» Socchiuse le palpebre. «La parte peggiore è finita. Forza, ci siamo quasi. Componga quel numero... Ancora una volta.» Risollevò il cellulare, a fatica e mise in chiamata. Bussò tre volte, prima che un operatore rispondesse. «Sono la dottoressa Federica Andreani, abbiamo bisogno di un'ambulanza. Un uomo ha avuto un incidente domestico, gli è caduto un lampadario addosso. Sta perdendo molto sangue, c'è un taglio nell'arteria. Sto facendo pressione ma non riesco a fermare l'emorragia. Ho bisogno di sangue per una trasfusione.»


«Può darmi l'indirizzo

«L'indirizzo... Elia, Elia, reagisca! Mi guardi. Apra gli occhi.» Lo spronai a reagire e sembrò riprendersi. Si risvegliò, mormorando parole confuse. Tirai un sospiro di sollievo.

«Non sento nulla, dottoressa. È un brutto segno, no? Ho il corpo addormentato.»

«No, non si preoccupi. Non significa nulla. Lo supererà.»

«Non voglio crederlo, ma è come se stessi morendo. Non ho più energie.»

«No, non succederà nulla. Sono un medico, ok? Si fidi di me. Presto l'ambulanza arriverà e la porteremo in ospedale. Starà bene, tranquillo. Non abbia paura, ok?» Iniziò a tremare. «Premendo non funziona, ho bisogno di un tampone o...» Soffiai via qualche ciocca di capelli, cercando qualche oggetto con lo sguardo, poi udii distintamente le sirene. «Sono qui. Sono arrivati. È finita, ok?»







Tommaso

La vidi salire e smisi di prestare attenzione ai messaggi sul cellulare.

«Oh! Dottoressa Alessia Andreani...»

«Oh! Dottor Daliana...» Imitò il mio stesso tono e salì altri scalini, con le mani dietro la schiena. «Cos'è? Ti aggiri qui? Rubi gli sguardi alle ragazze sulle scale?»

Ridacchiai, buttando la testa in avanti per poi appoggiarla contro la parete. «Oh... erano i miei giorni da studenti, sono passati ormai. Vieni qui.»

«Non so, il pavimento dev'essere congelato.» Inarcai il sopracciglio. «Okay...» Cedette e prese posto di fronte a me. «Ehm... Tu perché sei qui?»

«Ti aspettavo...»

«Me?»

Annuii. «Ti sembra strano? Come va la piccola? Sta bene?»

«Ho temuto il peggio ma... si riprenderà. Scusa, perché mi stai aspettando all'angolo delle scale?»

«Per vederti più da vicino.» Confessai con voce roca.

«Non puoi rispondere come un lupo pericoloso che attira cappuccetto rosso in trappola.»

«Oh, scusa...» Alzai le mani in segno di resa. «Ho un'altra domanda. Perché non vuoi prendere l'ascensore?»

La rossiccia distolse lo sguardo. Portò la mano sulla guancia e spinse all'infuori le labbra. «Boh... sono stanca di aspettare.»

«Ah, non puoi rispondere con una delle tue classiche battute.»

«Ok, niente battute. In realtà, ho paura di finire rinchiusa di nuovo. Ho paura di restare sola. Ci provo, ma quando le porte si chiudono, mi inizia a mancare l'aria e vado in tilt. Ho paura... come una bambina.»

«Hai paura. E quando pensi di smettere di aver paura?»

Si limitò a guardarmi negli occhi e sbattere le ciglia. Poi, abbassò lo sguardo e fece spallucce.

La nostra conversazione privata venne interrotta bruscamente dai cellulari. Ci avvisarono di un emergenza in arrivo.

«Cosa ci faceva Fede lì?» Mi chiese, come se sapessi cosa balenasse nel cervello della mia stravagante collega.

«Non ne ho idea, è tua sorella. Dovresti sapere perché appare sempre nei posti più insospettabili.»

«Non lo so.» rispose, scuotendo il capo.

«Non lo sai mai?»

Increspò un sorriso ed ecco che l'ambulanza arrivò a sirene spiegate e le feci segno di fermarsi. Alessia corse a spalancare le porte posteriori. Federica era lì assieme ad un giovane paramedico.

Santo cielo. Sembrava una situazione paradossale...

«Che cos'è successo?» Alessia mi tolse le parole di bocca.

«Uomo, 27 anni, ferite multiple nella zona del petto. GCS a 12, pressione a 90.»

«Com'è successo?» Domandai.

«Ha cercato di rimuovere da solo un pezzo incastrato nell'arteria carotidea.» Spiegò Federica.

«Avete dato degli antidolorifici?»

«5 mg di morfina. E gli ho anche dato un litro di isotonico durante il tragitto, ma ha perso troppo sangue, non servirà.»

«Mettetelo sulla barella.» Ordinai. Lo trasportammo in pronto soccorso.

«Dottoressa Andreani, ecco la sua borsa.»

«Può prendere una spugna?»

«Subito.» Asserì l'infermiera.

«Faccia pressione.» Le ordinò. «Bisogna fare una radiografia al torace.»

«Non è il posto migliore... ma dobbiamo farlo. Alessia, prendi l'attrezzatura. Sbrigati!» Lei annuì e si precipitò fuori. Controllai le pupille dell'uomo con la torcia e gli chiesi come si chiamasse. «Elia... stiamo cercando di aiutarla. Per favore, tenga duro.»

«Saturazione 90. Polso 124.» Informò Federica.

«Elia, riesce muovere le mani?» Si sforzò un po' e mosse le dita. «Bene, andiamo.»

Portarono il macchinario e Federica lo fece avvicinare di più alla barella. Indossammo tutti dei grembiuli di piombo per proteggerci dalle radiazioni.

«Non abbiamo molto tempo, ho bisogno che mi guidi.» Mi rivolsi a Federica. «Attenti al torace.»

«Pronti?»

«So che le fa male, ma cerchi di stare il più fermo possibile. Pronti?»

«Sì, allontanatevi.» Premette un pulsante e il macchinario emise un unico bip. «Puoi avvicinarlo un po' di più al petto?»

«Bene, ci siamo quasi.» Sistemai l'aggeggio per puntarlo meglio.

«Bene, state lontani.» Un altro bip si udì nella sala, segno che la scansione era stata eseguita. Mi spostai vicino a Federica per guardare i risultati. «Variante molto grande di pneumotorace.» Mi indicò con il dito.

«Sì, guarda qui...»

«C'è accumulo di aria e sangue nella cavità polmonare, quindi si deve fare un drenaggio.»

«Me ne occupo io. Toglietemi il grembiule, ragazzi.»

Alessia intanto stava cercando di far rilassare il paziente con tono pacato e convincente.

«Cosa sta succedendo qua?» Esordì Svevi, comparendo sulla scena.

«Un pezzo di vetro incastrato nell'arteria carotidea sinistra. La pressione era bassa, ma ha risposto al sangue e ai liquidi. Ah... c'è anche un pneumotorace nel polmone sinistro.»

«Chi è stato a portare qui questo paziente?» Domandò ai presenti. Lo scrutai di sottecchi.

«L'ho portato io.» Rispose Federica, senza minimamente abbassare la testa, ma anzi dimostrando la sua aria sicura.

«Hai tenuto in vita il paziente e l'hai portato qui... mi congratulo davvero con te, dottoressa.» Fece una faccia perplessa, udendo i "complimenti" dal padre di Maddalena. «Dobbiamo rimuovere il lampadario per capire qual è il problema. Abbiamo una radiografia?»

«Sì, è stato complicato, ma abbiamo fatto la Tac.»

«Ora dobbiamo rimuovere il lampadario senza muoverlo. Poi taglieremo qui e qui.» Indicò i punti sul petto e ordinò di portargli un camice. Io e Federica ci scambiammo un'occhiata, mentre spezzai con i denti l'involucro del cerotto. Tirai un profondo sospiro.

Non so cosa avesse in mente ma, da qualche tempo, quell'uomo era spaventosamente gentile...









Giovanni

Durante il tragitto fino a casa, ricevetti una chiamata da Wax.
Si scusò per avermi infilato in un pasticcio con il padre di Angelina, ma era andato nel panico e aveva pensato a me. Alla fine però era per una buona causa, per la loro felicità, non mi dispiaceva mettere una buona parola con l'ex preside dell'istituto. Gli avrei parlato domani e sistemato le cose, non doveva preoccuparsi. Wax domandò se potessi farlo...
Gli risposi di sì e agganciai.
Stavo per ritornare a casa, dopo essere passato al supermercato a comprare un'ottima bottiglia del miglior spumante. Mi aspettava una dolce serata. Visto che dovevo farmi perdonare per la lunga attesa, decisi di fermarmi da un fioraio e acquistare un bel bouquet. Parlando in termini generali, alle donne piacevano le rose... Federica era fuori del comune.

Non sapevo quali fiori preferiva.

«Vuole delle rose, signore?»

«No, è che Federica non è una persona da "rose", non so neanche se le piacciono i fiori, ma cosa posso fare? Compro delle margherite?» Accarezzai i fiori con le dita.

«Sono crisantemi, sono un po' più grandi».

«Oh, sembra proprio una margherita. Bella. Semplice, ma molto bella. Elegante... ma ribelle.» Il commesso celò un sorriso fra i baffi. «E lei, che suggerisce?»

«Non lo so, ma posso farle un bouquet misto di tutti i fiori.»

«Un bouquet misto di tutti i fiori?» Risi. «Che sto comprando un kebab da portar via?»

Ridacchiò. «No, senza offesa, signore, ma potrebbe telefonare e chiederlo alla sua ragazza.»

«Non posso farlo. Cosa le direi? Che le sto comprando un mazzo di fiori e voglio sapere quali vuole? Non si possono comprare fiori su ordinazioni e poi devo farle una sorpresa.»

«No, vediamo... Potrebbe chiedere che colore vuole e far finta di chiedere su altro.»

«Ah... Ok...» Ci pensai. «Buona idea.» Federica però - come tutte le volte - aveva il telefono irraggiungibile e dovetti assecondare la proposta del commesso, quindi scelsi tutte le varietà disponibili per andare sul sicuro e non sbagliare.

«Quindi l'ha fatta arrabbiare? Deve essere una donna parecchio complicata, ma i fiori sistemeranno tutto.»

«No, non l'ho fatta arrabbiare... ma è una donna complicata.»

«Le farò un bellissimo bouquet.»

Si mise al lavoro e gli chiesi di aggiungere più di qualche rosa rossa. Appena terminò, me lo consegnò e annusai quel delicato profumo. Era quello che avevo chiesto e lo ringraziai.

«Signore, è carico di bouquet e borse, vuole che l'aiuti?»

«Non si preoccupi, vivo a pochi isolati.»

«Niente affatto, inoltre, ora chiudo. Grazie a lei. Posso darle un passaggio con il mio amico?»

«Amico?» Mi voltai a guardare il camioncino giallo parcheggiato lì e rivoltai. «Non si disturbi.»

«Ma che disturbo? Nessun disturbo! Voglio aiutare gli innamorati, è un'opera buona.»

Risi. «Grazie...»

«Voglio che sappia che la signorina è molto fortunata. Lei è un uomo d'altri tempi.»

«Anch'io sono fortunato. Spero che anche lei la pensi come lei.»

«Sono sicuro di sì. Di questi tempi... trovare un amore così puro è decisamente difficile.»

«Sì, ha ragione. Non è stato facile, ma alla fine ci siamo ritrovati. Vede... Federica non è come le altre. È unica. È capace di mettere al tappeto tre uomini in un colpo solo. La mia fidanzata... è una ex pugile... ecco perché è stato così difficile scegliere un fiore.»

«Oh, pugile... è una ragazza tosta. Mi dia cinque minuti e l'accompagno, ok?»

«Davvero... potrei pure tornare a piedi, le ho già dato troppo fastidio.» Ma non mi diede retta e sparì nel negozio.

Sperai che quel carretto mi avrebbe riportato a casa sano e salvo.

Quando entrai dalla porta, le luci erano accese e richiusi il portone. «Cara, sono qui. Scusa il ritardo, ma al negozio all'angolo non ho trovato quello che cercavo. Quindi... mi sono allontanato, ma ho trovato qualcosa di meglio.» Mi recai in cucina per appoggiare le buste sulla penisola e raggiunsi la tavola con il bouquet gigante. Quando me lo tolsi dalla faccia, mi resi conto che non c'era.

«Federica?» La chiamai in lungo e largo, forse era di sopra. «Non mi avrà visto con Valentina prima?» Portai le mani alla testa. «Per favore, non andare via per questo motivo. Fammi spiegare.» La chiamai immediatamente. Dovevo spiegarle tutto quanto. Mi sedetti sul divano.

«Dottor Rinaldi, mi dica. Sono Manuela.»

«Ma... Manuela?» Mi rimisi in piedi. «Manuela, perché hai il suo cellulare? Federica sta lì?»

«Sì, sta visitando

«Com'è arrivata lì

«In ambulanza, con un paziente

«Capisco...» Tirai un sospiro. «Buona notte.»

La salutai, rimettendo il cellulare in tasca e accennai un sorriso, avevo preso un granchio...

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