Capitolo 2.2 - Mi sconvolgi i piani

Di nuovo in ospedale... Sono dovuta ritornare per colpa delle manie di quel dottore, che non avevo ancora conosciuto ma visto le premesse sapevo che era un osso duro. Non avrebbe riposato se non mi avesse rivolto di persone le sue lamentele. Ma non faceva chissà quanta differenza, ero abituata. Non era la prima volta che rimanevo barricata qui affrontando turni lunghi più di quarantotto ore. Chi aveva la coda di paglia era Daliana... Se almeno avesse tenuto il telefono acceso, avremmo evitato questa discussione. Era il nostro lavoro occuparci dei pazienti e renderci reperibili in caso di emergenze. "Era una questione di responsabilità, ma a lui non era chiaro il concetto."

Attraversai il corridoio a passo svelto per raggiungere lo spogliatoio e cambiarmi, ma dalla parte opposta arrivarono due infermieri che andavano di fretta e urlarono di spostarsi.
Erano diretti verso il pronto soccorso. Si trattava di un'emergenza dell'ultima ora.
La curiosità mi assalì e mandai all'aria il piano iniziale per proseguire verso la direzione opposta. Dovevo capire che stesse succedendo.

"Il caro Daliana poteva aspettare... la mia priorità era ben altra".

In prossimità del pronto soccorso vidi una folla appostata davanti alle porte. Mi feci strada sgomitando e passai davanti. La biondina stava trascinando l'ecografo, però sbadatamente urtò la spalla di un uomo che cadde per terra. Quest'ultimo lasciò andare un grosso pezzo di cemento e la sbarra di acciaio che trapassava il paziente da parte a parte scivolò nelle viscere. Per qualche minuto non si sentì volare una mosca. Maddalena invano provò ad allungare la mano, ma ormai era troppo tardi. Il blocco si sfracellò al suolo e alcuni schizzi di sangue le sporcarono il camice.
I macchinari collegati trillarono e il sangue esondò come un fiume in piena dalla ferita. La situazione precipitò. Si scatenò il pandemonio, l'equipe andò in tilt. I due assistenti tentarono di risvegliare la biondina dalla trance, mentre osservava il sangue. La gente bisbigliò alle mie spalle, c'era confusione, e se qualcuno non avesse preso il controllo, quell'uomo sarebbe morto. Maddalena sembrava guardare tutti come un fantasma, nonostante le suppliche dei ragazzi. La sua negligenza poteva costarci cara e buttai il cappotto da qualche parte fiondandomi vicino alla barella.

«Guanti! Mi servono guanti, guanti, guanti!» Come prima cosa, tamponai l'emoraggia con delle garze. Ma non sarebbero bastate. L'infermiera portò i guanti e li indossai. «Fare pressione, fare pressione!» Osservai il fondo della sala chiedendo anche un grembiule. «Serve una trasfusione! Dai, Gianmarco!» Incalzai il moro, che annuì.

Indossai il grembiule con l'aiuto di un'altra infermiera e chiesi di telefonare al dottor Riccardo. Aveva più esperienza di tutti essendo veterano in questo ospedale. Era un cardiochirurgo specializzato e aveva la mano ferma negli interventi.
Continuai a fare pressione mentre Gianmarco gli spiegava la situazione rimanendo senza fiato e alla fine il professore lo ammonì con un duro "ma che bravi! Non era questo che dovevate fare! Dov'è finita Maddalena?" Lei era in tilt e non muoveva un muscolo.

«Mettilo in vivavoce, forza!» intervenni ponendo fine al breve alterco. Gianmarco me lo avvicinò. «Dottor Riccardo, sono Federica. Sono qui.»

«Qual è la situazione?»

«Ha perso molto sangue, stiamo facendo una trasfusione.»

«Federica, solo dieci minuti e sarò lì da voi. Lascio a te il controllo. Devi mantenerlo in vita per dieci minuti, va bene? Non di più, non di meno!»

In apparenza sembrava un'impresa titanica, ma mi fidavo di quello che avevo imparato. Esisteva una soluzione, bastava solo impegno e costanza. Quella vita dipendeva da me.

«Ho capito, dottore. Farò tutto il possibile.» Un'infermiera ci avvisò che i parametri vitali stavano scendendo. La pressione arteriosa era calata a cinquanta. L'emoraggia non cessava. Ordinai altri guanti e nel frattempo slacciai il cinturino delle scarpe per poi sollevarmi. «Batikon

La mia richiesta lasciò i due giovani totalmente perplessi.

«Ma dottoressa, che vuole fare?»

«Si danneggerà l'arteria toracica.»

«Come?!» gridò il rosso. «Aprirà qui il paziente?»

«Se ritardiamo, morirà per emoraggia interna.» Di corsa andai a prendere il telo blu, dando una spallata energica a Maddalena che in quel momento mi era solo d'intralcio. Sistemai il telo sulla parte alta del torace. «Bisturi.»

Matteo mi passò lo strumento senza troppi giri di parole e mi preparai ad incidere.

«Dottoressa, il dottor Riccardo ha detto che avrebbe tardato solo di dieci minuti. Non è conveniente aspettare?» consigliò Gianmarco.

Alzai la testa di scatto. Non mi serviva quel consiglio: «Tieni chiusi la bocca se ci tieni a restare qui dentro, capito?»

Non gli restò che biascicare un goffo "mi scusi" chinando il capo e affondai il bisturi nella carne. Feci un taglio abbastanza lungo per infilare le dita della mano. Separai i tessuti molli e scavai alla cieca, nella speranza di inviduare l'arteria. Questo era fatto. Sollevai gli occhi verso il soffitto, ignorando il disgusto di avere la mano nelle viscere di un altro essere umano... Nina a quella vista sarebbe collassata. Ma non io. Ero abituata a quelle situazioni estreme, non mi spaventava nulla, ci voleva sangue freddo. Scesi ancora più giù e le palpebre rimasero serrate ermeticamente. C'ero quasi... Il trillo persisteva, d'un tratto però cessò di botto.

Questo voleva dire che c'ero riuscita, avevo beccato l'arteria.

«Non posso crederci...» Era cambiato qualcosa. Stavo stringendo un'arteria, che mi pulsava sulla punta dei polpastrelli. «Ha trovato l'arteria!» esclamò il rosso, mentre studiavo il monitor.

«Dottoressa, è-è fenomenale!»

I valori erano in risalita.

«Il paziente è stabile. Ce l'ha fatta, dottoressa.» confermò l'infermiera.

«Il telefono, il telefono, presto!»

Gianmarco lo afferrò al volo, compose il numero e me lo avvicinò nuovamente.

«Qual è la situazione?» scandì.

«Dottore, il paziente è stabile.»

«Come hai fermato l'emorragia?»

«L'emorragia proveniva dall'arteria splenica, non dalla principale. La sto contenendo. Non c'è più sangue.»

«"Contenendo?" Con cosa?»

«Sto facendo pressione con l'indice, dottore. Tutto è tornato alla normalità.»

L'uomo scoppiò a ridere. «Oh, per la miseria! Sei una ragazza pazza Andreani!» Poi tornò serio. «Bene, portate il paziente in sala operatoria. Sto quasi finendo.»

«Va bene. Avete capito?!» Mi rivolsi all'équipe che aveva ascoltato e dato che non potevo abbandonare quella posizione, mi arrampicai sulla barella, per poi posizionarmi sopra il corpo, mentre il personale sanitario la spostava. Dovevano farlo con parsimonia, stando attenti ad ogni movimento, uno solo... poteva essergli fatale. Riuscimmo ad uscire senza intoppi e ci allontanammo, diretti al blocco operatorio. I miei colleghi mi guardarono straniti per la posizione inusuale, ma non mi importò più di tanto, e tenni lo sguardo puntato dinanzi a me.

Per fortuna il dottor Riccardo si trovava già lì, aveva terminato l'intervento precedente e la barella fu condotta in sala operatoria. Potei così liberarmi e correre fuori chiamandolo. «Dottore!»

«Tranquilla, tranquilla.» Tese le mani in avanti, mentre annuivo. «Ci penso io. Hai fatto un bel lavoro.»

Mi posò la mano sul braccio e sistemò la mascherina sul naso prima di scappare dentro, facendo chiudere le porte scorrevoli. Mi girai, tirando un sospiro. Ne era valsa la pena, il professore avrebbe salvato la vita a quell'uomo. Con un po' di fortuna, sarebbe sopravvissuto all'incidente. Per quel giorno, avevo finito, o almeno lo speravo.

Mi diressi verso l'uscita a piedi nudi, non prima di aver buttato i guanti sporchi nel cestino lì vicino. Ero fiera di ciò che avevo fatto. In quel frangente, inoltre, avevo incrociato lo sguardo di Giovanni che aveva fatto dividere la folla per consentirci il passaggio, ma invece di chiedermi perché fosse lì, l'unico pensiero che mi aveva sfiorato la mente era il paziente.

[...]

Nella speranza di terminare questa prima movimentata giornata, Riccardo — il mio mentore — si era offerto di accompagnarmi all'ingresso. Camminavamo fianco a fianco e continuava a spendere belle parole e complimenti per l'impresa eroica di poco fa. "Come si suol dire? Trovarsi nel posto giusto al momento giusto?" Era stato un colpo di fortuna, dato che Maddalena aveva quasi rischiato di perdere il paziente.

«Congratulazioni! Hai fatto davvero un ottimo lavoro oggi.»

«Ho solo fatto quello che avrei dovuto fare, dottore.»

Riccardo si bloccò e alzò la mano. «No, no, no, aspetta! Non ti permetterò di toglierti il merito. Hai salvato una vita oggi. Quell'uomo è sopravvissuto grazie a te.»

In effetti, non era un'esperienza che capitava ogni giorno. Era qualcosa di unico e raro.

«A parte questo... sentire il battito dell'arteria sulla punta delle dita è stato davvero incredibile.»

Increspò un sorriso.
«Sei una ragazza terribile Fe, ma mi piace. Sono orgoglioso di te.» Accennai un piccolo inchino, era un onore sentirglielo dire, lui il mio maestro di vita, colui che mi aveva insegnato quello che sapevo e che mi aveva condotto qui. Gli dovevo tutto quello che ero diventata. Quando lo conobbi la primissima volta, ero solo una ragazzina con il sogno di studiare medicina, senza però il becco di un quattrino, né controllo, né nessuno che mi sostenesse, a parte Nina ed Enne. Era stata una benedizione dal cielo, incrociare il suo cammino. A quel punto, ci avvicinarono due infermiere e una gli passò la cartella. Gli toccai la mano il braccio sussurrandogli che lo avrei aspettato e mi diressi all'uscita. Potei riempire i polmoni di aria fresca dopo aver trascorso l'intera giornata a studiare le lastre o a muovermi da un reparto all'altro, come un flipper impazzito. Mentre stavo camminando, Riccardo mi corse dietro. Lo presi a braccetto e ci allontanammo insieme in direzione della Porsche.

Mi aveva proposto di prendere un caffè, ma dubito che avremmo trovato una caffetteria aperta a quell'ora. Dopodiché si era offerto di accompagnarmi a casa, anche se non ce n'era bisogno: sapevo perfettamente come difendermi dai malviventi.








Giovanni

Non riuscivo a levarmi dal cervello la visione di Federica in compagnia di Riccardo Gentile, il loro atteggiamento di complicità mentre si allontanavano insieme... era stato come ricevere un pugno dritto allo stomaco. Avrei voluto scendere dalla macchina e raggiungerla, avevo messo da parte la rivista di Sudoku, così da poter fare la strada insieme. Ma ero stato anticipato da qualcun altro che l'aveva affiancata. Mi era sembrato come rivivere un terribile deja-vu, quando mi aveva detto addio prima saltare sulla moto di quel ragazzetto. Ma stavolta non si sarebbe ripetuto.

Passai tutta la notte a rigirarmi fra le lenzuola per colpa di quei pensieri e la mattina successiva mi svegliai presto e arrivai in perfetto orario, nonostante il traffico. Feci la retromarcia per parcheggiare affianco ad un'altra vettura. Quest'auto l'avevo scelta anche perché aveva un sistema di allarme incorporato, che avvisava se venivano colpiti oggetti o persone.

Dopo aver controllato dal retrovisore, scesi, ma un rombo ruggente attirò la mia attenzione. Un bolide lungo dalla carrozzeria lucidissima svoltò la curva con la rapidità di una Ferrari e tolsi i Ray-Ban. Si posizionò accanto alla mia e, a quel punto, osservai incuriosito chi fosse il pilota spericolato. Intravidi dei tacchi a spillo appoggiarsi sull'asfalto e poi la sagoma di una donna con i capelli cortissimi. La riconobbi all'istante. Ero stupito dalla sua entrata in scena e la osservai chiudere la portiera con nonchalance e bloccare la sicura. "Che stile! Sembrava una diva..."
Mi notò ma cercò di sfuggire al mio sguardo malizioso.

«Buongiorno.»

«Buongiorno.» ricambiò.

C'era una piccola cosa che non avevo capito… un dubbio che si era insinuato, da quando ci eravamo rivisti.

«Proprio quando mi decido su di te, mi sorprendi di nuovo con qualcos'altro.»

«A che ti riferisci?»

«Mi confondi molto, Federica. È impossibile per me scoprire se sei cambiata o meno.»

«E si può sapere perché ti confonde?»

«Non mi confonde, voglio dire mi sorprende. Sei la donna più misteriosa dell'universo.»

«Ti sorprende che abbia una bella macchina?»

Guardai oltre le sue spalle. «È un'auto molto bella e costosa.»

«Alcune persone investono in case ed io ho scelto di investire su una macchina.» rispose per poi passare oltre disinvolta.

«Non ha molto senso.»

Si bloccò e girò. «Ho perso l'unica famiglia che avevo qualche anno fa. Allo stesso tempo, ho perso il desiderio di avere una casa tutta mia.» Mi mostrò la chiave sul palmo della mano. «Questa macchina mi fa stare bene. Ha senso per te adesso?»

Ci pensai su. «Non hai una casa?»

«Non hai ancora smesso con questo stupido interrogatorio? "Sei sposata?", "Hai un fidanzato?", "Una macchina?" Che sta succedendo?»

Abbozzai un sorriso impertinente. «Sono interessato a te, Andreani.» Si limitò a guardarmi contrariata, chiuse di colpo la bocca e mi diede le spalle. «Ma chissà...» ripresi facendola voltare. «Forse hai già qualcuno nella tua vita.»

Fece un altro passo avanti per dimezzare la distanza e agitò l'indice, puntandolo contro il mio petto. «Primo, non sono affari tuoi. E secondo, non mi interessano gli uomini sposati, quindi te e le tue sciocche avances potete pure andarvene al diavolo!» Detto questo, girò i tacchi e accelerò il passo.

Mi appoggiai con i glutei alla carrozzeria della mia macchina, con le mani infilate nelle tasche dei jeans. Era da sempre stata una scommessa, che intendevo vincere. Alzai il terzo dito, sentenziando che non fosse cambiata di una virgola.

Poteva essere cresciuta, esteticamente era più una donna, ma il suo carattere di fuoco non era mutato. Così mi aveva tenuto testa a scuola facendo valere le sue ragioni, così anche adesso aveva messo le cose in chiaro.

[...]

«Giovanni.» mi chiamò qualcuno da dietro mentre davo direttive all'infermiera su un paziente. Le avevo appena riferito di controllare la frequenza cardiaca ogni ora e di venire a informarmi se ci fossero stati dei cambiamenti improvvisi. L'infermiera si congedò e mi lasciò in compagnia del mio vecchio.

«Papà! Stavo venendo da te per augurarti buona fortuna per la riunione.»

«Non ti unisci a me?»

Distolsi lo sguardo. «Non oggi…»

«Giovanni. Rinaldi.» Quando mi chiamava con nome e cognome, significava che voleva farmi qualche ramanzina delle sue. «Presto diventerai il capo di quest'ospedale.»

«Perchè? Te ne vai già in pensione?» Sdrammatizzai quell'aria di tensione che aleggiava attorno a noi, dipinta anche sulla sua faccia e mi dondolai sui talloni.

«Non prendermi in giro. Sai che lavoro da anni. Tutto quello che vedi in questo ospedale sarà tuo, a tempo debito.»

«E quando arriverà quel momento?»

«Per favore, prendi la questione più seriamente, ragazzo.» Gli rivolsi un sorriso divertito. «Giovanni, meriti ogni parte di quest'ospedale. Sei un eccellente medico.»

«Papà, mi stai viziando, ti prego.»

«Dovresti venire.»

Puntai l'indice sulla sua faccia imbronciata. «Dovresti smetterla di accigliarti così tanto, o ti verranno le rughe precoci.» L'uomo mi fissò. «Verrò ai prossimi incontri. Questo sarà l'unico a cui andrai senza di me, va bene?»

Accettò quel compromesso. «Be' solo per questa volta, così i miei soci non avranno nulla da ridire.» Tanto quelli avrebbero avuto sempre da parlare. «Ma non lasciare l’ospedale. Quando finisco, ti porto in un posto.»

«Affare fatto.»

Riprendemmo nuovamente il tragitto, giungendo in un altro corridoio, ma mio padre aveva ancora il broncio. Credevo che quel discorso fosse chiuso, ma non era di quel parere.

«Papà, non fare quella faccia. Credevo che avessimo raggiunto un accordo.» Ci fermammo nel bel mezzo del corridoio: «Sono appena tornato dopo anni di assenza… non credo che faccia molta differenza se ci sono o meno. A cosa servirà andare se poi mi siedo e ti guardo solamente? Inoltre, sai che non mi piacciono le riunioni.»

«È importante, figliolo.»

Sbuffai. «S'è importante per te…» Era pazzesco, sapeva sempre che parole usare per convincermi. Sorrisi. «Non ho altra scelta. Va bene, papà.» Gli toccai il braccio. «Ci verrò.»

«Questo è il mio ragazzo!»

Rise tra i suoi baffi folti e lo imitai, scuotendo il capo.

Non c'era niente che potessi fare per fargli cambiare idea, tanto valeva assecondarlo.

Proseguimmo in direzione dei due ascensori, dove c'erano gli altri due, a cui mio padre rivolse un educato cenno con la testa. I due risposero alla stessa maniera, padre e figlio, che condividevano la simpatia di un cactus, su cui finivi per sbaglio.

«Svevi!» Una voce burbera tuonò alle nostre spalle. Io e mio padre ci voltammo in contemporanea, notando un uomo massiccio brandire un'asta per i lavaggi. Come un leone inferocito, prese la rincorsa. «La ammazzerò. Bastardo!» Riuscii a spostare mio padre, prima che venisse travolto da quel tizio fuori dai gangheri. «È orgoglioso di avermi buttato in mezzo ad una strada?!» Sollevò l'asta per scagliarla addosso al "fautore delle sue disgrazie", ma non ci riuscì, dato che Federica l'aveva agguantata. «Togliti di mezzo tu! Lascialo! Lascialo!» Si sforzò di mantenere una presa salda, nonostante il ragazzo si stesse dimenando. Le ringhiò di togliersi di mezzo dandole la colpa se Svevi era fuggito, poi la spinse via, facendola cadere sul divanetto.

«Federica!» gridai.

L'uomo concentrò la sua ira, alzando l'asta per colpirla, ma i miei piedi si mossero prima dell'impulso al cervello. La paura che le facesse del male prevalse sul mio raziocinio.

Afferrai l'asta prontamente.

«Chi diavolo è lei?!» domandò quando ci trovammo faccia a faccia.

Non sarebbe arrivato da nessuna parte e facendo ciò non otteneva altro che finire in prigione.

«Calmati e mettilo giù.»

«Per colpa sua, ho perso tutto. I miei figli, la mia famiglia. Ho perso tutto! Ho perso tutto! Come faccio a calmarmi? Non mi è rimasto niente!»

Sembrava disperato, ma non avrebbe ottenuto alcunché con la violenza. Svevi avrebbe avuto sempre le spalle coperte.

«Signore... Si calmi.»

«Mi ha lasciato senza niente! La finirò con tutti!» Mi spintonò, facendomi cadere per terra e, in seguito, mi colpì duramente con tutta la rabbia che aveva. Avrebbe voluto farlo per la seconda volta, rompendomi qualche altro osso come se non fosse stato abbastanza, ma Federica afferrò l'asta e gli storse il braccio facendolo impattare contro il muro. La sicurezza lo acciuffò, nonostante le grida disumane che lanciava, condite da minacce e parolacce, mentre ero rimasto a terra con la mano sulla gamba. Federica si abbassò alla mia altezza, sfiorandomi la guancia. Lei e papà mi aiutarono a sollevarmi e mi fecero sedere sul divano. Probabilmente c'era una frattura, mi faceva male.

«Stai bene?» chiese la mora mettendosi in ginocchio, mentre mi scappava un gemito di dolore.

«Sì...» biascicai.

«Stai bene, Giovanni?» domandò "Svevi senior" dopo aver urlato alla gente di tornare al lavoro.

«Sì, sì, non si preoccupi.»

«Giorgio. Queste accuse non sono vere. Paolo non ha cacciato quell'uomo senza motivo.»

«Questo… è abbastanza comune.»

Alzai la testa, sbalordito.

Era fuori di sé, incazzato col mondo, e lui aveva la faccia tosta di chiamarla: "comune?"

«Comune? A che ti riferisci?»

«Ne sentiamo parlare ogni mattina. Lo vediamo sempre nei telegiornali. Comunque, lascia stare. Ti fa molto male?»

«Puoi camminare?» domandò mio padre.

Entrambi volevano sapere le mie reali condizioni e annuii.
«Posso, papà. Tranquillo.»

Insomma, non avevo la certezza ma non volevo creare allarmismi.

Mio padre successivamente portò via il suo socio per parlargli e mi lasciò in compagnia della bruna, e la cosa non mi dispiaceva...

«Dovremmo farti una risonanza. Il colpo che hai avuto è stato forte.» Era previdente. Ma io ero più testardo di lei.

«Una risonanza?» ripetei con un sorriso sfacciato sulle labbra. «Sto così bene. Ma che dovrei fare, dottore? Dovrei farmi male ogni giorno.» Federica roteò gli occhi, esasperata. «Mi piace ricevere tanta attenzione.»

«Se riesci a scherzare e fare il cretino, non farà così male.»

Sorrisi, mascherando il dolore.
«Ti ho appena detto che sto benissimo. Credimi. Potrei andare a correre una maratona.» Federica inarcò il sopracciglio. «E tu non hai niente da fare?»

Si rimise in piedi. «Sì...»

«Allora vai.»

Mi diede le spalle e si allontanò per tornare ai suoi impegni. Intanto rimasi seduto, toccando la gamba che continuava a farmi un male cane. Accidenti...


[...]

La riunione era da poco iniziata e il signor Paolo stava sfoggiando le sue doti oratorie per accalappiare favori da parte di quella platea formata da medici o figure professionali del campo, giunti da ogni parte dell'Europa. Ero seduto proprio in fondo alla sala e mi godevo lo spettacolo in sordina. Attraverso le diapositive articolava i punti salienti del suo progetto e parlava di investimenti sul campo della chirurgia estetica. Secondo lui, tanti paesi lo avrebbero fatto e anche il nostro doveva puntare a quello. Mio padre replicò che non era d'accordo e, dal mio punto di vista, anch'io lo trovavo inutile.

«Siamo medici, non commercianti. Dicci il vero motivo per cui hai progettato quel centro. C'è già un dipartimento che se ne occupa.»

«Sì. Il dipartimento con il massimo beneficio...»

«E perché dovremmo averne un altro?» rimbrottò mio padre.

«Più soldi. Non danno fastidio a nessuno, no?» Replicò Giorgio appoggiando in pieno il figlio e rivolgendo al suo socio un sorriso, che sembrava una presa per i fondelli.

Il mio vecchio roteò gli occhi. «Apriamo un altro reparto che non c'è in questo ospedale, ma che ci dovrebbe servire: trapianto di organi. Qualcosa di cui il paese ha bisogno.»

«I trapianti di organi non danno soldi. E se non guadagniamo, non saremo in grado di mantenere i nostri preziosi medici e infermieri.» puntualizzò l'altro e incrociai le braccia. «Non potremo pagare gli stipendi.»

«Stiamo andando bene.»

«Ma dobbiamo continuare ad andare avanti. Se non lo facciamo, succederà.»

«Smettiamola di essere medici.» Si alzò dalla sedia dove finora era rimasto seduto e diede una pacca al socio, gironzolando fra le varie sedie. «Diventiamo uomini d'affari. Meno budget. Licenziamo il personale e costruiamo grandi edifici.» Poi alzò il braccio a mezz'aria. «Lo pensate anche voi?» I presenti rimasero in silenzio. «Quello che dovremmo fare è prendere l'incidente di oggi come una grande lezione. Se la costruzione di questi edifici significa perdere il nostro onore e le persone il loro reddito, meglio chiudere per sempre i battenti!» Il brusio che si generò presupponeva che il discorso avesse fatto breccia nelle menti. Ero orgoglioso di mio padre, ci teneva a quell'ospedale e ai diritti di chi ci lavorava. Avrebbe impedito che il signor Paolo e suo padre commettessero un errore.
Posò la mano sulla spalla del padre di Maddalena per invitarlo a continuare e mentre se ne tornava a posto, mi strizzò l'occhio complice. Increspai un sorriso e feci cenno di aver capito. Sicuramente adesso il progetto non avrebbe trovato accoglimento da parte di nessuno e infatti i due abbandonarono la sala, senza aver ricavato nulla.








Federica

Era il secondo giorno, ma non intendevo perdere tempo e iniziai subito con le ricerche. Avrei tenuto fede alla promessa che avevo fatto subito dopo le esequie di mia nonna. Non avrei lasciato che questa storia venisse dimenticata e avrei smascherato i responsabili. Per anni, avevo studiato per raggiungere quest'obiettivo ed ora la verità non era lontana...

Potevo entrare in possesso di documenti, controllare i database... e mi diressi verso una stanza chiusa. Serviva il badge per entrare, essendo un accesso solo per il personale autorizzato.

La stanza che mi si presentò davanti era disseminata di computer e raggiunsi una scrivania. Non c'era nessuno, quindi potevo cercare con molta tranquillità. Aprii il sistema di ricerca, mentre le ultime parole di mia nonna mi echeggiarono in mente e il suo viso apparve.
"Il medico ha detto che sarà un intervento facile e che presto mi rimetterò in piedi. Non aver paura, bambina mia."

E invece quel medico... l'aveva portata via da me, per sempre.

Digitai: "Andreani Elena", ma quando cliccai su invio, spuntò una schermata d'errore. Nessuna informazione disponibile. Provai ad inserire il cognome da nubile, ma anche stavolta spuntò fuori l'ennesimo avviso. Era strano, non sapevo spiegare il motivo, ma venni interrotta dalla porta.

«Ah, dottoressa, la stavo cercando. Il paziente che ha operato ieri vuole vederla.»

Non guardai il giovane, concentrata a fissare lo schermo. «Come posso accedere alle cartelle cliniche? Posso farlo in altre sedi?»

«Certo che può, tranne per quelli famosi o catalogati come importanti.» Si fece avanti. «Chi sta cercando, dottoressa? La posso aiutare?»

«Sto cercando lo storico di un mio ex paziente, però non è un paziente importante.» Distolsi lo sguardo. «C'è un altro modo che tu conosci per accedere?»

«È possibile richiedere i file archiviati.»

Riflettei un po'. L'informazione mi sarebbe tornata utile, era stato un bene chiedere al rosso.

«D'accordo, grazie.»

Uscii, ci avrei riprovato più tardi, e raggiunsi la camera del paziente. A fare da guardia schierati alla porta c'erano il gruppo di uomini, ma non mi lasciai intimorire dai loro sguardi da pastori tedeschi. Entrai per prima, lasciando Gianmarco indietro, e arrivai dinanzi al letto di degenza.

«Buongiorno, come va? Fa male qualcosa?» Il tipo roteò e alzò gli occhi al cielo, segnati da profonde occhiaie. «Se non risponde — iniziai a sfogliare la cartella — immagino sia perché si sente bene.»

«Bene?» ripetè. «Mi fa male la testa. Non riesco nemmeno ad alzarmi dal letto.»

«È meglio che essere morto. La sua operazione aveva molti rischi. Potrebbe aver perso la parola o rimanere paralizzato, oltre che dimenticare il suo nome. Se sta facendo lo scorbutico, significa che si sta perfettamente ristabilendo.» Girai la faccia verso Gianmarco e gli restituii la cartella. «Tieni il paziente sotto osservazione.»

«Va bene.»

«Se succede qualcosa, faremo un'altra tac.»

Diedi le spalle per uscire, quando l'uomo mi chiamò. «Dottoressa!» Mi rivoltai a mezzo busto. «Grazie…»

Mi feci vicino, inarcando il busto. «Scusi? Non ti ho sentito.»

«Mi ha salvato la vita. Ti ringrazio. Così va bene?»

Ruotai il collo verso il moro. «Che ha detto? Tu l'hai sentito?»

«La ringrazia.»

Drizzai la schiena e mi girai.

«Si sta burlando di me?»

Mi voltai un'altra volta. «Hai già dimenticato quanto male mi hai trattato ieri sera.»

«È arrabbiata con me, no?»

«Un po'. Diciamo che il rispetto è alla base per me.»

«Mi dispiace. Mai sottovalutare una donna che sa picchiare meglio dei miei stessi uomini.»

«Bene, ora che ti fidi di me, fai come ti dico. Riposati e recupera le forze.»

«Va bene, saggia e arrogante dottoressa.»

A Gianmarco scappò una risatina dopo quel commento, gli lanciai un'occhiata di traverso e la smorzò schiarendosi la gola. Mi diressi verso l'uscita e il gruppo di scagnozzi si mise sull’attenti. Dopo che avevo salvato il loro capo sembravano essere diventati innocui, come pecorelle.

Li superai a grandi falcate, mettendo le mani in tasca.

«Dottoressa! Dottoressa!» Ruotai il capo verso il giovane alto e dal fisico asciutto. «Se non si offende, vorrei chiederle una cosa.»

«Chiedi, Gianmarco. Chiedi.»

«Ha affrontato quei mafiosi senza paura. Non ha paura di nessuno?»

«Basta chiacchiere per oggi. Dove trovo gli archivi?» Tagliai corto.

«Che sta cercando negli archivi? Chieda a me. Sono qui!» Allargò le braccia. «Sono come un archivio ambulante.»

Lo ammonii. «Gianmarco.»

Quest'ultimo smise di scherzare e abbassò le braccia. «Secondo piano.»

Iniziava a ragionare. Me ne andai, per raggiungere il posto che aveva indicato. Lì avrei trovato le risposte.

[...]

Arrivata però non trovai ciò che mi aspettassi e la guardia mi spiegò che quando l'ospedale era stato spostato, alcuni dossier erano andati persi e sarebbe stato difficile recuperarli. In poche parole, le informazioni sul caso di mia nonna erano sparite.

«E non possiamo provarci?» domandai.

«Anche se li trovassimo, sarebbe molto difficile. Penso che lei possa usare il codice sul suo computer per accedere ai file.»

«Lo so, però non sono autorizzata ad accedere a questi file da lì.»

«Bene, non posso fare molto in questo caso. Non posso aiutarla.»

Distolsi lo sguardo, pensando ad alta voce. «Dev'esserci un modo.» L'uomo negò e abbandonai la stanzetta. Passeggiai per il corridoio con ancora in testa le parole della guardia: mi aveva consigliato di compilare un modulo per l'accesso, ma non mi garantiva il successo. Rimisi le mani in tasche e dalla parte opposta comparve l'uomo più infido del pianeta. Era in compagnia di altri dottori e stava venendo nella mia direzione. Alla sua vista, rallentai bruscamente il passo con gli occhi incollati sulla sua figura.

Paolo Svevi, colui che anni prima mi aveva rovinato la vita e privato di mia nonna, la persona a cui voleva bene.

Dopo anni, come se il tempo non fosse passato, me lo ritrovavo ad un palmo di distanza.

Mi guardò di rimando e abbassai leggermente il capo. Non sembrava che mi avesse riconosciuto e mi oltrepassò.

«Salve…»

La sua voce alle spalle mi fece irrigidire e mi frenò. Mi girai e si avvicinò, ci trovammo l'uno di fronte all'altra.

Pregai mentalmente che non scoprisse la mia identità o potevo dire addio al piano di vendetta.

Ero quella ragazzina che aveva giurato che si sarebbe vendicata. Avevo speso anni a studiare questo caso e non mi sarei fatta scappare l'opportunità di incastrarlo.

«Il colletto è... sgualcito.» mi fece notare allungando la mano, ma indietreggiai, provvedendo a sistemarlo da sola. «Se l'avessi fatto, mi avrebbe denunciato?»

Feci un sorriso tirato. «Non intendo sporgere denuncia.»

«Bene. È la prima volta che la vedo da queste parti. È nuova? In quale ospedale era?»

«Sono qui perché sono stata assunta dal dottor Riccardo.»

«Ah davvero? Dove ha studiato?»

«A Roma, dottore.»

«Davvero? Non è importante, ma dobbiamo portare bene il colletto per non rovinare l'immagine.»

«Lo terrò a mente. Grazie.» risposi trattenendomi dal storcere le labbra. "Reputazione? Immagine?" Non l'aveva mai avuta lui, aveva speso il suo tempo a sbagliare interventi e a far morire persone innocenti, quindi quali lezioni doveva impartire?

Mi rivolse un altro cenno, prima di andare. Quando si allontanò, potei dare libero sfogo ai miei pensieri, che avevo dovuto tenere a bada per evitare che la rabbia esplodesse. L'ultima volta in clinica avevo creato parecchio scalpore, quando l'avevo accusato pubblicamente di essere un assassino, ma tuttora ne ero ampiamente certa.

Ero venuta a lavorare in questo posto per un motivo: riuscire a far giustizia per mia nonna e smascherare quel criminale.
Solo così avrei potuto smettere di dannarmi l'anima, perché era a piede libero e non aveva ricevuto la punizione che si meritava.
La mia espressione mutò di colpo e i miei occhi si infiammarono di determinazione.

Quell'uomo avrebbe pagato per i tutti suoi crimini. Lo giuravo a me stessa e anche a mia nonna.

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