Capitolo 16.3 - Trova una cura

Federica

Le porte dell'ascensore si spalancarono ed entrai in quella cabina, notando il moro appoggiato di schiena alla parete e feci finta di niente. Premetti il pulsante per scendere al pianterreno e guardai in alto. Percepii il suo sguardo indugiare su di me.

«Che meraviglia. Ti sta bene questa giacca. Anche gli stivali.» Restai in silenzio a braccia conserte. «Stai uscendo?»

«Sì, dopo aver visto i risultati di Matteo.»

«Wow. Il tuo spirito ribelle è tornato!» Lo fissai con la coda dell'occhio per un paio di secondi. «Anche Nicolò è qui. L'ho visto poco fa nel corridoio, vi siete anche parlati.»


«Vero. È a Roma.»

«Te ne vai con lui?» Proseguì imperterrito.

«È un interrogatorio questo?» Spostai gli occhi verso l'alto. «Andiamo a mangiare fuori.»

«Non lo è, tranquilla. Se non avessi da fare, verrei anch'io con te. Ah... Salutalo da parte mia.» Roteai gli occhi e il trillo annunciò che l'ascensore era arrivato a destinazione e feci qualche passo, ma all'improvviso mi afferrò per la schiena, spingendomi contro il suo petto. Avvertii il respiro depositarsi sulle guance mentre ci trovavamo a una minima distanza. «Glielo direi io stesso.»

*

«Cosa fai?»


«Sono geloso.» confessò apertamente, tenendo gli occhi blu inchiodati nei miei. «In realtà, sono molto geloso.»

«Di Nicolò?»

Emise un risolino malizioso.
«No. Non mi importa di nessuno.» Sbattei le palpebre. «Ma di te. Di te e nessun altro. Sono geloso di te, Federica. Di tutto quello che tocchi, di tutti quelli che guardi.» Poi condusse la mano sul mio petto e il cuore iniziò a galoppare all'impazzata. «E... ogni battito che non è destinato a me. Ti amo.» Lo guardai intensamente e abbassò la voce, rendendola un dolce sussurro al mio orecchio. «Ci sta legando una cosa fortissima. Questa barca continua a viaggiare... dove si fermerà.» Dopodiché annullò la distanza, lasciando che le nostre labbra si toccassero fino ad incastrarsi e condusse la mano sulla mia mascella, intensificando quel bacio, che aveva fatto vacillare in un istante la mia sicurezza, ciò che avevo pensato di dover tagliare alla radice. Appena si staccò, restò con la fronte poggiata contro la mia e tenni gli occhi chiusi, sperando che non svanisse. Spalancai gli occhi, inumidendo le labbra. «Sai quando ci hai detto di trovare una cura?» Sbattei le ciglia. «L'ho trovata.» Sibilò e mi fece sollevare gli occhi. «Amore. Solo l'amore guarisce ogni ferita.»

Ancora frastornata, riversai i capelli lunghi sulla schiena, scansandomi per pigiare quel pulsante di nuovo. Le porte si aprirono e potei uscire da lì.

Accidenti a lui.

Si era messo in testa di voler guarire entrambi dalle ferite del nostro passato turbolento e, dal mio canto, continuavo ad essere vittima di un incantesimo destabilizzante.

[...]

Percorsi uno dei tanti corridoi svoltando a destra per dirigermi dritta verso le scale — dato che per colpa di un moro dispettoso in ascensore — ero stata costretta a scendere al piano sbagliato. Come se non bastasse, incrociai quel lestofante di Paolo Svevi che anziché togliersi di mezzo si piazzò davanti a me.

«C'è qualcosa che vuole dirmi?»

«Io? Niente, ma forse tu sì, visto che hai ottenuto quello che volevi.»

«Non fare giri di parole. Dimmi quello che devi dire.»

«Non capisci? Peccato, ragazzina. Lascia che te lo spieghi in un modo più semplice. Sei la figlia di tuo padre, Andreani.»

Aggrottai la fronte. «Prego?»

«Giorgio. Ha pagato con il sangue quelle quote, non è vero?» Ridussi gli occhi in fessure. Dove voleva andare a parare con quel discorso? Era illogico. «Vedi, Federica Andreani.» Scosse la testa. «Siamo tutti uguali.»

«Cosa stai dicendo? Spiegati meglio.»

Avanzai di un passo e l'uomo mi imitò prontamente, ritrovandoci ad un palmo di distanza l'uno dall'altra. «Tu, io, tuo padre, mio padre, Giorgio e perfino quel Giovanni, che ami tanto. Padri e figli. Siamo tutti nella stessa barca. Nessuno ha le mani più pulite.»

«Non confonderti. Io non sono come voi.» Affermai.

Si lasciò sfuggire una risata. «E cosa ti rende diversa?»

«Non accetterò quelle azioni. Non mi farò coinvolgere nei tuoi sporchi affari.»

«Non fare l'orgogliosa, poi ti vergognerai ad avere tutto quel potere in mano, seduta dietro la scrivania da grande capo. Certo, se provi un minimo di vergogna per te stessa, Andreani.»

Chi era che doveva provare vergogna, se non lui? Era il parassita che guadagnava soldi facili, sbagliando gli interventi, e non pagando per le sue colpe.

«Non accetterò quelle azioni. Non mi fermerò finché non sarai consegnato alla giustizia e pagherai per quello che hai fatto. Fino ad allora.» Un sorrisino compiaciuto gli apparve sulle labbra. «Sarai nelle mie mani.» Dopo l'ultimo plateale avviso lo piantai sul pianerottolo. Percorsi l'atrio diretta verso l'uscita, pregando di non incontrare altri inconvenienti, ma venni bloccata dall'infermiera Manuela, che tirò un sospiro di sollievo.

«Dottoressa, menomale che l'ho incontrata. Si tratta di Francesca, la paziente del dottor Daliana ch'è stata morsa dal suo cane.» Annuii. «La temperatura continua a salire a intervalli irregolari...»

«La tac è normale. Hai fatto un test rapido per lo streptococco?»

«Sì. Negativo.»

Distolsi lo sguardo per pensarci. Stavamo trascurando qualcosa e, nel frattempo, udii un abbaiare provenire dall'esterno. Uscii per vedere cosa stesse succedendo. Angelina nel frattempo strattonava il guinzaglio per tenere a bada Kiko e cercava di tranquillizzarlo con parole carine, ma il cagnolino era irrequieto. Osservai la scena stranita. L'uomo malato venne condotto via in sedia a rotelle.

«Fede, non puoi credere a quante persone l'hanno accarezzato e non ha detto "ah", né ha ringhiato, ma appena ha visto quell'uomo è impazzito!»

Osservai il cane.

«È la prima volta che lo fa da stamattina?» chiesi, spostando i capelli dal viso.

«Sì! Non puoi immaginare quanto sia stato dolcissimo!» confermò la castana e intanto lanciai un'occhiata sbrigativa al paziente.

Un momento.

«Non perdiamo tempo, facciamo una Tac al torace e all'addome.»

«Cosa? Lo screening per il cancro?»

«Già.»

«L'ho già sentito, ma potrebbe essere vero?» si chiese Manuela.

«Fai quello che ti dico e non perderti in chiacchiere. Informa anche il dottor Daliana.»

«Sì, subito. Dirò anche alla signora Francesca che Kiko sta bene.»

Feci un cenno affermativo e scostai di nuovo i capelli dalla faccia.

«Allora Kiko non è nostro?» Nina apparve delusa e chinò la testa verso il cucciolotto, facendo una vocina da bambina. «Kikito... Non sei il nostro cagnolino?»

«Certo che no. Che te l'ha fatto pensare?»

Roteò su sé stessa. «Ultimamente fai cose strane. Cosa sono quei vestiti e dove sono i tuoi tacchi alti?» Lanciò un'occhiataccia al ricciolino. «E hai chiamato questo bruto ragazzaccio!»

«Oh, colpito. Sei un po' maleducata, Ninni.»

«Concordo con lui. Muoviamoci, non ho tutta la giornata.» Mi rivolsi al ragazzo e avviai alla sua moto, prendendo il casco dal bauletto.

«Fede, non vuoi dirmi cos'è successo?» Insistè avvicinandosi.

«Più tardi, Nina.» tagliai corto per poi mettere il casco. Mi aggrappai alle spalle possenti del giovane per posizionarmi dietro di lui. Sotto lo sguardo imbronciato della castana, ripartimmo a tutto spiano.

[...]

Enne si offrì di prendere i panini e l'osservai avviarsi alla cassa, seduta al tavolo del McDonald's, dove avevamo deciso di fare tappa, prima di proseguire il viaggio. Fu di ritorno con il nostro vassoio e le mie narici si inebriarono con il profumo di carne misto patatine fritte. Rubai una mentre si era distratto un attimo a vedere il cellulare.

«Dovresti vedere la tua faccia!»

Con espressione vittoriosa, addentai la patatina calda.

«Sei la solita ladruncola.»

«Non lo cambierei per niente al mondo. È il paradiso.»

«In fondo, ho pagato io e non ho dimenticato il panino preferito della mia amica.»

«E ti stai vantando per quello, no?» Lo presi in contropiede e schioccò la lingua per rispondere un "tzk".

«Vantarmi, hai detto? Non ne ho bisogno. Sono il migliore.» Iniziai a mangiare come se non divorassi cibo da secoli e infatti ero sempre impegnata con i pazienti dal mattino alla sera. Masticando, feci vagare lo sguardo altrove. «Sembri proprio la vecchia Federica.» Alzai gli occhi di sfuggita. «Be'? Sputa il rospo, avanti. Angelina ha ragione. Cosa c'è?»

Sollevai all'improvviso la mano per indicare l'anello in bella vista sull'anulare sinistro.

«Credo che mi sposerò.» Al giovane andò di traverso il boccone e tossì, dandosi degli energici colpetti al petto. Mandò giù un sorso di Coca e tentò di riprendersi. «Ma ovviamente non è questo il motivo per cui ti ho chiamato. Ho bisogno del tuo aiuto. Devi accompagnarmi a Bassiano.»

Mi guardò di sottecchi senza proferir parola, concentrandosi successivamente sul panino, quando il mio cellulare squillò. Lo afferrai e guardai il display. Non era un numero tra i contatti, ma poteva trattarsi di un'emergenza dell'ospedale.

«Pronto?»

«Ciao, cara. Sono Sonia, quella che abita di fronte al ristorante di tuo padre.»

«Salve.»

«Ho chiamato Lorenzo, ma non era in casa e nemmeno Rebecca. Alla fine ho chiamato in ospedale per farmi dare il tuo numero.»

«Come posso aiutarla?»

«La porta del ristorante è rimasta aperta tutta la mattina. C'è gente che entra ed esce, e ho pensato che dovessi saperlo.»

«Mia sorella doveva andarci oggi. Deve aver dimenticato di chiuderla.»

«Alessia è stata qui per un po'... ha anche discusso con Leonardo il fruttivendolo, ma non ho saputo più nulla.»

«Ha litigato con il fruttivendolo?»

«Non l'ho vista neanche uscire dal ristorante. È passata più di un'ora e non ci capisco nulla.»

«Sono sicura che non sia successo nulla, ma grazie.»

«Di niente, a questo servono i vicini, cara. Fammelo sapere quando sai qualcosa. Puoi tenere il mio numero. Arrivederci.»

«Accidenti. Ci mancava questa.» sbuffai, posando il cellulare.

«Cosa c'è?»

«Hanno lasciato aperta la porta del ristorante di mio padre, dovremmo andare a vedere.»

«Sei tu il capo, Andreani.» Morsi il panino per terminarlo in fretta dato che il mio break era andato a farsi benedire. «Ma vorrei sapere cosa ne sarà dell'altro piano.»

«Finiamo qui e andiamo, per favore.»

Pulii con il tovagliolo le briciole e bevvi un sorso di Coca Cola...











Tommaso

«Vuoi farmi impazzire o cosa?!» Tuonai, gettando un foglio sul banco accettazioni, voltandomi di scatto verso Gianmarco. Ogni distrazione non sarebbe stata più giustificata da parte sua, dato che era veterano da quattro anni. «Dimmi che farai un buon lavoro e allora starò zitto. I risultati della 302 sono usciti, ma non si trovano da nessuna parte! Il paziente è stato dimesso ma la cartella è ancora aperta. Poi mi chiede se è un buon medico, se è questo o quello. Non sei un cazzo, amico!» sottolineai, puntando il dito. «Se devo correre io da una parte all'altra, a cosa mi servi tu?» Tentò di aprir bocca. «Sei il responsabile di tutti. Ti abbiamo affidato quelle persone perché ci siamo fidati! Con cosa ci ripaghi? Con un bel niente!» Trassi un leggero sospiro e gli diedi le spalle. Poi mi girai, guardandolo in tralice. «Dove sono i tuoi assistenti? Dov'è Alessia? Dov'è Matteo? Dove sono? Dove?!» Gridai.

Il rosso si palesò in quel momento. «Sono qui, dottor Daliana. Non sgridi Gianmarco. È stata colpa mia.»

«Matteo, non metterti in mezzo.» Lo reguardì l'altro e assottigliai gli occhi.

Wax insistè. «Erano cose che avrei dovuto fare io. Mi scusi.»


Gianmarco riprese, scusandosi a nome di entrambi e promise che non si sarebbe ripetuto.

«Me lo auguro. Non avrete un'altra possibilità.» Gli posai la mano sulla spalla. «Andate via.»

Iniziarono ad allontanarsi, discutendo fra di loro e poi il rossiccio esplose.

«Non posso essere nessuna di queste cose, capisci?»

«Cosa stai dicendo?» lo interrogò Gianmarco interdetto.

«Scusa, bro. Sono triste di non poter realizzare ciò che ho sognato.» Tirò su con il naso. «Sono triste perché sono venuto al mondo solo e me ne andrò solo.» Le sue parole sconsolate catturarono la mia attenzione.

«Matteo, stai bene? Perché stai dicendo queste cose?»

«Non importa. Lasciami in pace.»

Decise di incamminarsi nel corridoio e poi capitò tutto in una frazione di secondi: si voltò instintivamente, lo vidi cadere all'indietro e crollare a terra.

«Matteo!» Urlò Gianmarco.

I fogli mi volarono di mano sparpagliandosi in aria e corsi. Giovanni si era già accovacciato accanto al ragazzo, che stava avendo un attacco e tremava.

«Sta respirando. Continua a respirare. Non arrenderti.» Gli afferrai il viso tra le mani e controllai le pupille. «Giratelo, giratelo su un fianco!» ordinai e lo posizionammo su quello sinistro. Giovanni portò la mano vicino alla bocca e ordinò il laringoscopio. «La mascella è chiusa. Non possiamo intubarlo.»

«Calmo, installeremo una via aerea e tornerà a respirare.»

«Sono calmo, lasciami in pace e piuttosto concentrati su Wax!» Il giovane continuava a vibrare e ordinai di tenergli i piedi per non farlo muovere troppo. «Apro la bocca, aiutatemi.» Infilai la mano dentro per allargarla e cercai di tirargli fuori la lingua per evitare che la "inghiottisse". «Ci siamo quasi, campione. Ci siamo quasi. Andiamo, tieni duro.»

[...]

La situazione non era delle migliori e lo confermò la TAC, a cui fu sottoposto dopo aver stabilizzato la respirazione.

«Meningioma dello sfenoide. Abbastanza grande.» Confutò Giovanni accarezzandosi il mento privo di barba e puntando lo sguardo allo schermo del computer.

«Molto vicino agli occhi e ai nervi motori.»

«Può diventare cieco, vero? Dottore?» Chiese Gianmarco. Fissai intensamente il vetro separatore e il ragazzo steso sotto il macchinario senza dargli risposta affermativa o meno. «Sono un idiota! Come ho fatto a non accorgermene? Come ho fatto a non capirlo? È da molto tempo che prende farmaci per i suoi mal di testa.»

«Matteo è sensibile. Non tollera il dolore.» Reputò Mattia.

«Ecco perché se ne andava in giro stordito. Poveretto.»

«Ha avuto un attacco simile anche il giorno del compleanno della dottoressa Andreani.»

«È stata tutta colpa di questo maledetto tumore!» Ringhiai stringendo la biro.

«Come abbiamo fatto a non accorgerci dei sintomi quando il ragazzo aveva tanti problemi? Perché non abbiamo fatto gli esami necessari ?» si incolpò Giovanni, battendo la mano con stizza sulla cattedra.

«Quel testone non ha voluto nemmeno farsi visitare. Gli ho detto di farsi controllare, ma non mi ha dato retta.» Proseguì Gianmarco.

«Ha chiesto il parere di Fede sui risultati di un parente. Sono sicuro che fossero i suoi.»

«Se ne esce fuori, gli chiederò spiegazioni. Povero Wax.»

Gianmarco era distrutto e tratteneva a stento le lacrime, avendo un rapporto molto confidenziale con il rosso. Giovanni si alzò e abbandonò la stanza, dopodiché anch'io lo seguii a ruota, lasciando Wax nelle mani dei due infermieri. Appoggiai la mano sulla spalla di Gianmarco.

«Devi essere forte.»

Fuori dalla Radiologia, Giovanni mi informò che voleva tentare la via dell'operazione.

«Bene, bene.» Sorrisi.

Si bloccò. «Cosa c'è? Di cosa stai ridendo?»

«Ti fidi troppo di te stesso.» Scrollai le spalle. «Non correre tanto. Prima dobbiamo vedere se Wax si affiderà nelle tue mani oppure nelle mie.»

Increspò un sorriso. «Siamo tornati ai vecchi tempi. Mi stai dicendo che dovremmo competere?»

Sghignazzai. «Certo che sì. Non pensare di essere importante per me. Io sono sempre competitivo, anche con me stesso.»

«Se lo dici tu, ne terrò conto.»

«Certo, Rinaldi.»

Mi lasciò indietro e proseguì. O credeva che l'unico medico del Maddalena Center era lui? Si sbagliava. Anch'io avevo degli assi nella manica.

«Dottor Daliana? La dottoressa Andreani ha chiesto una mammografia per la paziente morsa dal suo cane.»

«Mamma mia, e perché la mammografia?» Mi passò la cartelletta e accennò che era successa una cosa sorprendente, che mi avrebbe raccontato strada facendo. Le feci cenno di camminare mentre davo un'occhiata ai fogli.

[...]

«Linfoma, ha detto?!» Strabuzzò gli occhi la ragazza. «Ho... il cancro?»

«Sì, ma non si preoccupi. Abbiamo avuto fortuna e individuato il cancro in uno stadio molto precoce. Faremo anche una biopsia.»

«Ma non ho mai fumato una sola sigaretta in vita mia, ho sempre seguito una dieta equilibrata e fatto sport. Non lo capisco! Com'è possibile?» Portò le mani fra i capelli sconvolta.

«Lo capisco, ma non è sempre possibile stabilirne la causa.»

Chinò lo sguardo. «Non sono nemmeno stanca. Non mi sento malata.»

«È vero. Ma il motivo per cui non è stanca è perché il cancro è in una fase molto precoce. Abbiamo tempo per combatterlo. Deve solo stringere un po' i denti.»

Riabbassò lo sguardo, come se stesse riflettendo, poi lo risollevò verso di me. «I linfonodi sono qui?» Indicò un punto al di sopra della clavicola.

«Giusto.»

«Kiko mi morde qui da un mese. Pensa che lo sapesse?»

«Può darsi. Alcuni cani, si dice, sentano l'odore del cancro.»

«Se è così, Kiko non mi stava effettivamente attaccando.»

«Se è così, no. Il suo cane cercava di proteggerla.» La donna si morse il labbro inferiore e poggiai la mano sulla sua spalla. «Se ha bisogno di qualcosa, può chiamarmi.» Scosse il capo per annuire. Richiamai l'infermiera che mi seguì. «Emanuela?» Misi le mani in tasca. «Sai dov'è Alessia?»

«Non so. Sua madre mi chiede sue notizie da stamani.»

«Non era in congedo per malattia?»

«Che io sappia, no.»

Strano, per il poco tempo che l'avevo conosciuta non era una persona che si volatizzava, senza dire nulla. Congedai l'infermiera che tornò ai suoi doveri e tirai fuori il cellulare dalla tasca.

«Cavolo.»

Composi il numero della pel di carota e feci partire la telefonata ma s'interruppe dopo un paio di squilli. Osservai la scritta "chiamata terminata" allibito.

Ma dove si era cacciata?










Giovanni

Attraversando il corridoio mi bloccai, quando puntai gli occhi sull'uomo che restava impalato sulla soglia della camera, ma senza provare ad entrare. Guardò all'ingiù verso il pavimento e una ventata di tristezza mi investì in pieno. Vedere un padre così sofferente per la sorte capitata ai suoi due bambini e sentirsi inermi era una sensazione orribile e straziava l'anima. Mi allontanai, decidendo di non disturbarlo. Poi Rosalba mi chiese di incontrarci in mensa. Mi offrì un caffè.

«Giovanni, ti ho chiesto di incontrarci perchè voglio che tu sappia che sono dalla tua parte.» Esordì.

«Grazie, Rosi. Grazie.» Le rivolsi un sorriso. «Ma sai già che a Paolo tutto questo non piacerà per niente.»

«Non mi importa.»

«A dire il vero, neanche a me.» Ammisi, facendo spallucce. Mi passai la mano sulla faccia. «Però chi mi preoccupa di più è Riccardo. Come facciamo?»

«Non preoccuparti. Federica si prenderà cura di lui. Devo dire che è una ragazza in gamba e coraggiosa. È l'unica che riesce a far breccia nel suo scudo. L'unica che ascolti davvero.»

«Già.» Asserii.

«Giovanni Rinaldi?» Un uomo con una valigetta si presentò al nostro tavolo e sollevai lo sguardo.

«Signor Filippo?»

Era l'avvocato dell'ospedale.

«Signor Rimandi, lei ha ospedalizzato due bambini: Bruno e Alex.» Feci un cenno d'assenso. «Il padre non ha ancora pagato. Bisogna approvare il ricovero. Che facciamo?»

Lanciai un'occhiata sbrigativa alla mia collega, per poi guardare l'avvocato. «Quell'uomo ha un problema. Lo approvi lo stesso.»

«Ma il signor Paolo gestisce queste situazioni in maniera totalmente differente della sua. Senza firma-»

«Signor Filippo.» lo interruppi. «Lo approvi. Con tutto ciò di cui i bambini avranno bisogno, va bene?» Si limitò ad assentire e si defilò. Guardai dritto vedendo Rosalba estremamente soddisfatta, ma il futuro di quei bambini era più importante di qualsiasi permesso esistente.

Poco dopo svoltando in corridoio, notai una folla di persone appostata proprio davanti alla camera di Alex.
"Cos'era quella confusione?" pensai, accelerando il passo.

«Gianmarco?»

Era appostato davanti alla porta come un soldato sull'attenti e tirò un sospiro.

«Grazie a Dio, è arrivato giusto in tempo, dottore!»


«Cosa sta succedendo qui?» chiesi accostandomi a lui.

«Vede dottore, succede che il signor Paolo dice che se non ci sono soldi, non si fa neanche l'operazione.»

Guardai l'avvocato. «Non ha detto al signor Paolo che avevo già approvato la decisione?»

«L'ho fatto signor Rinaldi, ma non vuole accettarlo. Dice che serve la firma della famiglia.»

Feci spallucce ponendo le mani sui fianchi. «E ora cosa succede?»

«Verranno trasferiti in un altro ospedale.»

«Davvero?» Sgranai gli occhi. «Gianma.» Mi rivolsi al ragazzo indicandogli la porta. «Non lasciar uscire nessuno dalla stanza. E voi ragazzi, tornate al lavoro. Presto risolveremo il problema.» Li sorpassai, brontolando fra me e me.

"Non ha alcun senso...". Quell'uomo mi avrebbe ascoltato seriamente. Oltre lui, anche altre persone, avevano il potere decisionale sull'ospedale.

Spalancai quella porta senza neanche bussare. Entrai subito. L'uomo era seduto alla sua scrivania, poi si alzò in piedi.

«Cosa succede, Giovanni?»

«Vengo a farti la stessa domanda.»

«Intendi quei piccoletti?»

«Sono due fratelli malati che necessitano di cure immediate.»

«Sì, ma non siamo un ente di beneficenza. E ti dirò di più, non li sto buttando per strada, andranno in un altro ospedale.»

«Davvero?» Annuì. «Non lo consentirò.» Dichiarai.

«Ma è già stato fatto.»

Inclinai il capo da un lato.
«In quale veste? Non è l'unico a prendere le decisioni qui.»

«Tu ed io abbiamo le stesse azioni.»

«Sì, è così. Chiediamolo a Federica.» proposi malcelando un sorriso nel ricordare che mio padre aveva preso una delle scelte più intelligenti prima di morire. «Dopotutto è quella che ha il maggior numero di azioni qui dentro. Dico bene?»

«Mi piacerebbe fare una scommessa con te, ma quando sai che vincerai già, non c'è partita.» Gongolavo per avere il coltello dalla parte del manico.












Federica

La sensazione del vento sulla faccia, il brio della velocità e stare di nuovo in compagnia del mio amico riportò a galla un vecchio ricordo.

"Ti va di prendere un po' d'aria?" propose all'epoca, quando il mondo mi era crollato addosso e sentivo il bisogno di scappare. L'avevo ascoltato ed ero salita sulla moto. Arrivammo nei pressi del ristorante che appariva desolato e Nicolò si fermò. Tirai su la visiera del casco, guardando la porta effettivamente aperta. Tolsi poi il casco e smontai.

«Non c'è nessuno.» Mi fece notare e appoggiai il casco sulla sella, osservando attentamente i dintorni. Entrai nel ristorante.

«Alessia?» Non ottenni risposta e ispezionai in giro. Sembrava tutto in ordine. Controllai se mancasse qualcosa nella cassa, ma il denaro c'era tutto. «Non ha chiuso la porta.»

«Tua sorella ti somiglia.»

«Un po'.» risposi sollevando lo sguardo. La telefonai.

«Dato che non ti interessa, potrei provare a conquistarla con il mio charme. Cosa ne pensi?»

«Piantala, cretino!» Rispose la segreteria al suo posto. «Ce l'ha spento. Diamo un'occhiata dietro.» Mi tallonò e uscimmo nel cortile, ma anche lì non c'era ombra di mia sorella...

«Non c'è nessun qui.» Cantilenò Nicolò. A disturbare la quiete del posto, pensò il cellulare.

«Sì, dimmi...»

«Fede, hai un momento?»

«Sì. Cosa succede?»

«Ho bisogno che tu prenda una decisione fondamentale.»

«Quale decisione? Che succede?» Chiesi a Giovanni perplessa.

«Abbiamo bisogno della tua approvazione affinché il nostro ospedale copra i costi delle cure di Bruno e Alex.»

Mi misi seduta sulla panchina, prendendo posto accanto al riccio. «La mia approvazione?»

«Esatto.»

«Okay, do la mia approvazione. C'è qualcuno che si è apposto?»

Un'altra voce squarciò il silenzio dietro la cornetta e la conoscevo bene. «Sono io che mi sono opposto, signorina Andreani. Sono Paolo Svevi. Vorrei ricordarle una cosa. Se dà la sua approvazione, significa che ha accettato le azioni. Non so se ne è consapevole, visto che oggi mi ha detto esattamente il contrario.»

«Tutti conoscono già i tuoi panni sporchi e tuttavia agisci ancora impunemente ai danni di persone innocenti. Arriverà il momento in cui te lo farò pagare. Ci vedremo presto.»

«L'ho già detto prima e lo dico anche adesso: se riesci dimostrare che tua nonna è morta a causa di un mio errore, allora smetterò di fare il medico.»

Roteai gli occhi. Quel dannato!

«Fede, ci sei ancora?»

«Sto pensando.» Dissi.

«Aspettiamo con impazienza la sua risposta, dottoressa.»

Imprecai a bassa voce su quell'ultimatum. All'improvviso ebbi la strana sensazione che qualcuno mi stesse chiamando, che volesse il mio aiuto, e staccai il cellulare dal mio orecchio.

«Ok, arrivo.» Comunicai a Giovanni prima di agganciare.

«Che sta succedendo?»

«Torniamo in ospedale.»

Mi rialzai in fretta per tornare all'interno del locale.

Un pericolo maggiore delle intimidazioni di Svevi orbitava sulla mia testa...


- fine capitolo sedicesimo -

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