Capitolo 2.1 - Mi sconvolgi i piani
Ciò che percepivo dentro di me era una strana agitazione. Giovanni Rinaldi era tornato. Quel professore che all'inizio mi stava antipatico, ma con cui alla fine avevo legato molto: voleva rimanere al mio fianco e aiutarmi a combattere quei demoni interiori dieci anni fa. Non potevo credere a quello che era appena successo.
"Cos'era quello? Un tiro mancino dalla vita? L'erba che non vuoi ti crescerà poi sotto il naso?”
Mentre ero tormentata da quei pensieri e maledivo il mio destino, sentii uno scroscio di mani alle spalle e mi voltai trovandomi dinanzi alla bionda. Probabilmente voleva essere la fortunata a dare il suo piacevole benvenuto a Giovanni o altrimenti non si spiegava la sua presenza lì sul tetto.
«Ben fatto.» Smise. «Il ruolo da nerd non era abbastanza per te e hai deciso di passare a quello del dottorato.»
«Quanti anni sono passati?»
«Non lo so.» affermò infilando le mani nelle tasche del camice per poi guardare in un'altra direzione. «Non li ho contati.»
«Dopo tutto questo tempo non sei cambiata, non sei maturata.»
«Stavo per farti la stessa domanda.» Non scomposi l'espressione impassibile che avevo assunto e sfoggiò un ghigno beffardo. «Sono passati tanti anni. È molto tempo per aspettare un uomo, non credi?» Distolsi il viso. "Chi era che stava sotto un treno? Era lei che gli era sempre corsa dietro come un cucciolo, sperando di ricevere attenzioni, ma io." «E la cosa peggiore è ch'è stato inutile. Quella barca è già salpata...» Gesticolò con la mano. «Giovanni è sposato.» Osservò con attenzione per captare un cambiamento nella mia faccia, - ma seppur la notizia mi avesse turbato, non le diedi la soddisfazione. Feci finta di niente, voltando lo sguardo altrove. «Non ha aspettato che tu diventassi dottore.»
«Non siamo più a scuola, Maddalena. Siamo medici. Lavoriamo bene.»
«Cos'è questo? Un patetico tentativo di insegnarmi il mio mestiere? Ho le idee molto chiare su quello che devo fare.» "Non mi sembrava, dato che parlava di Giovanni come se fosse un premio da spartire in una partita a poker.” «Posso farlo meglio di te, con gli occhi chiusi.»
Trattenni un sorriso e, a quel punto, il cercapersone squillò, avvisando che ci fosse un'emergenza di sotto. Non potevo rimanere a chiacchierare, se c'era bisogno di me. «Ci sono pazienti che aspettano, non ho tempo. Me ne vado.» la liquidai sorpassandola e rimisi il cercapersone nel camice, discendendo la rampa esterna per tornare in reparto.
Sicuramente Maddalena non mi avrebbe reso le cose semplici, ma il mio problema adesso era sapere quali fossero i risultati delle ultime analisi fatte.
[...]
Mi recai nella sala relax, dove il personale sanitario si ritagliava del tempo per mangiare o riposarsi nelle poche ore libere, e il tirocinante si fermò su due piedi vedendomi entrare.
«I risultati sono arrivati?»
«Stavo per venire a dirglielo.» rispose prontamente.
Il collega alle sue spalle si alzò dal divano, finendo di schiacciare un breve pisolino, e gli feci cenno con il mento di dirmelo strada facendo. Entrambi mi tallonarono nel corridoio.
Quello con il fisico asciutto mi passò il tablet e osservai l'immagine.
«Che abbiamo qui?»
«Ehm… Edema cerebrale.» Il suo tono titubante mi fece voltare di scatto e notai il suo viso grondare di sudore. «Mi sbaglio?»
«Sicuro?» glielo restituii. Si portò la mano alla testa, ma a giudicare dalla sua espressione confusa, non aveva una soluzione per quel caso. «Stai sudando. Fidati di te stesso.»
«Ematoma subdurale?»
Inarcai il sopracciglio. «Credi?»
«Non è... quello.»
«Dimmelo tu.»
Si accarezzò il mento per poi esclamare. «Di sicuro, ematoma subdurale, dottoressa.»
«Il tuo linguaggio del corpo indica che, in realtà, stai ancora esitando. Non riusciresti nemmeno a spiegarmi la differenza.» Abbassò la testa a disagio. «Questo non è il tuo quarto anno di tirocinio? Dovresti saperlo.» Si mostrò abbattuto per il rimprovero, ma in questo lavoro si causavano danni alle persone, se non si conoscevano i rudimenti basilari. In questo caso, il paziente andava operato velocemente. «Preparami la sala operatoria.»
«No, non posso! Cioè… sì, posso. Ma il medico di turno deve prima approvarlo. Queste sono le regole.» blaterò, seguendomi.
«Ottieni l'approvazione.»
«Il dottore è fuori.»
Mi girai di scatto. «Chiamalo. Esistono i telefoni nel 2022, non te lo devo ricordare io!»
Il giovane tirò fuori dalla tasca il suo, compose il numero del medico e aspettò qualche secondo.
«Ha il cellulare spento.»
Non conoscevo quel medico, ma in quanto a responsabilità, era nettamente impreparato.
Era medico, non poteva avere il cellulare spento e i pazienti non aspettavano i suoi comodi.
«Non possiamo aspettare in base a questi risultati. È in condizioni critiche.» mi dissi a bassa voce per poi rivolgermi all'assistente. «Fai quello che ti ho detto, prepara la sala operatoria.»
«Mi metterò nei guai!» protestò facendomi bloccare e voltare.
«Ovviamente, perché questo è il nostro principale problema in questo momento, giusto?»
Il rosso al suo fianco sghignazzò, lo guardai torva e si diede una regolata.
«Non è solo per me. Anche lei finirà nei guai! Il dottor Daliana odia che si vengano prese decisioni senza il suo consenso.»
«Niente è più importante della vita di un paziente. Avresti dovuto impararlo quattro anni. E se il dottor Daliana crea problemi, mandalo da me.»
Detto questo, non intendevo perdermi in inutili chiacchiere, e lasciai i due nel bel mezzo del corridoio.
[...]
Quella giornata avevo solo l'intervento all'uomo dell'atrio, il capo della banda di bifolchi, e, munita di casacca e cuffietta, andai a sciacquare abbondantemente mani e braccia affiancando un altro medico.
«Vieni in sala operatoria con me?» attaccò bottone Giovanni. La mia straordinaria fortuna me l'aveva fatto ritrovare anche lì.
«Lo farei se non dovessi fare un'altra operazione.»
«Be’, stai perdendo un'occasione.»
«Davvero è necessario? Aspirazione senza strumenti.»
«La paziente è incosciente da ore. Non c'è altra opzione.»
«Diminuzione della pressione sanguigna.» consigliai, continuando ad essere attenta al lavaggio delle mani. Per un po', non parlò.
«Federica.» Avevo parlato troppo presto. Mi girai leggermente. «Ogni volta che venivo a Roma ti cercavo.»
Sollevai di più il mento. «E tua moglie lo sa?»
Giovanni si fece scappare una risatina divertita sotto i baffi. «Mia… moglie? Dai!»
In tutta risposta, mi schizzò l'acqua in faccia e rimasi perplessa dalla sua reazione.
Ma era palesamente tempo perso comprendere la mentalità di quel ragazzo, era il solito bambinone in vena di battutine, e asciugando il viso con il dorso mi preparai ad entrare in sala operatoria. Un gruppo di infermieri mi aiutò ad indossare i guanti, mentre il tirocinante doveva occuparsi di rasare i capelli del paziente.
«No, no, lascia perdere! Lo faccio io.» Gli tolsi dalle mani quel rasoio e si alzò per farmi posto.
«Dottore, me ne occupo sempre io. Sono in punizione?»
Mi accomodai sullo sgabello, sospirando. «Se continui così, non farai altro che questo.»
Il giovane mi lasciò fare, restando in disparte a guardare e con delicatezza iniziai a radere la testa dell'uomo, che solo pochi attimi prima, aveva chiesto ai suoi scagnozzi di togliermi di mezzo, perché una donna non poteva fare quel lavoro secondo il suo ragionamento. Quei pensieri mi accompagnarono per tutta la durata dell'intervento.
Non fu complicato tra quelli che avevo visto e l'assistente mi passò lo strumentario, cercando di non perdersi nessun passaggio. Poco dopo stavo già suturando la ferita.
«Dottoressa, va' molto veloce!» Sollevai gli occhi una breve manciata di secondi e un'infermiera entrò, porgendogli il cellulare, avvertendo che un medico lo stava cercando. Il tirocinante diventò inquieto. «Io…»
«Hai finito. Puoi andartene.» lo congedai e mi ringraziò andando via, lasciandomi terminare di applicare gli ultimi punti in santa pace.
[...]
Una volta finito, non restò che comunicare l'esito agli scagnozzi, che stavano aspettando all'esterno. Varcai le porte scorrevoli con la mascherina calata sotto il mento e le mani nelle tasche della casacca.
«Il mio capo sta bene?» domandò il tizio robusto che aveva minacciato di seppellire la mia famiglia, se l'esito fosse stato diverso.
«Sì, tranquillo.» Alzai il palmo della mano. «Prima che tu me lo chieda, non può ricevere visite in terapia intensiva. Domani potrai vederlo appena lo trasferiremo nella stanza.»
«Grazie mille, dottore.»
Feci per andarmene, ma mi bloccai. Improvvisamente mi ricordava più che un uomo con gli attributi, uno che aveva appena capito di aver commesso un errore nel sottovalutare le mie capacità. «Non ringraziarmi. È il mio lavoro. Hai bisogno di qualcos'altro?»
«Solo un'altra cosa.»
«Dimmi.»
«È sposata?» chiese con sguardo insolente e un sorrisetto stupido stampato in faccia.
Arricciai la fronte e ruotai la faccia. "Daje, non ci potevo credere". Credevo che fosse una domanda intelligente, ma a quanto pare si era giocato pure quella, oltre alla dignità.
«Cosa ti interessa? Non sono affari tuoi.»
Scrollai le spalle e mi allontanai da quel gruppetto a passo svelto pensando che quella del matrimonio fosse la richiesta popolare del giorno. Era già la seconda volta. Prima Giovanni... adesso questo tizio. Quando avrebbero imparato a collegare il cervello? Be', sarebbe stato troppo tardi comunque.
Giovanni
Roma.
Città in cui tornavo dopo dieci lunghi anni all'estero, che avevo passato a perfezionare e studiare medicina e tecniche di ultima generazione.
All'inizio, pensavo che ci avrei trascorso qualche settimana e non di più, ma un evento era pronto a sconvolgere i piani.
Mi trovavo all’aeroporto di Fiumicino, ero da pochissimo atterrato dopo un volo di dieci ore, lasciandomi alle spalle gli Stati Uniti.
Lì ero migliorato su molte tecniche che in Italia non erano chissà quanto utilizzate in campo medico.
Mentre aspettavo per il ritiro del bagaglio dalla stiva, un particolare attirò la mia attenzione. Una ragazza dinanzi a me in fila. "Conoscevo quei sintomi…"
Cercai di intervenire prima che la situazione degenerasse, ma un ragazzo mi picchiettò la spalla.
«Mi scusi, sto per proporre il matrimonio alla mia ragazza. Le dispiacerebbe registrarmi?»
Notai che intanto la stava anche tremando la mano, mentre manteneva una bottiglietta d'acqua. La mora sospirò e non sembrava avere un bell'aspetto.
«Salve, signorina. Mi scusi. Dovremmo sederci.»
Era stranita dall'intervento di un perfetto sconosciuto.
«Scusa, ci sta provando con me?»
«Si appoggi a me, per favore.»
«Mi lasci subito il braccio, signore. Come osa toccarmi?»
«Signorina, ascolti. In quindici secondi, perderà completamente l'equilibrio e cadrà. Farebbe meglio ad appoggiarsi al mio braccio, la prego.» Continuai a tenerglielo.
«Mio Dio, è pazzo o cosa? Non mi prenda il braccio e la smetta. Mi lasci andare!» Si liberò dalla mia presa con un leggero strattone, ma insistei sulla mia teoria precedente. Quella ragazza non stava bene, probabilmente si trattava di un problema grave.
«Per favore, ascolta. Sono un medico.»
«Sì, certo.» le spuntò un risolino sarcastico. «"Medico", di cosa? Che divertimento ci trovi in questo? Stai facendo la parte del dottor Stranamore?»
«Signorina, le restano dieci secondi!»
Una guardia si avvicinò afferrandomi il braccio, chiedendomi di non infastidire la signorina. Ma nessuno aveva capito che la stavo avvisando di quello che sarebbe accaduto.
«Sono un medico e so benissimo cosa sto facendo, per favore.»
«Si calmi, agente. La stiamo risolvendo tra di noi.»
«Signorina… restano cinque secondi, per favore.» insistei, ma la mora riluttante schioccò la lingua sotto il palato.
«Non si arrende eh.» Iniziò a fare dei passi avanti e poi si voltò nella mia direzione con aria ironica. «Quando scade il tuo tempo?»
«Adesso.» Si rivoltò e il mio sguardo restò incollato alle sue minute spalle. Restò immobile per un po', poi crollò all'indietro e svenne. Riuscii ad afferrarla prima che cadesse e in breve tempo, la situazione in aeroporto si movimentò. Chiamarono immediatamente i soccorsi.
Sicuramente aveva un'emorragia celebrale in atto.
[...]
Ed era stato così che avevo fatto il mio primo esordio nel nuovo ospedale, trovandomi in quel posto al momento giusto.
Ero in sala operatoria, la paziente era pronta per essere operata e i macchinari erano già posizionati ai loro posti. La pratica che avrei attuato non era un metodo attualissimo, ma anzi era antico che nessuno della generazione dei tirocinanti aveva visto eseguire prima d'ora.
Osservai la TAC fatta e ordinai di spostare il monitor un po' più a sinistra, mentre prendevo posto su uno sgabello.
Tracciai con un pennarello nero dei segni guida sul cranio calvo della giovane e dopodiché incisi col bisturi. Successivamente mi diedero il trapano, senza strumenti non era facile controllare dove sarebbe stata la posizione esatta della sonda, ma andai alla cieca. La situazione era stabile, i segni vitali erano buoni. Bisognava continuare così per un po'.
[...]
Durante la fase più critica, le porte scorrevoli si spalancarono e un'infermiera le cedette il suo posto. Federica ci teneva a prendere parte a quella pratica e non si sarebbe fatta sfuggire quella possibilità. Incatenai i nostri occhi, - l'unico aspetto visibile delle nostre facce coperte dalle mascherine - e feci cenno all'altra che andava bene.
La ragazza poi mi passò il catetere con spirale di platino*, che inserii in un piccolo foro.
«Sei in tempo per la parte migliore.» Restò in silenzio a scrutare e dopo averlo fatto scendere abbastanza, le ordinai di tirarlo via. Passai ad aspirare con una siringa e non staccai gli occhi, nonostante gli altri stessero bisbigliando che se il mio tentativo non fosse andato a segno, la paziente sarebbe morta. Sapevo che c'ero quasi e che avrebbe funzionato. Quel metodo lo avevo studiato bene nel mio tirocinio in America. Continuai a mantenere la calma e, alla fine, il sangue fuoriuscì lungo il tubo. Partì un applauso generale in sala operatoria e Federica alzò gli occhi al soffitto, sospirando, aveva temuto il peggio ma da parte mia sapevo che non potevo deludere me stesso. Dalla sala superiore, qualcuno si congratulò dall'altoparlante incorporato, dicendo che ero stato una vera leggenda.
«Se non ti dispiace, posso chiudere io?» mi chiese.
«Non lo so. Ce la fai?» Girai il capo osservandola mentre inclinava il suo, come a dire "stai scherzando, vero?". La nostra battaglia proseguì in barba ad ogni persona che fosse lì.
«Certo. Lo faccio ogni giorno.»
«Non l'ho visto. Devo vederlo per crederci.» risposi distogliendo lo sguardo.
«Sei fortunato. Oggi puoi vederlo.» Federica non intendeva mollare la presa, era competitiva e scaltra.
«D'accordo, mi fido di te.» Acconsentii passandole gli strumenti, lasciandole il posto. Il personale si congratulò per la riuscita e sgranchii la schiena.
Passai per uscire, ricordando all'equipe ch'era stato un lavoro di squadra e che avevamo fatto tutti davvero un ottimo lavoro.
[...]
Prima di partire per il mio viaggio di sola andata, avevo pensato di fissare un appuntamento in un bar della zona e incontrare un mio vecchio amico.
Oltre ad essere un carissimo amico d'infanzia, aveva una carriera ben avviata in ospedale e sarebbe stato di grande supporto a Federica. Aveva bisogno di una guida nel percorso didattico e visto che mi aveva scacciato dalla sua vita, la soluzione era quella.
«Posso chiederti un favore?»
«Certo, chiedimi quello che ti serve.»
«Vado in America.» annunciai davanti ad una tazza fumante di caffè. Lo avevo stabilito dopo le dimissioni, dovevo cambiare aria. «Quando me ne andrò, potresti prenderti cura di lei?»
Inarcò un sopracciglio. «Intendi Federica?»
Annuii. «Proprio così.»
«Sei innamorato di lei?»
«Guarda, non sono sicuro di come si chiami, ma è molto importante per me. Ci tengo molto a lei e non voglio che resti senza una guida.» Tirai fuori dalla tasca un foglio spiegazzato, appoggiandolo sul tavolo. «Riccardo, ecco il suo nome, indirizzo e numero.» L'uomo incrociò le braccia al petto, adagiandosi meglio allo schienale, inspirando dal naso. «Altrimenti non starò tranquillo. Mi fido di te, amico mio.» Lo guardai con determinazione, spingendo il foglio dalla sua parte. «Te lo chiedo per favore. Ha da poco perso sua nonna, vuole diventare medico, ha bisogno di un mentore che la ispiri. Tu sei la persona giusta.» Prese il foglio, aprì e lesse, decidendo di darmi la sua parola, che avrebbe parlato con Federica. Così sancimmo quel patto durato finora di silenzio e chiesi a Riccardo di non farne mai parola con lei, altrimenti non avrebbe mai accettato.
[...]
Tornai a risciacquarmi ad intervento ultimato nella sala pre-operatoria e mentre le stavo asciugando, una voce maschile risuonò alle mie spalle. «Wow, dottor Gio!» Riccardo venne verso di me e mi allungò la mano, che strinsi con piacere. Mi era mancato il suo supporto emotivo dopo ogni intervento. «Il tuo ingresso è stato in grande stile. Mi congratulo.»
Lo abbracciai forte e mi superava di gran lunga in altezza tanto che avrebbe potuto anche sollevarmi con quelle braccia robuste. «Mi è mancato vederti alla fine di un'operazione.»
«Anch'io.»
«È molto strano essere da queste parti.»
«Soprattutto dopo tanti anni.» Allacciai le mani dietro la schiena e mi squadrò a braccia conserte. «Be', a cosa devo questo piacere?»
«È stato improvviso. Una cosa tira l'altra e il risultato? Che sono tornato a Roma. Mi mancava l'Italia.»
Riccardo rise e lo seguii a ruota. «E non è perché Federica era qui?»
La risata si smorzò e scossi la testa. «No… cosa? Non sapevo che fosse qui.»
«Che curioso…» Ci pensò su, per poi ribadire. «Molto curioso. Non hai mai voluto tornare indietro in tutti questi anni e quando decidi di farlo, coincide con l'arrivo di Federica.»
«Dato che hai sollevato l'argomento... Perché non mi hai detto che Federica aveva iniziato a lavorare in questo ospedale?»
«Perchè non volevo che la confondessi, amico mio.»
«Cosa vuoi dire?»
«Guarda, Giovanni.» esordì con il tono più serio e fermo del suo repertorio. «Federica non è come chiunque tu abbia incontrato. È diversa. Ha molto talento. Più di noi. È sveglia. Molto probabilmente avrà molto successo in questo campo.»
Sorrisi. Ero a conoscenza del talento della mia ex studentessa. Della sua incredibile personalità.
«Dimmi qualcosa che non so.»
Ci guardammo negli occhi, mentre il silenzio regnava in quella sala, tale da potersi tagliare con un bisturi.
«Ti dirò la stessa cosa che ti dissi anni fa. Stai lontano da Federica. Non voglio che si concentri su nient'altro che non sia la sua carriera medica.»
Smisi di fare quella faccia seria e gli sorrisi, appoggiando la mano sul braccio dell'altro stagliato di fronte a me. «Bene, ne parliamo dopo.»
Riccardo fece un cenno d'assenso e feci l'atto di muovermi. «Dove stai andando?»
«Vediamo… Se ha tanto talento come dici tu.»
Mi mostrò un sorriso e lo lasciai lì per tornare in sala operatoria. I miei colleghi furono sorpresi di rivedermi e mi posizionai accanto alla mora, che stava portando a termine il compito.
«C’è qualche problema? Cosa ci fai qui?» domandò senza staccare gli occhi.
«Controllo che tutto vada bene. Vediamo un po' se sei brava come ho sentito dire fra i corridoi. Inoltre, sono il responsabile. Mi sono fidato di te, ma devo approvare il lavoro.»
«Non sono altro che procedure. Cliché da medici. Li hai memorizzati dai libri di testo?»
I presenti risero per quella frecciatina, ma poco dopo si fermarono. «Lo trovate divertente?» Un infermiere si scusò. «È divertente. È normale che tu rida. Anch'io l'ho trovato divertente. La signorina Andreani qui presente ha una vena comica sviluppata.» Quest'ultima mi fissò a malapena, dato che era impegnata ad applicare i punti. Notai che il suo lavoro era più impeccabile di altri tirocinanti del quarto anno. «Stai andando bene.» mi sporsi di più. «Sei molto brava.» ignorando il complimento chiese all'infermiera lì di tagliare e poi le diede anche le pinze. «Ti sorprende Rinaldi?»
«No.»
«Come l'hai fatto? Mostrami come hai posizionato le sonde senza l'ausilio degli strumenti.»
«Sei entusiasta e desiderosa di imparare. Mi piace. Ma non fai buone domande. Sei molto maleducata.» feci notare e corrugò la fronte. «Devi lavorarci.»
«Io, maleducata?»
«Sì. Ci incontriamo dopo tanti anni e questa è la prima cosa che mi chiedi.»
«Da quello che vedo, stai perfettamente bene. Perché perdere tempo con domande inutili?»
«Mi prendi in giro, Federica?»
«No, sono solo diretta.»
La sua risposta schietta fece scoppiare a ridere l'equipe intera e stavolta li guardai in tralice.
«Non ridete. Ora non è stato divertente.» si scusò un'altra volta e l'intervento poté ormai dirsi concluso. Federica abbandonò la sala prima di me, ma le andai dietro, gridandole di fermarsi. Vedendo ch'ero io, guardò avanti e mi posizionai di fronte a lei, i nostri occhi furono alla stessa altezza e avevo tante domande che mi vorticavano in testa. Domande a cui lei doveva rispondere.
«Cosa c'è? Perché sei così fredda con me?» abbassò la testa, stropicciando la cuffietta blu fra le mani e sollevai l'indice. «Hai fatto la stessa cosa quando eri a scuola. Mi hai cacciato dalla tua vita. Non volevi che ti aiutassi. Poi sei salita sul retro di quella moto di "un signor nessuno" e te ne sei andata.» Incrociai le braccia al petto. «A proposito, adesso dov'è finito quel ribelle?»
«Mi stavi davvero cercando per scoprirlo?»
Schioccai la lingua e scossi la testa. Era fuori strada. «No. Volevo sapere cosa stavi facendo tu.»
«Be', l'hai visto.» Sorrisi, vedendo quanta determinazione brillava nei suoi occhioni marroni e con quanta dedizione avesse raggiunto l'obiettivo che si era prefissata. «Sono un chirurgo. Ho lavorato in alcuni ospedali ed ora sono qui. Non mi sono mai sposata e la mia migliore amica è la stessa. Angelina, ricordi?»
«Ti sei seduta accanto a lei il primo giorno. Sapevo che sareste rimaste amiche.»
Federica intanto alzò lo sguardo e mi guardò dritto negli occhi. «Ho visto molte relazioni. C'erano medici che si offrivano di fare il turno di notte solo per stare lontano dalle loro mogli e dalle loro case.»
«Perchè mi dici questo?» chiesi confuso da quel discorso.
«Perchè credo che il matrimonio sia qualcosa di molto sacro.»
Feci un cenno d'assenso. «Anch'io.»
«Allora comportati di conseguenza.» Mi liquidò per poi andarsene via.
La situazione sembrava ambigua, mi trattava come se fossi impegnato e la cosa mi sbalordì, tanto che iniziai a domandarmi ad alta voce. «Perché me l'ha detto? Cosa intendi con "comportati di conseguenza?"» Poi realizzai, inclinando la testa. «E perché diavolo stai parlando da solo, Giovanni?» Mi scappò una sonora risata che rimbombò tra le pareti del corridoio. Effettivamente, quella donna era capace di farmi impazzire, senza neanche sforzarsi.
A quel punto, mi recai nello spogliatoio per togliere la divisa asettica e feci ritorno in ufficio. Aprii l'armadietto dove avevo lasciato gli indumenti e sfilai dalla gruccia la camicia per indossarla. Potevo dire che il mio primo giorno era appena finito e mi consideravo libero di tornare a casa per trascorrere la serata davanti ad un film. Senza neanche bussare, qualcuno entrò e appena mi girai, mostrando il petto nudo, vidi Maddalena ferma sulla soglia.
Mi sorrise con dolcezza e arrossì sulle guance.
«Maddalena Svevi.» Chiuse di colpo la porta per avvicinarsi, mentre stavo sistemando il colletto. «Sono contento di vederti.»
«Anni dopo siamo nello stesso ospedale, professore.»
«Giusto, ma spero che sarà diverso dalla scuola.»
«Anch'io.» Sfoggiò un sorriso smagliante e continuò. «Ti portavo sempre anche i libri, quindi penso di essermelo più che guadagnato di essere la tua assistente.»
«Oh, vedremo…»
Mi girai per afferrare anche la giacca e, a quel punto, la ragazza si spinse in avanti, rubandomi un bacio a stampo che durò però pochi secondi. Percepii ancora il suo sapore e probabilmente avevo la traccia del rossetto porpora sulle labbra… e deglutii un fiotto di saliva, incapace di reagire dopo quel gesto.
«Vedremo, professore…» ripeté lei. «Guarda, il passato, è passato, non dimenticarlo. Non sono più una tua studentessa. Qui siamo entrambi sullo stesso livello.»
«Maddalena…» tentai di dire.
«Giovanni.» mi interruppe continuando a rivolgermi un sorriso paragonabile a quello di una ragazzina innamorata. «Sono contenta di averti rivisto.»
Abbandonò la stanza senza darmi il tempo di farle mettere il piede sul freno, poi si fermò sulla soglia e mi lanciò un altro sguardo languido, prima di sparire. Non sapevo in quale pasticcio mi stessi infilando, dato che lei non aveva nascosto i suoi sentimenti, ma per me non era mai stata più di una studentessa modello, che andava bene ai test e rispondeva ad ogni quesito durante le lezioni. Niente di più. "Cavolo, quella situazione non mi piaceva affatto. Come potevo rimediare ai voli pindarici della ragazza?" Pensai una volta da solo e alzai gli occhi al soffitto.
Federica
«Dottore—!» esclamò qualcuno, mentre ero intenta ad infilarmi la camicia azzurra, per chiudere il turno e tornare a casa.
Con la coda dell'occhio mi guardai indietro e beccai un giovane dai capelli rossi che fissava incantato le mie spalle lasciate scoperte dal tessuto. Notando che lo avevo scoperto, si coprì la faccia con la cartella medica e si ritirò in un angolino dello spogliatoio.
"Pazzesco! Dov'era finita la mia privacy in certi casi?"
«Non puoi piombare qui dentro, mi sto cambiando!» lo ammonii.
«Mi scusi tanto, giuro che non ho visto nulla di nulla.» si scusò.
Dato il suo silenzio sospettoso, mi girai un'altra volta, vedendolo ficcanasare in un specchio.
«Non pensarci nemmeno!»
Il giovane distolse prontamente gli occhi e finii di appuntare i rimanenti bottoni.
«Dai, girati, cosa vuoi?»
Obbedì e si voltò subito. «Il dottor Daliana dice che vuole vederla al più presto, quando avrà terminato. Chiede di aspettarlo.» aggiunse mentre passavo la mano con disinvoltura tra i capelli che - seppur fossero cortissimi- avevano comunque bisogno di una sistematina.
Il ragazzo tornò a contemplarmi come se gli fosse venuta un'improvvisa paresi al viso e con lo sguardo imbambolato senza sbattere mai le ciglia.
«Non posso vederlo la mattina?»
Ora non avevo tempo di stare dietro ai capricci di quell'uomo.
«Ehm… riguarda l'operazione che non ha approvato.» continuò con difficoltà.
«Non è stato capace di reagire e ora vuole che rimanga, no?»
«Esattamente. Ah, cioè no...» si affrettò a correggersi e mi piegai per recuperare il cappotto sulla panca. «Be', non lo so. Lo aspetterà?»
Tolsi la chiave dopo aver chiuso con tre mandate l'armadietto personale. «Che intervento sta eseguendo?»
«Emorragia subaracnoidea generata da aneurisma.» Sventolai la mano in aria. Allora ne avrebbe avuto per altre quattro ore, come minimo.
«Tarderà molto e, per di più, odio aspettare.» Gli tolsi dalla mano la tazza e assaggiai qualche sorso, era zuccherato, ma non molto.
Il rosso invano tentò di dire qualcosa, ma quando lo guardai di sottecchi, rinunciò. «Si diverta e buona serata dottoressa.»
«Grazie. Gradevole il caffè.»
«Ancora una cosa.» mi bloccai osservandolo con la tazza in mano. «Sta piovendo. Prenda un ombrello o si bagnerà.»
Mi avvicinai di qualche centimetro a Matteo, leggendo la targhetta sul suo camice, e gli diedi un buffetto sul braccio.
«Questo puoi dirlo alla ragazzina con cui esci. Non a me. Io starò bene.» Dopodichè uscii dallo spogliatoio, arrivando verso l'atrio accompagnata dal ticchettio delle mie décolleté che Nina mi aveva implorato di comprare settimane fa. Visto che quella ragazza amava quello stile "raffinato" l'avevo accontentata.
Ma era stata una pessima idea metterle oggi, dato che appena varcai l'uscita, scoppiò un forte temporale. Rischiavo di bagnare le scarpe e indietreggiai di qualche altro passo per rimanere sull'asciutto. Eppure era ancora il periodo estivo e per l'autunno mancava tanto. Avevo fatto male i calcoli. Mi venne quasi da ridere e poi osservai le gocce di pioggia che cadevano dal cielo e si frantumavano sulla strada. Avevo sempre amato la pioggia da ragazzina, ma stavolta restai immobile a guardare.
Ad un certo punto, una voce che conoscevo bene, mi sorprese come il diluvio.
«Ti vedo di fretta.» Distolsi gli occhi e infastidita ignorai il nano malefico. «Capisco che siano costose… E sono anche molto carine.» Si fece vicino per sussurrarmi. «Ti donano.» Continuai a non dargli attenzione e a guardare qualsiasi dettaglio, tranne la sua faccia. Giovanni mi strappò la tazza e bevve il caffè.
«Che diamine fai?»
Fece una smorfia, disgustato. «Eh, cos'è questa roba? Zucchero?»
Gliela tolsi, guardandolo torva. «Che stai facendo?»
«Volevo provare il tuo caffè.»
«Con quale permesso?»
C'era un cestino nelle vicinanze e fui costretta a buttare tutto per poi tornare vicina a lui, sempre a distanza di sicurezza, con le braccia conserte e il naso all'insù.
«Ehi, volevo vedere se avessimo interessi comuni…»
«Be', non c'è bisogno.» affermai distogliendo lo sguardo.
«Perchè?» insistè.
Mi stava dando i nervi e mi rivoltai. «Perchè non mi interessa saperlo.»
Osservai il cielo completamente nuvoloso e un fulmine lo squarciò, facendomi trasalire sul posto e indietreggiare ancora di più.
Tanto per fare qualcosa che mi avrebbe fatto perdere la pazienza, si mise a sghignazzare. «La verità è... che sei cambiata. Sembri diversa.»
«Qual è il tuo problema?» gli chiesi fronteggiando i suoi occhi verdi e tenendomi a due millimetri dalla sua faccia, che avrei preso a schiaffi. «Perchè mi stai addosso tutto il santo giorno?»
Un sorriso gli increspò le labbra e lo incalzai a rispondere con un successivo cenno del capo. «Davvero non conosci la risposta a questa domanda?» Lo guardai con la stessa intensità di quella pioggia che riempiva il silenzio, con gli occhi incollati ai suoi e non li distolsi nemmeno per un secondo. Giovanni a quel punto aprí il suo ombrello, senza rompere il contatto visivo, e lo sollevò a rallentatore sulle nostre teste. Sembrava assistere alla scena di un film, dove poi i protagonisti si sarebbero baciati profondamente. Ma non era il nostro caso. Mi guardò come si aspettasse qualcosa. «Gli uomini amano scherzare con le donne che gli piacciono.» Poi allungò la mano per toccarmi i capelli inumiditi e mi sfiorò il secondo orecchino sul lobo, e il tutto mentre continuavo a fissarlo come se ne dipendesse la mia intera vita. "Stavo diventando patetica". Spostò gli occhi sulle mie labbra e poi ritornò ai miei occhi. L'incantesimo però si spezzò e tornai a riprendere il controllo del mio cervello.
Mi ripresi e piuttosto che rimanere lì come una bella statuina, affrontai l'acquazzone, spostandomi dall'ombrello e correndo, alzai il cappotto sulla testa per evitare di farmi una doccia in piena regola. Il tacco mi tradí incastrandosi nelle grate, ma tenni l'equilibrio.
«Federica!» Giovanni mi raggiunse, mantenendo l'ombrello. «Ma cosa fai? Ti stai inzuppando!»
«Starò bene, non mi scioglierò.»
«Sì lo so, ma prendi un ombrello prima di andare.» suggerì.
«Non serve. La caffetteria di Angelina è qui accanto e…—» Sgranai gli occhi per aver appena parlato troppo. La prossima volta avrei dovuto cucirmi la bocca.
«Angelina?» ripeté sorpreso e lo guardai con gli occhi sgranati. «Angelina ha una caffetteria accanto!?» Scossi la testa nel vano tentativo di rimangiarmi quanto detto, ma ormai il danno era fatto.
Giovanni non era stupido e non avrebbe creduto a un'altra bugia.
[...]
Non era stata una brillante idea confessare che la mia amica aveva un locale in città, col rischio che mi seguisse lì, ma tentai disperatamente di anticipare il suo arrivo.
Mi fiondai a bussare energicamente alla porta del locale della castana, che in quel momento senza nessun cliente in vista, aveva montato un karaoke e stava ballando sulle note di una canzone.
«Volevo ballare con lui eh, eh! Ma sto qui a pazziare co’ te… tienilo a mente, tienilo a mente, che non ho più niente, ho solo te…» attraversava con nonchalance quei tavoli vuoti, sparsi per la sala, muovendosi meglio di una ballerina professionista di Amici.
Dovetti quasi strillare il suo nome per coprire la radio che suonava a tutto volume e ansimare, come se fossi scappata da un gruppo di zombie pronto a divorarmi.
Nina si spaventò appena notò il mio aspetto stravolto.
«Nina! Nina!» mi avvicinai al tavolo con i polmoni che stavano per collassare, avevo corso una maratona, e andò di corsa ad abbassare il volume.
«Cosa c'è? Perché sei così alterata? Sembra che qualcuno ti abbia inseguito. Fede non sarà mica scoppiata un'apocalisse zombie a mia insaputa?»
«No...» biascicai, alzando il palmo della mano. «Peggio di un'apocalisse. Molto peggio.»
«Cosa?! Molto peggio? Un tossicodipendente! Dove sta? Aspetta, prendo un coltello!» Stavo tentando di spiegarle che non era niente di tutto quello che stava pensando. Tentai di afferrarle il braccio, ma una voce maschile mandò a farsi benedire i miei tentativi di farmi ascoltare.
«Angelina?»
Mi girai e, al contempo, anche la mia amica, spalancando la bocca formando una "o". «Non può essere… il signor "Perfetto". Non c'è da stupirsi se eri a corto di fiato, tesoro.»
Camuffai il evidentissimo senso di imbarazzo misto a nervosismo, fingendo un colpo di tosse, e le tirai una sberla.
Giovanni intanto stava mostrando un sorriso ed entrò avvicinandosi a noi.
«Bene, non hai intenzione di offrirmi un caffè?» Angelina imbarazzata gli diede un bacio sulla guancia. «Come stai?»
«Che sorpresa!»
«Ti trovo in splendida forma e sicuramente sai preparare il caffè più delizioso della città.»
Intanto che continuava a complimentarsi con lei, appoggiai la giacca sullo schienale della sedia.
«Non ci posso credere! Le mie preghiere sono state ascoltate!» esclamò facendomi sollevare la testa di scatto. Ecco che ripartiva con le solite fantasie da dodicenne. Gesticolò con le dita.
«Allora voi due-»
Giovanni stava per risponderle, ma lo anticipai. «Lavoriamo nella stessa caffetteria… ehm, nello stesso ospedale.» balbettai, dandomi una manata mentale e gli indicai di sedersi.
«Caspita! Che roba!» commentò la castana, prendendo posto. Mi coprii la bocca con la mano e aggrottò la fronte guardandomi, rivolgendo poi l'attenzione a Giovanni. «Non stava lavorando a Seattle, professore? Federica mi ha detto che si sarebbe trasferito a New York. Se avesse voluto tornare, Federica l'avrebbe scoperto e—» Angelina Mango stava firmando la sua condanna a morte se avesse continuato la frase, e le tirai un calcio contro il piede, facendola sussultare. Si lasciò andare ad una risatina quasi isterica, mentre distoglievo lo sguardo. «Ehm… no, no, Federica non me l'ha detto, forse l'avrò letto in un'intervista sul giornale...» Mi guardò con la coda dell'occhio. «Vero, Fe?»
«Vero.»
Abbassò lo sguardo, mettendo il broncio, e quasi desiderai di scomparire con il mantello dell'invisibilità.
«Sì. Non rientrava nei miei piani rimanere. Era solo una vacanza.»
«Quindi non pensi di restare?»
«Ti piacerebbe?»
Gettai un'occhiata a Nina, che si limitava a fissare la scena, in silenzio.
«Non lo so. Non mi interessa. Per favore.» bisbigliai l'ultima frase.
«Non ti importerà, se lo chiedi.»
«No… non lo so. Voglio dire… così avrai tempo per spiegarmi come hai messo la sonda, per questo ho chiesto. Nient'altro.» obiettai, gesticolando goffamente. Stavo facendo la figura dell'idiota, e Giovanni stava gongolando.
«Chissà?»
Roteai gli occhi e Nina rise a sua volta. «Chissà?» Quei due si erano messi d'accordo per farmi commentare un pluriomicidio. «Il ritorno dell'insegnante perfetto! "Un amore proibito" ora nei cinema!» Portai la mano alla fronte per le sue esternazioni sciocche. Aveva scambiato la mia vita per una terribile commedia melensa. Di questo passo, avrei finito col strozzarla. Poi sgranò le iridi, slittando lo sguardo da me a lui. «Aspetta, aspetta… e la strega? Anche lei esce? Dico, in ospedale? Anche lei lavora lì?» quasi gemette. «Oh, tutti e tre nello stesso ospedale. Non voglio neanche immaginarlo...»
«Nina, puoi smetterla di dire cavolate?» la fulminai con uno sguardo adirato e gli occhi fuori dalle orbite.
Se parlava... era morta.
Liquidò il mio avvertimento, sventolando lo straccio, e si rivolse a Giovanni. «Professore… supponiamo che lei e Federica iniziate a frequentarvi e passate allo step successivo. Quella strega non può farvi licenziare, vero?» Si sostenne il mento sul palmo e poi ridacchiò, sfiorandogli la mano. «Suo padre è il proprietario dell'ospedale, vero?» Le tirai un altro calcio, stavolta più potente, strappandole un urletto, e una smorfia gli si dipinse in faccia.
Così imparava a stare zitta una dannata volta e a non farmi fare figuracce.
Nel frattempo, il cellulare dell'uomo squillò e si affrettò a prenderlo.
«Nina, facciamo il caffè.»
Probabilmente doveva essere la moglie che si chiedeva perché non fosse ancora a casa.
«Aspetta ancora qualche minuto.»
«Nina!» Le afferrai il polso e la costrinsi ad alzarsi, spingendola nel locale per le spalle. «Su, andiamo!»
Arrivammo in prossimità del bancone, e smorzò la risatina.
«Non posso crederci! Ricordi cosa ti dissi? "Puoi immaginare che riappaia un'altra volta e… si scopre che è ritornato il primo giorno!"»
Mi sporsi verso il suo viso.
«Nina, Nina… sta’ zitta. Ti sentirà. Stai dicendo sciocchezze e mi stai mettendo in imbarazzo! Come farò a guardarlo in faccia domani mattina, me lo spieghi!?» Giovanni interruppe la conversazione e ci girammo, vedendolo sulla soglia. Ci informò che avrebbe preso il caffè più tardi, gli era sorto un inconveniente, e alzammo il palmo a mo' di saluto. Notando il mio gesto, incrociai a disagio le braccia al petto, e Nina lo invitò a passare ogni volta che voleva. Lui salutò per l'ultima volta e se ne andò.
A momenti, gli avrebbe addirittura steso il tappeto rosso come i principi persiani...
«Non ci posso credere!» urlò impazzita e tirai un profondo sospiro, con la mano sulla fronte. Era un caso irrecuperabile quella ragazza. Le serie che vedeva grazie al mio abbonamento Netflix le avevano fuso i neuroni. Quella non era una classica serie TV e io non ero la protagonista in cerca del principe azzurro. «È come nelle serie in televisione, "diversi anni dopo si incontrano di nuovo e..."»
«Sembra più una stucchevole telenovela. Che bella storia! Un uomo sposato e un giovane dottore. Il regista meriterebbe l'Oscar!»
Ovviamente, ero ironica.
«Cosa? Il professor perfetto è sposato?»
Più che professore perfetto, era un nano malefico, venuto a sconvolgermi i piani. Stavo così bene, senza di lui.
«L'hai appena visto. È stato chiamato e se n'è andato. Sono sicura che sia stata sua moglie.»
Nina rivolse lo sguardo all'uscita e poi alla sottoscritta. «Sì, ma non ha nessun anello al dito.»
«Non devi indossarlo. Inoltre… non mi importa! Smettiamola di parlarne, perché stai dicendo solo un mucchio sciocchezze e sono già piena.» Le diedi le spalle per passare dalla parte opposta del bancone e prepararmi una cioccolata. Era quello che serviva. Anzi, sarebbe stato meglio una tisana.
«Mio Dio, sposato. Allora avrà trovato la sua dolce metà. Chi sarà, chi sarà?» ripeté come un disco rotto e mi voltai di scatto, ammonendola.
«Angelina Mango! Se non la smetti, stanotte dormirai fuori al balcone.»
«Va bene, d'accordo! Ed ora vedrai, ti farò dimenticare tutto lo stress accumulato e ma, ma, male che vada, ci pensiamo domani, baby.» Mi puntò contro l'indice, facendo l'occhiolino e si allontanò per combinare qualcosa. Mi concessi un sorso di cioccolata, per poi appoggiare la tazza sul bancone.
Prima di godermi qualche ora tranquilla dopo una giornata intensa, inviai un messaggio a quel dottore, chiedendogli di raggiungermi lì. Non avrebbe avuto nulla in contrario, se intendeva farmi una ramanzina.
[...]
Le cose procedevano abbastanza tranquille. Nina aveva finito di riordinare, non c'era nessun cliente a quell'ora e stavo mettendo un po' di smalto sulle unghie dei piedi. Mi capitava raramente di pensare a me stessa, con il lavoro che facevo non ero mai libera. Eravamo sedute all'esterno e fu la castana a spezzare quel silenzio benefico per le mie orecchie.
«Come sarà?» pensò ad alta voce.
Posai la boccetta di smalto sul tavolo. «Di che stai parlando?»
«Di sua moglie. La signora Rinaldi. Non sei curiosa anche tu?»
Rinunciai a bere, allontanando la tazza per posarla, e Nina continuò a limare le unghie e a soffiarci sopra.
«Non mi interessa.»
«Be', a me sì, mi interessa. Con chi sarà sposato? Non vedo l'ora di vederlo.»
«Di questo passo, non ci vorrà molto prima di scoprire chi sarà stata la sfortunata.» sottolineai, guardando di fronte a me.
«Vero...»
Abbassai lo sguardo, scrollandomi il pantalone, e poi ruotai il capo verso Nina che mi rivolse uno sguardo accompagnato da un tenero sorriso. Lasciai scivolare via il broncio e tornai a sorridere. «Aspetta un attimo e non muoverti.» La radio intanto stava ancora trasmettendo canzoni anche se a un volume più moderato e intanto rovistai nella pochette, per poi nascondere l'oggetto dietro la schiena.
Scostai una scarpa con il piede e mi rimisi seduta, per poi mostrarle un pacchettino rosa.
Lo avevo comprato appositamente per lei ma lo stavo per dimenticare.
"Che testa… la mia."
«Per me. Cos'è?»
«Un regalo.»
«Hai pensato di nuovo a tua nonna, vero? Ogni volta che pensi a lei mi porti un regalo diverso.»
Nina mi conosceva bene.
In effetti, era il mio chiodo fisso. Da quando era morta.
«Aprilo! Andiamo.»
Lo scartò entusiasta, come una bambina nel giorno di Natale, e appena vide il regalo, gli occhi le si illuminarono. «Mi piacciono moltissimo!» Poi mi guardò e si gettò di slancio fra le mie braccia. «Ma saranno molto costosi. Non dovevi. Finirai per viziarmi.»
«Se non li compro a te, a chi sennò, tesoro? Sei la mia unica famiglia. Ti voglio bene e voglio renderti felice.» Indossò immediatamente i magnifici orecchini d'argento a forma di stella e con un sorriso glieli toccai. Erano veramente perfetti, come lei. «Come sei bella, Nina.» Le presi il viso fra le mani stampandole un dolce bacio sulla guancia.
«Anche tu, chirurgo. Ti voglio bene anch'io.»
A quel punto, il mio cellulare mi avvisò dell'arrivo di una nuova notifica e lo guardai. Era un messaggio proveniente dal famoso dottor. Daliana.
“Vieni subito in ospedale.”
Non scendeva a compromessi neanche a pagarlo, quasi mi venne da sorridere e scossi la testa. Mio malgrado, dovevo cedere, e infilai di nuovo quei scomodi tacchi a spillo.
«Dove stai andando, Fe?»
Mi unimidii le labbra. «Il dottore di cui ti ho parlato mi ha scritto. Vuole che vada in ospedale.»
«Ma non era lui quello che doveva venire qui?»
«Doveva.»
Recuperai il cellulare dal tavolo, la borsa che avevo lasciato sull'altro e agguantai il cappotto, stendendololo sull'avambraccio.
Nina mi osservò malinconica e anch'io credevo di aver smesso di fare lotte, ma a quanto pare mi sbagliavo.
«Vado incontro al mio primo combattimento. Augurami buona fortuna.» Le mandai un bacio volante per poi dirigermi verso il plotone d'esecuzione.
Ci voleva fegato per sfidare un dottore dall'orgoglio ferito.
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