Capitolo 17.1 - Fino al mio ultimo respiro
Giovanni
Tornai verso la camera del ragazzino e Gianmarco aveva adempiuto al compito che gli avevo dato e non aveva lasciato entrare nessuno.
Gli poggiai la mano sulla spalla, dandogli una pacca amichevole. «Ben fatto, Gianmarco. Digli che preparino Bruno per l'intervento. Non c'è tempo da perdere.» Il castano si defilò e mi guardai attorno. Erano ancora tutti lì. «Ragazzi, perché non siete tornati al lavoro?»
«Aspettate, aspettate, vieni! - esclamò il dottor Svevi con tono imperioso, bloccando Gianmarco per farlo tornare indietro, e si posizionò di fronte - Non riesco a trovare la signorina Federica da nessuna parte.» aggiunse.
«Infatti non è qui. Arriverà fra poco.»
«Lo so, ma non puoi prendere alcuna decisione. Dobbiamo attendere che arrivi la cara dottoressa Andreani, quindi no, nessun intervento.» Sentenziò.
«Signor Paolo, senta, questo ragazzino dev'essere operato al più presto. Non può aspettare i suoi comodi.» L'uomo distolse lo sguardo e scosse la testa in segno di diniego, traendo un sospiro. Il signor Alessandro si fece spazio tra i presenti per passare e avvicinarsi, chiedendomi se avessi finalmente intenzione di operare suo figlio. Gli sorrisi percependo la sua agitazione. «Certo.»
«Mi dispiace, ma no.» Obiettò.
«Ma il dottore ha detto che...»
«Senta, capisco che non ha soldi però... noi non siamo un'ente di beneficenza per poveri disgraziati.»
«Le giuro che sto cercando i soldi.»
«Conosco i tipi come lei, ogni volta piangono in un angolo sforzandosi di fare pena.»
Mi diede particolarmente fastidio il suo atteggiamento strafottente, in una situazione del genere dove un padre voleva salvare la vita dei suoi figli era oltretutto fuori luogo un'uscita simile.
In uno scatto adrenalinico, gli afferrai il polso e lo presi per le spalle, allontanandolo dall'uomo.
«Cosa pensa di fare, eh? Cosa sta facendo? Non ha il diritto di rivolgersi così a una persona. Non si può parlare così ad un uomo che fa di tutto per i suoi bambini.»
Mi fece staccare le mani dal suo corpo e si liberò con un leggero strattone guardandomi in faccia.
«Devi sempre sembrare l'eroe coraggioso, vero, Rinaldi? Hai bisogno di essere acclamato. Eh?» Sussurrò più volte il mio nome per sfottermi, ma le mie azioni erano per cause giuste e non per mero interesse economico. Il signor Alessandro intanto intervenne, supplicandolo e spiegando che nessuno gli aveva voluto prestare un centesimo e non sapeva cos'altro fare per ovviare a quella mancanza. «La smetta! Faccia quello che vuole. Chi le ha chiesto di venire qua?»
«Basta!» Urlò il ragazzino e ci voltammo contemporaneamente nella sua direzione. Bruno ci guardò con un sorriso tirato sulla soglia, poi si affiancò al genitore e lo prese per mano. «Non urli contro mio padre! Una volta aveva i soldi, adesso non più! Ha sempre lavorato duro per noi.»
Il padre lo abbracciò, per rassicurarlo che nessuno aveva alzato la voce e che stavano semplicemente conversando. Guardai di rimando Svevi per qualche secondo con un'occhiata truce. Non aveva un briciolo di empatia e umanità in certi casi.
Federica
Enne fermò il suo bolide davanti all'entrata principale del Maddalena Center e smontai dalla sella, posando il casco nel bauletto. «Grazie per tutto.»
Mi fece il solito saluto militare e scosse il capo. «Ricevuto, principessa! Se hai notizie di Alessia, chiamami. Per quanto riguarda Bassiano... troverò qualcuno che ha lavorato in quella clinica. Non intendo lasciar correre.»
«Ok, però non fare nulla senza avvisare me. Ciao.» Mi trattenne la sua mano che aveva afferrato saldamente la mia.
«Federica!» Alzai a rallentatore lo sguardo perplessa e ridussi le palpebre. «Sono tornato però devi sapere il perché. Devi sapere cos'è cambiato.»
Osservai le sue dita intrecciate alle mie e poi distolsi lo sguardo per riflettere. «E cos'è cambiato?»
«Niente.» Inclinai il capo da un lato e quasi dischiusi le labbra. «Sono sempre lo stesso ragazzo follemente innamorato di... - slegai la mano dalla sua di scatto prima che si facesse strane pare mentali. - te...»
«Per me non è cambiato niente. Amo ancora Giovanni.»
«Ho visto l'anello al tuo dito.»
«Allora smettila!»
«Ma ho tempo finché quell'anello non sarà sull'altro dito.»
«Se continui a pensarla così e vuoi crearmi problemi, ti consiglio di non venire più.» Agitai l'indice per enfatizzare quell'ordine tassativo. Doveva darci un taglio con quella storia. Sostenni intensamente gli occhi del mio migliore amico e lui accennò un mezzo sorrisetto.
«Va bene. Volevo solo tentare la fortuna.»
Senza rispondere per non rischiare di dargli un pugno in pieno viso, volsi le spalle ed entrai in ospedale.
Giovanni mi venne incontro e mi avvicinai, schiarendo la voce con fare imbarazzato.
«Hey, benvenuta.» Mi accolse con un sorriso smagliante.
«Ehm, grazie.»
Dopo qualche secondo di silenzio, riprese. «Sai cosa mi è venuto in mente? Quando mi hai dato del "macho" in macchina.»
Mi strinsi nelle spalle. «Scherzavo, G.»
«Lo so e adesso sto scherzando anche io.» Alzò la testa e ridusse gli occhi in fessure. «Se fossi stato un "macho" come hai detto, avrei messo il nostro amico Nicolò al suo posto molto tempo fa, non credi?»
«Dai, non dire cavolate.»
Rise. «È proprio quello che ho pensato: "Non dire cavolate, Giovanni". Sei quel tipo di uomo?»
Mi fece increspare un leggero sorriso e ruotai il collo. Mi agguantò le spalle in procinto di assottigliare quelle distanze che ci separavano, ma fummo brutalmente interrotti da Tommy Dalì. Mi stava chiamando di continuo sventolando il braccio, poi rivolse un cenno di saluto col capo a Giovanni. Quest'ultimo si congedò per controllare i bambini un'ultima volta e annuii. Il castano si scusò per aver interrotto qualcosa, ma scossi la testa per dissentire.
«Ehm, hai visto Alessia?»
«No, la sto cercando anch'io, in effetti. Ha detto che sarebbe tornata. Non è ancora arrivata?»
«Ancora no.»
«Accidenti...» Roteai gli occhi. «Quando mi ha chiamato era al ristorante di papà. Ha detto che sarebbe tornata in ospedale e ha riattaccato.» raccontai e alzò gli occhi al cielo.
«Probabilmente sarà ancora lì.»
«No, sono andata a cercarla e non c'era. Ha lasciato la porta e la finestra aperta e se n'è andata. È molto strano che non sia in ospedale.»
«Beh sì, considerando che vive praticamente più in questo ospedale che a casa sua.» Precisò il giovane e schioccai la lingua al palato, alzando gli occhi.
«Ha detto che sarebbe tornata qua. Dove diavolo si sarà cacciata quella ragazza?» Mi chiesi tra me e me. Venni attraversata da una strana sensazione, come un presentimento sulla sua assenza. Alessia non avrebbe lasciato vacante il suo posto di lavoro senza una spiegazione valida.
[...]
Sbattei la porta dietro di me entrando per catturare l'attenzione del medico bastardo e mi diressi verso la sua scrivania dietro cui era seduto.
«Sei venuta per niente.» Esordì senza staccare lo sguardo dai fogli che stava compilando. «Ho già informato Giovanni che non accetterai le quote.»
«Credi di avere la confidenza per decidere al posto mio?»
«Non è così?» Poi finalmente mi squadrò, voltando il busto e chiuse il documento. «Cosa succede? Hai intenzione di accettare le quote del tuo caro suocerino? Quindi è vero che tutti hanno un prezzo.» schernì.
«Non si tratta solo di soldi, reputazione ed etichette. Vero?» Si rizzò con la schiena, punto nell'orgoglio dalle mie parole. «Dimmi, quando è stata l'ultima volta che hai aiutato qualcuno senza aspettarti nulla in cambio?» Svevi abbassò lo sguardo. «Mhm?» Il suo silenzio fu già un evidente affermazione. «Non lo ricordi neanche.» Rialzò gli occhi. «Accetterò quelle azioni.» Guizzò le sopracciglia. «Quei bambini verranno operati in quest'ospedale, e non solo loro. Opereremo chiunque ne avrà bisogno e chiunque entri da quella porta. Sarà meglio che ti ci abitui.» Sentenziai senza farmi spaventare dal suo sguardo severo. L'uomo, nel frattempo, si alzò in piedi provando a sovrastare la mia figura.
«E se non mi abituassi, eh? Cosa farai? Cosa faresti?» Mi sfidò.
Presi un sospiro. Se ci teneva a saperlo, l'avrei accontentato con immenso piacere anche se non gli sarebbe affatto piaciuto.
«Vuoi che ti racconti il finale della storia?» Restò a fissarmi senza muovere un singolo muscolo facciale. «Perderai. Rassegnati, prima che sia troppo tardi.» Dopo aver lanciato un ultimo avvertimento, abbandonai l'ufficio del mio acerrimo nemico senza guardare indietro ma con la soddisfazione di averlo visto schiacciato dalle sue stesse manovre infide.
Tommaso
Mentre camminavo in corridoio affianco a Federica, lei cercò - per l'ennesima volta - di rintracciare la rossa. Non era normale che non rispondesse alle innumerevoli chiamate. Non era il tipo che ignorava il suo dovere.
«Deve esserle capitato qualcosa.» ipotizzò la mora fermandosi.
«Non pensiamo al peggio. Magari ha la batteria scarica del telefono. Non possiamo saperlo.»
«Ha anche litigato con il fruttivendolo della zona da cui papà si rifornisce.»
«E perché?» chiesi accigliandomi.
«Non lo so, non capisco, ma è abbastanza anomalo.»
«Cosa facciamo quindi?»
«Ho da fare con i pazienti. Puoi chiedere a sua madre, forse sa qualcosa.» suggerì la mia collega.
«Ok, me ne occupo io.» risposi distogliendo lo sguardo dal suo per puntarlo un attimo alle scarpe. «Chi scopre qualcosa lo riferisce all'altro, ti va bene?» Federica acconsentì - anche lei angosciata che Alessia fosse nei guai e ci separammo all'incrocio tra i due corridoi. Svoltai a destra, dal mio canto, verso la camera della signora Rebecca. Bussai ed ebbi il permesso. Andai verso il letto della paziente, vedendola sbucciare una mela. «Si sente meglio?»
«Sì, meglio. Vuole?» Mi offrì uno spicchio del frutto ma rifiutai.
«Volevo chiederle di Alessia. Sa dove si trova sua figlia o dove potrebbe essere?»
«No...» Tentennò. «Ho chiamato ma non risponde.»
«Il telefono è spento e non si riesce a raggiungerla.»
«Non si riesce a raggiungerla? Dio, dov'è finita?»
Distolsi lo sguardo, sussurrai tra me e me anziché alla paziente.
«È quello che sto cercando di scoprire.» Il mio sguardo si focalizzò sul piatto di frutta posato sul grembo della donna. «Ho sentito che ha litigato con il fruttivendolo della zona, ma non so se c'entra qualcosa...»
Fuoriuscì uno stridulo. «Cosa? Quale fruttivendolo?»
«Quello da cui vi rifornite per il ristorante, immagino.»
La donna era sempre più impacciata e nervosa, mosse le mani instintivamente senza rendersene conto. «Non può essere. Cosa c'entra Alessia con il fruttivendolo, mi scusi? Mi ha detto che era stanca dopo queste ore e si sarà addormentata.»
«Sì certo, la ringrazio. Arrivederci.» Mi avviai alla porta e quella conversazione aveva alimentato altri dubbi già orbitanti nel cervello.
Mi era parsa troppo in ansia quando gli avevo chiesto la questione del fruttivendolo.
Giovanni
«Signor Alessandro!» lo chiamai mentre era impalato davanti all'ascensore, ma non mi calcolò di striscio infilandosi dentro non appena le porte si aprirono. Avanzai in quella direzione perplesso, smettendo di sfogliare la cartella e guardai il led scorrere velocemente, salendo verso i piani superiori. "Quell'uomo non sembrava in sé" pensai, ma scacciai via quel brutto pensiero, entrando nella camera di Alex e Bruno sorrise ampiamente alla mia vista. Lasciai una carezza sul viso del più grandicello e mi accomodai al capezzale del piccolino.
«Dottore, ci darà la buona notizia che ha detto papà?» chiese il giovanotto di dieci anni, poi si sedette sul ciglio del lettino.
«La buona notizia? Lo ha detto papà?»
«Sì, stavamo giocando a un gioco. Ci ha detto che se contavamo fino a dieci avremmo avuto un'ottima notizia, ma se n'è andato.»
«Un'ottima notizia, eh? Beh, eccola qui. Vostro padre ha proprio ragione. Ho una buona notizia!» esclamai guardando prima l'uno e poi l'altro. Bruno con orgoglio guardò il fratellino.
«Vedi? Si è avverato!» I due successivamente batterono un cinque.
«E io invece?» Mi finsi offeso, mettendo il broncio, e mi batterono entrambi un cinque. Ridemmo tutti e tre. «La vuoi allora la buona notizia?» Bruno annuì e mi sporsi leggermente. «Oggi ti opereremo.» Gli brillarono gli occhi, sorrise, e si gettò a capofitto su di me per abbracciarmi forte e gli diedi qualche pacca sulla schiena, condividendo quella felicità a trecentosessanta gradi. Poi si rimise seduto. «Starai meglio.»
«Grazie moltissimo, dottore!»
«Diamo la buona notizia anche a vostro padre. Sapete dov'è andato?»
«È andato a nascondersi.» rispose Alex mentre Bruno fece spallucce. «Lo cerchiamo?»
«Nascondersi?»
«A proposito, dottore, mio padre mi ha chiesto di darle questo...» Fece il ragazzino tirando fuori dalla tasca una carta di credito assieme ad un foglio piegato su se stesso. Quel pensiero mi balzò alla mente rivedendo la scena di poco fa: lo avevo visto entrare in ascensore e salire di sopra. Tornai prepotentemente alla realtà e per non preoccupare i bambini, dissi che avrei cercato il papà per dargli la bella notizia così avremmo festeggiato insieme e corsi frettolosamente fuori dalla stanza e per il corridoio. Cazzo! Come avevo potuto essere così stupido? Così dannatamente superficiale da non capirlo prima. Immediatamente raggiunsi gli ascensori. «Non faccia questo ai suoi figli, per favore. È tutto sotto controllo, non lo faccia.» Mormorai tra me e me. Decisi di prendere la strada più breve, quei minuti erano preziosi, non li potevo sprecare, e sfrecciai lungo la tromba delle scale.
Se quell'uomo avrebbe commesso una pazzia, dovevo impedirlo con tutte le mie forze! Non poteva buttare via tutto e rinunciare alla sua vita senza nemmeno provare a combattere. I suoi bambini non potevano rimanere orfani. Raggiunsi il tetto e lo vidi sul cornicione intento a buttarsi di sotto, mentre stava baciando la fotografia, che stringeva fra le mani tremanti.
«Signor Alessandro!» Urlai ponendo la mano avanti.
«Stia lontano, dottore!» ordinò con il dito puntato. «Stia lontano!»
«Non lo faccia.»
Guardò per un momento in basso e singhiozzò. «Ma devo farlo.»
«No, non deve farlo. Senta, questa non è l'unica soluzione che ha. Per favore, non lo faccia. Scenda da lì.»
«Questa è l'unica possibilità.» replicò tirando su con il naso.
«Possibilità?» Tirai fuori dalla tasca il pezzo di carta e la carta di credito. «Questa è l'opportunità per i suoi figli? I soldi per la morte del padre sono l'unica possibilità?» Li buttai via con noncuranza.
«Avevo un modo per pagare le spese mediche. Avevo soldi, proprietà, tutto, ma è finita. Capisce?! Non mi è rimasto nulla. In questo momento i miei figli hanno più bisogno di quei soldi che del loro padre!» Strillò, adirato con sé stesso, facendo poi un passo verso il limite.
«Aspetti! Aspetti, la prego, non lo faccia. I suoi figli non hanno bisogno di soldi, hanno bisogno di lei, del loro papà... e nessun denaro potrà colmare l'assenza!» Negò con il capo. «È tutto sistemato. Bruno potrà operarsi, ok? L'ospedale coprirà le spese. Non lo faccia! Andiamo dai suoi figli. Senta, ho fatto loro una promessa, ho detto che avremmo festeggiato insieme la bella notizia, e la manterrò. Andiamo.»
«Non posso più vivere con l'acqua alla gola, dottore. Sì, avrà risolto l'operazione, però cosa potrò dare da mangiare ai miei figli?» Scosse la testa disapprovando, con la voce strozzata. «Non sono stato un buon padre. Non ho più la forza di sopportare questa situazione. Non capisce!?»
«Aspetti!» Fece per bloccarsi.
«Sopporterà tutto per il loro bene. Un genitore non può abbandonare i propri figli solo perchè non si sente all'altezza del suo ruolo! Lei ha il diritto di essere un buon padre. Pensa che saltando da lì, la situazione andrà meglio?» Lanciò un'occhiata di sotto. «I suoi poveri figli penseranno che il padre si sia tolto la vita per colpa loro! Non ha il diritto di lasciarli con un tale fardello.» Guardò avanti un'altra volta. «Mio padre è morto da poco e mi ha lasciato un fardello così pesante che, nonostante la mia età, non credo di poter sopportare. Capisce?» L'uomo chinò lo sguardo. «Nulla va come voglio, niente va per il verso giusto e che cosa devo fare? Mi devo buttare giù da un tetto? No!» Mi osservò di rimando. «Senta, i suoi figli sono troppo piccoli per sopportare questo peso, ok? Scenda da lì, per favore. Non gli rovini la vita.»
«Cosa succederà quando scopriranno la mia situazione?»
«É il loro padre. Sarà sempre come un eroe, anche se cadrà mille volte, si rialzerà e andrà avanti a testa alta! So che non sarà sempre facile, ma lo deve ai suoi figli. Sarà un buon padre e lì sosterrà sempre, li consiglierà e troverà una soluzione, ok? E forse, a volte, non la troverà, ma fa parte del gioco chiamato vita!» L'uomo mi rivolse un'espressione desolante. «Ma non lasci un fardello così pesante ai suoi figli. Non distrugga la loro vita, non ne ha il diritto!» Mi fissò un'altra volta. «Forza, signor Alessandro scenda.» Osservò in basso. «Per favore, scenda!» Diede un bacio alla foto e attesi, poi rispose con un lieve cenno d'assenso. Rischiò di incespicare, ma lo afferrai per le spalle, tranquillizzandolo che non ci sarebbero stati problemi. Si mise seduto sul cornicione e presi posto con lui.
[...]
«Scusa, sono un po' in ritardo.» Dissi a Federica non appena ci incontrammo nell'atrio. Ci eravamo dati appuntamento almeno una mezz'ora fa. «Il padre dei bambini, il signor Alessandro, si è quasi suicidato.»
Sgranò gli occhi marroni.
«Come dici? Ma sta bene?»
Beh, dire bene... era un parolone. Diciamo che aveva passato tempi migliori quel poveretto.
«Sì, non è stato facile convincerlo. In ogni caso, deve solo firmare i documenti.»
«Non preoccuparti, ci ho già pensato io.»
Scrollai le spalle. «Ci hai già pensato? In che senso?»
«Ho accettato le quote di tuo padre. Non trattenermi, ho molto lavoro da sbrigare.» tagliò corto.
«Oh... che bello! Ok capo, non ti trattengo.» Era così inspiegabilmente dolce quel giorno, il viso era illuminato di una luce particolare. «Dai, fammi un sorriso Fe, per favore.» Intrecciai le nostre mani e slegò quel contatto.
«Gio, che fai? Siamo in ospedale!»
«Siamo sempre in ospedale, e siamo fidanzati, ti ricordo.» Sottolineai a qualche centimetro dalla sua faccia.
«Sì, e nessuno lo sa.» Rimbrottò.
La guardai per qualche secondo prima di distoglierlo e riflettere.
«Dici?» Alzai gli occhi. «Mhm, giusto.» ripetei e la mora mi scrutò di sottecchi. Girai il busto in tutte le direzioni, i colleghi erano impegnati: chi a camminare, chi al bar, chi semplicemente di passaggio e, a quel punto, richiamai l'attenzione. «Scusate!» La mia futura moglie mi fece segno con il dito sulle labbra, sussurrando a bassissima voce: "sta zitto, non parlare, per favore!" Le presi il viso, chiedendole di aspettare. Roteò gli occhi e proseguii. «Potete venire tutti qui, per favore? Non vi ruberò molto tempo. Vogliamo darvi una bellissima notizia!» Esclamai con un sorriso gigante. «Io e Federica siamo ufficialmente fidanzati!» Partì un lunghissimo applauso da parte di tutti e la mora si coprì il viso con la mano per mascherare l'imbarazzo. Mi fissai il dito. «Mi manca l'anello.» Rise, poggiando la mano sulla guancia. «Devo comprarlo. Questo fidanzamento è la cosa più bella che mi sia capitata in quarant'anni di vita, ne ho tanti eh! - strappò qualche piccola risata - e la cosa più preziosa è l'amore, innamorarsi, amare, essere amati.» Dichiarai con gli occhi fermamente puntati sulla mia ragazza, che scosse leggermente la testa. «Quindi ve lo consiglio, grazie!»
Alla fine del discorso, tutti si avvicinarono per farci le congratulazioni per il futuro matrimonio e dispensai altri sorrisi e strette di mano. Restammo di nuovo soli quando la gente si dissipò.
«Sei fuori di testa.»
«Sono pazzo di te.» ammisi.
«Guarda cos'hai fatto. Saremo sulla bocca di tutto l'ospedale.»
«Cosa c'è di sbagliato, dimmi? Io ti amo, ti amo da morire, Fede. Non mi ami?»
«Non fare domande di cui già conosci la risposta.»
«Ah, sì? Forse voglio sentirla...» Guizzò le sopracciglia in alto e increspai un sorriso malizioso. Eravamo a pochi centimetri l'uno dall'altra. «Sento il tuo cuore battere per me.» Lasciai che il suo palmo aderisse al centro del mio petto. «E tu ascolta come batte il mio. Lo senti?» Si limitò a sbattere le palpebre e accennare un sorriso. «Il battito è come una musica. E non dimentichi, dottoressa Andreani.» Raccolsi la sua mano, accarezzando il dorso. «La musica ha un effetto curativo sulle persone, giusto? Questo battito ci curerà, te lo prometto. È il mio secondo trattamento. Anche se il primo in ascensore è stato il migliore.» Mormorai alludendo al nostro bacio e lei ruotò di scatto il viso.
«Non mi trattenere, altrimenti non sarà servito a niente accettare le azioni.»
Se ne andò in tutta fretta.
«Ok, non ti trattengo, capo.» Sorrisi a quel pensiero che mi era balenato: la paziente rispondeva bene al trattamento.
Il telefono - ovviamente, come se non bastasse - squillò. Mi avrebbe sorpreso il contrario e risposi. C'era un'emergenza al pronto soccorso.
[...]
«Salve, che sta succedendo?» chiesi quando arrivai. Gianmarco mi spiegò che la donna si chiamava Silvia Cesana, incinta alla trentesima settimana e vittima di un incidente stradale. Aveva avuto un colpo alla testa ed era stata sottoposta già ad una prima Tac. Studiai i risultati dal tablet. «Emorragia sottocutanea.»
«Il bambino è a rischio.» Intervenne una ragazza dai capelli scuri e lunghi. «L'ostetrica sta arrivando.»
La donna si lamentò dal dolore, costretta dal collare ortopedico a non muovere il collo, e mi chinai in avanti per rassicurarla. Lanciai un'occhiata al monitor e notai una macchia scura nel cervello del feto. Passai immediatamente dal lato opposto e afferrai l'ecografo dalle mani della giovane infermiera.
«Dottore, che dobbiamo vedere?»
«Il bambino ha un'emorragia cerebrale.»
«C-Come? Come ho fatto a non vederlo prima?» si chiese confusa, riprendendo l'ecografo per passarlo sull'addome.
«Verrà praticato il cesareo mentre intervengo sull'emorragia.» La ragazza annuì e ordinai a Gianmarco di preparare la sala operatoria. «Devo intervenire sia nel cervello della madre che della bambina. Portate la signora in sala operatoria!»
[...]
L'operazione era in pieno svolgimento quando oltrepassai le porte scorrevoli e mi avvicinai al tavolo operatorio, mettendo la mascherina sulla bocca. Mi spostai poi per verificare lo stato della nascitura e Gianmarco stava utilizzando l'ambu per riempire i suoi piccoli e fragili polmoni.
«Qual è la situazione?»
«Il polso e la pressione della madre sono irregolari, ma è pronta.»
«Fammi vedere il risultato della Tac.» Un collaboratore mi passò il tablet e studiai attentamente il negativo della lastra. «Prepariamo entrambe per un intervento cerebrale, forza.»
«Il punteggio di Apgar è 4. Deve andare in incubatrice. La bambina non sarà in grado di sopportare l'intervento, è impossibile.»
«Anita.»
Roteai gli occhi e ordinai a Gianmarco di eseguire. Non se lo fece ripetere e uscì. Guardai la giovane lanciarmi un'ultima occhiata infastidita, per poi continuare il lavoro in silenzio.
Tommaso
Ammetto che quella convocazione mi aveva lasciato titubante ed entrai nell'ufficio del signor Svevi, trovandoci anche il padre seduto sulla poltroncina. Chiusi la porta e mi avviai da loro.
«Volevate vedermi?»
«Vieni, Tommaso, siediti.» Con un cenno del mento mi indicò l'altra poltrona e mi accomodai unendo le mani. «C'è qualcosa di cui vogliamo parlarti.»
«E posso sapere di che si tratta?» Guardai entrambi stupito.
«Di te.» Esordì il figlio Paolo.
«Di me?»
«Ti ha sorpreso?» Mi interrogò.
Sogghignai. «Di questo ospedale mi hanno sorpreso tante cose, ma adesso non mi sorprende più così facilmente.»
«Veniamo al nocciolo: che tu ci creda o meno, siamo molto dispiaciuti per te.» Prese parola il signor Sergio.
«Per me? Vi dispiace?»
«Da un lato Giovanni e il suo ego, dall'altro i continui favoritismi di Federica nei confronti del suo futuro marito. Sappiamo che sei un po' sopraffatto dalla situazione.»
«E le cose si complicheranno ulteriormente adesso che Federica ha accettato le quote.» Specificò, dal suo canto, Paolo.
«Abbiamo deciso di farti una proposta che non potrai rifiutare, ragazzo.»
«Di cosa si tratta?»
«Se scegli di schierarti dalla nostra parte... ti daremo una posizione più importante.»
Accennai un mezzo sorriso.
«Più importante? Lo sono già. Cosa potete fare di più per me?»
«Dipende da te.» Aggiunse.
«Mhm...» Chinai lo sguardo contro il pavimento e pensai a quanto fosse ridicolo comprare le persone in cambio di altri favori più meschini. «Wow... Ok, va bene.» Mi rimisi in piedi. «È evidente dove si va a parare qui, ma scusatemi, non ho intenzione di fare questi giochetti.» Sorrisi a entrambi. «Un giorno arriverò al posto che mi merito grazie ai miei sforzi e al mio talento e non tramite questi mezzucci. Se non avete altro da aggiungere, e credo di no, grazie.»
Volsi le spalle, pronto per varcare quell'uscita.
«Tommaso!» Mi bloccai su due piedi e aria annoiata. «Licenziato!» Mi voltai a rallentatore con il busto. «Non hai niente da dire?»
Slittai lo sguardo su entrambe le loro facce basite e feci qualche passo in avanti. «Certo.» Sorrisi. «È stato un piacere.» Strizzai l'occhio e mi diressi velocemente alla porta.
Svoltai nel corridoio e mi guardai il petto, staccando il badge, per osservarlo qualche istante.
Non ero mai stato più leggero...
Alla vista della mia ex collega, lo infilai nella tasca del camice.
«Hai notizie di Alessia?»
«Sembra che sua madre non sappia nulla. Pensavo che avessi scoperto qualcosa tu.»
«Cosa si fa? Sono preoccupata.»
«Ok, non preoccuparti, ci penso io. Continuerò a cercarla, tanto non ho più niente da fare.»
«Ok, beh, se scopri qualcosa...»
«Ti avverto, tranquilla.»
«Ok, a più tardi.»
Se fosse stato possibile... Dato che ero fuori dai giochi.
«A proposito, Federica.» Si bloccò. «Sono felice che sia ufficiale. Capo!»
Schioccai la lingua sotto il palato e la ragazza roteò gli occhi incamminandosi nell'altra direzione. Lanciai un'occhiata sbrigativa al badge - non mi serviva più ormai - e proseguii, scendendo le scale per raggiungere il piano di sotto.
«Dottor Daliana!»
«Chiamami Tommy, eh! Tommy!» la corressi e Emanuela sorrise.
«La dottoressa Alessia ha dimenticato il suo taccuino in sala operatoria, ma non riesco a trovarla. L'ha vista?»
«Alessia non si trova da nessuna parte. Dov'è andata?»
«Non ha partecipato all'intervento?»
«Alessia?»
«Sì.»
«Doveva entrare in sala operatoria?»
«Esatto, dottore.»
«No, questa cosa non è da lei.» Era una ragazza responsabile e con i piedi piantati a terra. «Dammi pure il tacchino, glielo farò avere in qualche modo. Prima o poi la vedrò.» L'infermiera me lo consegnò e se ne andò. La curiosità prese il sopravvento e lo aprii, facendo sfuggire i fogli al suo interno. «Ops, la signorina Alessia perderà i suoi disegni...» Mi chinai per raccoglierli e quando girai l'ultimo mi resi conto che era un mio ritratto delineato nei minimi dettagli. Ci sapeva fare e sorrisi ampiamente. Erano tutte disegni che mi raffiguravano, in un altro avevo il camice...
«Sono io!» mi dissi sgranando gli occhi e lo ripiegai, mettendoli in ordine. La matita cadde a terra e raccolsi pure quella. Forse ero il protagonista dei sogni della rossa e la cosa non mi dispiacque...
Angelina
Sorseggiai la tisana ammirando quel panorama dal balcone di casa. Era un momento perfetto. Mi venne in mente una cosa e la proposi al ricciolino.
«Non so se venire a Bassiano con te.»
«Il sedile posteriore è libero, Ninni. Accomodati pure.»
In quel momento, il cellulare squillò e lo afferrai, posando la tazza sul tavolinetto.
«Oh, il mio fidanzato mi sta videochiamando! Vedi Enne, è proprio vero amore. Non può fare a meno di vedere questa bella faccia d'angelo. Chissà che vorrà.»
«Non tirarla ancora per le lunghe e rispondi.» Virai gli occhi sul mio amico — come al solito, in vena di sfottermi — gli feci una linguaccia e arricciò il naso. Mi diedi una leggera sistemata ai capelli e sorrisi allo schermo.
«Ciao, amore!» Non vidi però i classici riccioli ribelli rossicci, le fossette quando sorrideva, ma un ragazzino con un sorriso altrettanto bello. «Tu chi sei? Chi sei, tesoro? Dov'è Matteo?»
«Buongiorno, signorina Nina. Sono il dottor Matteo... di nurolo... nurolo... Nurolo...» Mi voltai brevemente verso Nicolò, sussurrando che fosse Wax a fare questi scherzetti. Qualcuno gli suggerì in sottofondo. «Sono il dottor Matteo di Neurologia. Ha un tumore al cervello.»
Il sorriso lentamente si affievolì, lasciando il posto a una smorfia, poi scoppiai a ridere. «No, non ci credo, dottore. Come può esserci qualcosa nel cervello del mio ragazzo che non sia io? Nel suo cervello e nel suo cuore ci sarà sempre posto solo per me. Tutto il resto è noia.»
Il ragazzino si voltò, stringendo i denti, poi riprese. «Sfortunatamente, signorina, le sto dicendo la verità: il suo fidanzato ha un tumore.»
Assottigliai gli occhi in fessure. «Un tumore?»
«Sì, ma non abbia paura. Sa una cosa?» Si fece più vicino. «Anch'io ne ho uno. Ma lo toglieranno, non si preoccupi.»
«Perchè dovrei aver paura? Chi ha paura di un tumore insidioso al cervello? Quando me l'hai detto ho pensato che ci fosse un'altra ragazza. Tocchiamo ferro! Dai il cellulare al signor Matteo, mi parlerà di quel tumore.» Dopodiché fece capolino la faccia di Matteo.
«Angelina... ti sei arrabbiata?»
«Sì molto, e anche perché hai coinvolto un bambino nel nostro dolce gioco di coppia. E, per favore Matteo, come un tumore? Non ci provare. Non scherzare mai più su una cosa così, ok?»
Matteo inspirò a fondo. «Angelina.» Poi il silenzio sembrò durare un'eternità. «La storia del tumore è vera. Non è gioco. Vorrei che lo fosse, ma... non lo è, non è un gioco.»
«Ma... Come?» Balbettai ritrovandomi a boccheggiare come un pesce fuor d'acqua. «Cosa significa che non è uno... scherzo dei tuoi? Non capisco.»
«Ho un tumore. Mi sta premendo dentro, per ora con brevi fluttuazioni. Non so cosa succederà d'ora in poi, ma ho un po' di paura.» confessò.
Sentii la testa vorticare, la bocca diventare più secca e gli occhi chiudersi d'istinto, vacillai, e poi il buio mi avvolse...
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