Capitolo 16.2 - Trova una cura

Alessia

«Fragolina!» La chiamai mentre era intenta a sfiorare la maniglia e si voltò. «Grazie per essere passata, ma... quando state insieme nella stessa stanza mi mettete sempre tra l'incudine e il martello. Me ne occupo io.»

Scrollò le spalle. «Ok, meglio per me.»

«Fede, c'è un'altra cosa.» Si bloccò e stavolta mi mancarono un attimo le parole. «Dovremmo trovare un avvocato... per papà. Che ne pensi?»

«Ho già un appuntamento con un avvocato nel tardo pomeriggio, gli chiederò di difenderlo.»

«Perchè?»

«Per le azioni.» Alzò il palmo della mano quando notò la mia espressione esterrefatta. «Non farmi altre domande, ti prego. Te lo spiegherò più tardi.»

Si allontanò senza aggiungere altro e aprii la porta, facendo qualche piccolo passo avanti.

"Quindi questo è quello che sta succedendo, tesoro. Vuoi lasciarmi?" Mi dava le spalle e parlava animatamente, così avanzai sempre di più. "Non mi interessa se tua moglie sospetta qualcosa su di noi! Appena riattacco, contatto la polizia e racconterò tutto. Dirò la verità, che non è stato mio marito a spingermi, ma il fruttivendolo Leonardo." Sgranò gli occhi quando si girò, accorgendosi della mia presenza. Avevo sentito chiaramente le sue affermazioni. Tolse il cellulare dall'orecchio e schiuse le labbra.

«A-Alessia, tesoro. Hai capito male.» Mi precipitai lì e indietreggiò, cercando di nascondere il cellulare dietro la schiena. «Parliamo. Ti spiegherò tutto.»

Glielo strappai di mano. «Non ho niente da dirti! Non sono più tua figlia!» Le urlai in faccia, adirata.

«Tesoro... ti giuro che hai capito male.»

Chiamai il primo numero registrato tra le chiamate effettuate, ma la linea era occupata.

«Cos'è che non ho capito? Hai calunniato mio padre e anch'io ci ho creduto, e l'ho incolpato. Lo hanno mandato in prigione!»

«Bambina mia, ti assicuro che hai frainteso.»

«Davvero? Bene, allora scoprirò la verità. Non preoccuparti.» Si aggrappò al mio braccio per tentare di impedirmelo e me la scrollai di dosso. «Lasciami!»

Finì per cascare sul lettino e cercai di rintracciare il suo interlocutore o chiunque esso fosse, recandomi alla porta.

«Alessia, aspetta!»

«Federica aveva ragione su di te, sei un mostro e non meriti la pietà di nessuno!» sputai per poi uscire ignorando le sue continue e ridicole suppliche. Non aveva alcuna dignità, né pudore.

[...]

Sapevo dove avrei trovato quell'uomo, conoscevo bene l'indirizzo e presi un taxi, abbandonando temporaneamente l'ospedale. Accostò davanti al negozio di sua proprietà e lo scrutai attraverso il finestrino mentre serviva la clientela abituale. Scesi e misi lo zaino sulla spalla, avviandomi da lui. Mi conosceva dai tempi dell'infanzia e non potevo credere che avesse una tresca con mia madre, oltretutto aveva una moglie. Che depravato!

«Alessia.» Mi accolse con un sorriso. «Mi dispiace per tua madre, come sta? Sta meglio?»

«Come se non lo sapessi!»

«Come se non sapessi cosa?»

Mi stava prendendo in giro?

«Quello che hai fatto con mia madre, non ti vergogni?»

«Shhh.» Si guardò attorno distogliendo lo sguardo. «Attenta a questa boccuccia...»

«So esattamente cosa sto dicendo! Siete entrambi disgustosi.» Gridai senza alcuna paura che quella gente si rendesse conto di che razza di persona fosse quest'uomo.

«Ragazzina, ascolta, stai dando spettacolo. Calmati.»

«E allora?»

«Alessia, le persone fraintenderanno. Andiamo nel retro e parliamone con calma.»

Feci un cenno d'assenso. «Certo, andiamo. È incredibile.» sussurrai. Lo seguii dietro il negozio e, nel frattempo, la moglie attirata dalle urla spuntò, chiedendogli cosa fosse quel baccano. «Resti ad ascoltare anche lei.»

«Che succede?»

«Mia madre e suo marito hanno una relazione.» Slittai gli occhi su quest'ultimo. «Mi vergogno a parlarne. Come ha potuto farlo?»

«Non crederci. Non c'è mai stato niente.» Si rivolse alla consorte.

«Sta mentendo. L'ho sentito con le mie orecchie, questi due sono amanti.»

«Cosa? Che stai farneticando?» Si arrabbiò la donna.

«Tutto quello che sto dicendo è vero e chi l'ha spinta, è stato suo marito.»

«Non è vero. Questa ragazza mente. Senti, vattene da qui oppure farò qualcosa di cui mi pentirò!» Sollevò il braccio, probabilmente voleva darmi uno schiaffo.

«Dice sul serio? Vuole spingere anche me sotto un autobus? Peccato per lei che non sono come mia madre. Non può toccarmi!»

«Basta!» Intervenne la donna. «Madre e figlia sono fatte esattamente della stessa pasta. Non ti vergogni di dire queste bugie su un uomo sposato?»

Rialzai lo sguardo che avevo un attimo abbassato. «Bugie? Sto dicendo la verità, ma lei non mi ascolta.»

«Va bene, non voglio più ascoltarti. Conosco mio marito e mi fido della sua parola. Quando saprai con chi stai parlando, ritorna qui.»

«Non continui a difendere suo marito, non ne vale la pena.»

«Senti, ragazzina, seppure l'avesse fatto, è colpa di quella donna spudorata che tu chiami madre, ne sono certa. L'ho trattata come una sorella!»

Sbattei le ciglia più volte incredula. «Ma che problema ha? Che razza di persona è? Siete una famiglia deplorevole! Vado subito alla polizia e racconto tutto quello che so, poi vedremo cosa farete allora!» Girai i tacchi, accelerando il passo per andarmene. Non l'avrebbero passata liscia, di sicuro.

Federica

«Spero si riprenda» dissi alla paziente dai capelli scuri, che si teneva il braccio sdraiata sulla barella in pronto soccorso.

«Grazie. È una piccola ferita, guarirà. Perché Kiko l'ha fatto? Non è mai stato aggressivo.»

«È difficile capire il comportamento di un cane. Magari qualcosa lo avrà infastidito...» Tommy alzò le spalle. «E avrà reagito di conseguenza.»

«Non si arrabbia nemmeno quando gioca, non azzanna nessuno, è addestrato e vaccinato. Non posso credere che abbia fatto una cosa simile così su due piedi. Non lo capisco.»

«Il tassista chiede cosa fare con il cane» informò l'infermiera Emanuela affiancandomi.

«Con il cane?» Ripetè Tommy.

«Per favore, lo lasci legato da qualche parte. Non c'è problema, tra poco potrò uscire. Sto bene, vero?» Rivolse un sorriso a me e Tommy, che aveva qualche dubbio. La ragazza aveva comunque battuto la testa e aveva una ferita alla tempia.

«D'accordo, ci penso io.»

Mi ringraziò e mi diressi fuori dal pronto soccorso, lasciandola nelle mani del mio collega. Un uomo stava discutendo a telefono.

«Immagino che sia affidato a lei...» ipotizzai.

Sbuffò cedendomi il guinzaglio mentre il famoso golden retriever era attaccato e sembrava così inoffensivo.

«Prenda il cane, dottoressa. Ho già perso un'intera giornata e non vengo pagato per accudire cani.»


«Ok, non c'è problema. Grazie.» Lo congedai dato che aveva fretta di salire sul taxi e mi lasciò con il cucciolotto, che iniziò a gironzolare attorno a me.
«Ehi... Kiko, sei stato monello?» Lo accarezzai sulla testolina, grattandogli le orecchie e scodinzolò. «Non sembri cattivo.»

«Fede?»

Il cane abbaiò e alzai la testa ritrovandomi davanti Angelina, che teneva per mano mia nipote.

«Ah, che tempismo!»

«L'ho presa da scuola e ne abbiamo approfittato per fermarci in gelateria.»

«Zia, che fai con quel cane? È grosso!» Commentò la bambina, leccando il cono a cioccolato.

«Ehm, ti abbiamo beccato di nuovo in un brutto momento?»

«No, macché. Visto che siete qui, mi aiuterete.» Diedi il guinzaglio alla castana. «Vi presento "Kiko", loro sono Angelina e Fede, si prenderanno cura di te.»

«Kiko? Lo teniamo?» Mi chiese immediatamente Nina con un enorme sorriso sulle labbra.

«Sì! Teniamolo!» La assecondò mia nipote, accucciandosi per accarezzarlo e lui la lasciò fare.

«Voi due filate in giardino. Vi raggiungo fra poco.» Angelina annuì e trascinò sia la bambina che il cane con sé. Nel preciso momento che stavo per imboccare l'entrata, le sirene di un'ambulanza mi fermarono. Poggiai la mano contro la fronte a mo' di visiera, a causa del sole. Appena spalancarono le portiere, la mia faccia divenne seria alla vista di Giovanni, che scese e si diresse verso di me. Lo osservai, non aspettandomi di incontrarlo subito dopo quel feroce litigio di ieri sera. Scrutò qualcosa in particolare, mi resi conto dell'anello che sfoggiavo e abbassai la mano. Mi fissò, portando le braccia dietro la schiena e infilai le mani nelle tasche. I soccorsi, nel frattempo, portarono dentro la barella mentre la nostra battaglia di sguardi serrati proseguiva.

«Cosa succede?» Esordii rompendo quel silenzio estenuante.

«È caduto in un pozzo. Blocco delle fasce bilaterali del collo.»

Senza rispondere, gli diedi le spalle e rientrai. Andai dietro alla barella, rimanendo in disparte, seguendo il lavoro del moro che stavo impartendo i primi ordini all'équipe per farlo condurre in un'altra sala. Mi avvicinai a Wax e Gianmarco, il primo si toccava la testa e sembrava pallido.

«Ti senti bene?»

«Sì, è tutto ok. Ho preso una storta alla caviglia scendendo dal pozzo. Non è niente.»

«Non ti sei storto la caviglia, hai inalato troppo gas e potrebbe trattarsi di intossicazione.» Lo prese in contropiede Giovanni.

«Come? Ti sei intossicato?»

«Analizzate il gas nel suo sangue e facciamo una flebo.»

«Anche Alex ha bisogno degli stessi esami.» Sollevai il mento notando l'atteggiamento di Wax.

Perché non voleva farsi visitare?

«Occupati di lui, Fede.»

«No, dottor Rinaldi, lasci stare!» Obiettò, ma invano. «Non si disturbi, dottoressa. Se ne occuperà Gianna, vero?»

Distolsi lo sguardo e poi sollevai gli occhi al cielo.

«La dottoressa dovrebbe darti un'occhiata, amico.»

«Gianmarco!» Lo ammonì.

«Gianmarco, cosa? Mentre Alessia è via, ho l'occasione di avere un caso tra le mani, quindi non mettermi i bastoni tra le ruote con le tue idiozie!»

Si defilò e fissai intensamente il rossiccio, facendogli poi cenno di andare con un movimento del mento. «Cammina.» Stava lì immobile come un palo, indeciso sul da farsi, e riuscii a percepire il suo nervosismo. «Coraggio!» Dovette cedere, anche perché non sarebbe potuto scappare da nessuna parte. Si girò e camminò a passi lenti, come si stesse per recare al patibolo.

[...]

«Dottoressa, non c'è alcun bisogno. Le ho appena detto che sto bene.» ribadì mentre cercavo di controllare le pupille, ma si ostinava a parlare ogni due per tre e si muoveva ogni volta rendendomi il lavoro complicato, anzi direi impossibile...

«Se la smettessi di muoverti. Non riesci a stare fermo due minuti. Non riesco a vedere niente!»

«Sto bene, dottoressa.» insistè.

«"Sto bene", sì.» Cantilenai imitando la sua voce e appoggiai l'apparecchio sul mobile. «Andiamo!»

«Dove?» Chiese alzandosi dal lettino e afferrandomi il braccio.

«Secondo te? In Radiologia.» Mi scansai dalla presa. «Hai detto troppe volte che stai bene, mi hai fatto dubitare. Faremo una tac, per sicurezza.»

«Tac?» Lo guardai riscontrando della paura nei suoi occhi scuri. «Per quale motivo si preoccupa così tanto per me? Sto bene.»

«Se ripeti per l'ennesima volta che "stai bene" giuro che ti farò fare tutti gli esami di questo mondo, sono stata chiara?» dichiarai agitando l'indice in aria. «E ora vieni con me!»

«Ok, ok, ok.» Passò davanti, congiungendo le mani. «Non si stanchi lei. Posso farlo da solo.»

«Sul serio? Ottima idea. Non ci avevo pensato, grazie.»

«Non ho altra scelta.»

«Sai, sembri un po' lento oggi.» Scavai in tasca per prendere il cellulare che stava squillando. Guardai il display, e risposi. «Ciao, Alessia. Sono occupata, possiamo parlare più tardi?»

«Solo due minuti, ti prego. Devo parlarti di papà.»

«Se si tratta dell'avvocato, non gli ho ancora parlato. Lo farò più tardi.» l'anticipai prima che me lo chiedesse un'altra volta.

«Non si tratta di lui, ma di mia madre. Dove sei? Ancora in ospedale?»

«Devo uscire a mangiare un boccone, ma rimarrò nei paraggi.»

«Ok, arrivo. Sono al ristorante e sto per uscire.»

«Ok, ci vediamo dopo.»
La salutai e ricambiò prima di agganciare la chiamata.

[...]

Lo accompagnai personalmente verso il reparto e chiesi espressamente al radiologo di portarmi subito i risultati.

«Dottoressa, non sono mica un bambino!» protestò.

«Sta zitto e vai dentro.» Stava per seguire il radiologo a capo abbassato. «Matteo?» Si bloccò. «Per quanto riguarda le radiografie che mi hai portato... quando avremo i risultati li guarderemo con Giovanni, se per te va bene.»

Il suo sguardo si perse nel vuoto e poi scosse impercettibilmente la testa.

«Certo, grazie.»

Dopodiché si allontanò e ripresi a camminare, quando un ragazzino passandomi vicino scivolò sul pavimento. «Stai bene?» Lo aiutai a mettersi in piedi. «Ti sei fatto male?»

«Sto bene.» Sorrise ampiamente. «Sono uscito dal bagno e mi sono perso.» disse, scrollando le spalle.

«E dove stavi andando?»

«Al pronto soccorso. Da che parte devo andare?»

«Cosa devi fare al pronto soccorso?»

«Ci sono mio padre e mio fratello lì.»

Gli indicai con il dito. «Senti, vai dritto da qui e poi gira a sinistra, ok, capito?» Poi poggiai la mano sulla spalla del ragazzino.

«Grazie!»

Corse di nuovo, ma inciampò e cadde. Lo raggiunsi immediatamente, aiutandolo a rialzarsi.

«Tutto ok? Hai qualche dolore? Vieni con me. Quest'ospedale è molto grande ed è facile perdere il senso dell'orientamento.»

Lo presi per mano e proseguimmo dritto.

«Lei è un medico?» Domandò il ragazzino durante il tragitto.

«Sì.»

«Ecco perché indossa il camice.»

«Lo indossiamo tutti.»

«È molto bella, sa?»

Ci fermammo e notai un sorriso indugiare ancora sulle labbra del ragazzino. «Grazie per il complimento. Anche tu hai un bellissimo sorriso. Sorridi sempre così?»

«Sì, sempre. Non mi piace molto, ma sono sempre così.»

«Perché? Sorridere sempre non è una cosa brutta. Vorrei poter sorridere anch'io come te.»

«Ma sorriderebbe se suo fratello cadesse in un pozzo, io sì, e non è una cosa bella.» ammise, ma anziché demoralizzarsi, continuò a mostrare un sorriso splendente.

«Quindi, non vuoi davvero sorridere e lo fai per forza?»

«Non voglio. Mi dispiace per quello che è successo. Vorrei piangere, ma sorrido...»

Sbattei le palpebre più volte, pensierosa. Il ragazzino poi venne richiamato da un uomo che apparve nel corridoio.

«Bruno!»

Gli andò incontro ma perse di nuovo l'equilibrio, scivolando a terra per la terza volta. Non manteneva l'equilibrio, a quanto pare. Guardai la scena in lontananza, mentre il padre lo rimproverava per essersi allontanato. Mi avvicinai ai due.

«Salve.» Allungai la mano verso l'uomo per presentarmi. «Sono la dottoressa Andreani, piacere.»

«Salve, sono Alessandro, il padre di Bruno.»

«Ci siamo incontrati nel corridoio e lo stavo accompagnando.» Spostai gli occhi dall'uno all'altro. «Sorride sempre così suo figlio?»

«Lo chiamiamo il virus della felicità. Sorride anche mentre dorme.»

Guardai il ragazzino per un po', poggiando la mano sulla spalla. «Quanti anni ha?»

«Dieci!» rispose Bruno.

«Perché non ti siedi e ci aspetti lì?» proposi e ubbidì. «Signor Alessandro...» Portai il padre un po' più lontano e intrecciai le mani. «Non sarebbe giusto dirle qualcosa di certo, ma potrebbe una malattia la causa di quel sorriso.»

«Come? Da quando sorridere è una malattia?»

«Sorride sempre, anche quando non vuole e ha una goffaggine che non è normale alla sua età. È caduto tre volte davanti a me. Immagino che vada a fare pipì molto spesso, non è così?»

«Sì...»

«Sono sicura che ha delle crisi epilettiche...»

«Crisi epilettiche, ha detto?»

«Ma prima dobbiamo fargli degli esami approfonditi, per scoprire con certezza cos'ha.»

«Esami? Deve farli subito, dottoressa? Uno dei miei figli è al pronto soccorso, è caduto in un pozzo stamattina.»

«Lo so, il dottor Giovanni si sta occupando di lui. Non si preoccupi, è uno dei migliori medici di questo ospedale.» Lo rassicurai, ma l'uomo piegò la testa in basso. Girai gli occhi verso il ragazzino, stava ancora ridendo apertamente, vedendo la gente passare e infilai le mani in tasca un'altra volta.

Giovanni

«Sospetti che si tratti una lussazione cervicale?» mi domandò Gianmarco, mentre sfogliavo il referto.

«Sì, è così.»

«Che significa?» mi interrogò l'infermiera di turno, Emanuela.

«Dobbiamo sistemare la colonna vertebrale. Gianma.» Poggiai la cartella sulla barella e il castano si girò verso di me. «Prepara la crema anestetica.» Passai davanti, scorciando le maniche fino ai gomiti. «E datemi dei guanti. Ho bisogno di un porta aghi e di pesi da 2kg. Riposizioniamo il collo.» Gianmarco annuì, mettendo la crema al lato della tempia e sorrisi al bambino. Qualcuno mi aiutò a mettere i guanti.

«Dottore, mi sono già addormentato una volta. Dormirò ancora?»

«Mi dispiace ma questa volta dovrai restare sveglio piccoletto.» dissi massaggiando le tempie con un movimento circolare.

«Non preoccuparti, ti addormenteremo il collo e non sentirai dolore. Non è così, dottore?» Mi lanciò un'occhiata complice il castano e annuii.

«Esatto.»

«È arrivato mio padre? Voglio vederlo, per favore.»

Mi soffermai a guardare Gianmarco e poi abbassai gli occhi verso Alex, increspando un sorriso. «Ascolta...» gli strinsi la manina. «Non preoccuparti, arriverà. Forse ti sta già aspettando fuori, non lo sappiamo.»

«Potrò correre a casa da qui?»

Sorrisi. I bambini erano molto iperattivi, avevano sempre voglia di saltare da una parte all'altra. «So che lo vuoi, ma è meglio che non lo fai ora, ok? Starai bene, fidati di me.» Girò gli occhi in tutte le direzioni impossibilitato a muoversi. «Alex, quando ti mettiamo il peso, sentirai una leggera pressione sul collo ma non devi spaventarti.» Poggiai la mano sul petto. «Ti passerà...»

«Ok...»

«Mettiamolo lentamente.»

«Sì.» Affianciai Gianmarco. «Dovremmo iniziare con cinque chili?»

«Sì.» Iniziò ad avvitare la vite. «Non aver paura» Feci un occhiolino al paziente e il mio collega attaccò il primo peso.

«Dottore, ho paura. Non sento più i piedi.» confessò con un filo di voce.

Spostai gli occhi sia sull'infermiera che Gianmarco per poi tornare a rivolgere al bambino uno sguardo rassicurante. «Tranquillo...» Dovevo accertarmi di una cosa e afferrai il diapason dal carrello. Lo appoggiai sulla pelle e lo feci scorrere lungo tutta la pianta. «Riesci a muovere le dita, Alex?»

«Non posso...»

Feci la stessa cosa con l'altro, a quanto pare però non reagiva allo stimolo sensoriale. Mi drizzai. «Non importa. Mettete immediatamente il peso. Ci muoveremo rapidamente.»

«Ok...» sussurrò.

«Capito? Al mio tre, devi fare attenzione.»

«Sì, dottore.»

«Alex, non aver paura, stai tranquillo, d'accordo? Bene.» Feci una breve pausa, guardando entrambi, l'infermiera gli teneva immobili le spalle. «Uno. Due. Tre.» Si udì un piccolo "crack" e il ragazzino gemette. «Come va? Stai un po' meglio?»

«Sto meglio, almeno posso muovere il collo.»

«Riesci a sentire i piedini?» chiese Gianmarco.

«Sento che ci sono, ma non è come prima.»

Il mio sguardo si fece serio, io e Gianmarco ci fissammo a lungo. Ripresi in mano il diapason e lo feci scorrere.

«Riesci a muoverli adesso?»

«No...»

Riprovai all'altro piede ma era lo stesso risultato, così lo lasciai, allontanandomi con le mani sui fianchi per pensare.

Gianmarco si avvicinò. «Dottore, è troppo tardi?»

«È troppo presto per dirlo con certezza. Spero che sia dovuto all'edema midollare. Dovrebbe passare quando il gonfiore si attenuerà. Possiamo solo aspettare...» Annuì e il cellulare squillò. Lo tirai fuori dalla tasca e leggere quel nome mi strappò un sorriso. «Dimmi, Fede. Ok, arrivo subito. Sono in pronto soccorso.» Staccai la telefonata, lasciando poi il piccolino nelle mani di Pretelli. «Alex, torno subito, va bene? Sta tranquillo, andrà tutto bene.»

«Va bene...»

Tolsi i guanti e mi fiondai all'uscita, percorrendo a grandi falcate il corridoio.

[...]

Entrai nell'ufficio della bruna, trovandola seduta dietro la scrivania e abbassò di scatto gli occhi per contemplare la cartella. Richiusi la porta senza dire una parola e mi accomodai sulla sedia dell'ospite.

«Ciao...»

«Non è un buon momento. Ti ho chiamato per farti dare un'occhiata a questo.» Mi porse la cartella.

«Sono i risultati di Matteo?»

«No. Hanno avuto un problema con il dispositivo e non hanno ancora fatto niente. È il fratello del bambino caduto nel pozzo, Bruno. "Amartoma ipotalamico

«Già.» Asserii scuotendo lievemente il capo. La TAC evidenziava la massa al cervello. «Si manifesta come una sorta di convulsione, risate continue, perdita di equilibrio...»

Annuii. Era perspicace e buona osservatrice. «Grande, ottimo lavoro. È difficile da capire anche per i medici più esperti.»

«Che facciamo?»

«Il tumore è piuttosto grande. Vanno rimossi l'amigdala e l'ippocampo allo stesso tempo. Parliamo con suo padre e iniziamo i preparativi. Entrambi i suoi figli sono malati. Sarà un colpo durissimo...»

«Andrò subito a parlargli.»

Si levò dalla sedia girevole facendo il giro della scrivania e la seguii a ruota, posizionandomi di fronte alla ragazza.

Avrei voluto affrontare quell'argomento, non ci eravamo più visti dopo ieri. Le afferrai la mano destra, osservando l'anello al suo dito. Poi incrociai i suoi occhi. «Fede... Ce la faremo, lo so. Supereremo anche questa.»

Abbassò lentamente lo sguardo e fece scivolare via la mano.
«Non sono sicura.» confessò con voce melliflua. «Ma non posso ancora togliere l'anello... perché ti amo troppo.» Accennai un piccolo sorriso. «Io... non riesco a perdonarti.» Chinai lo sguardo. I suoi occhi si persero nel vuoto, li fissai nella speranza di ritrovarvi un briciolo di speranza. «Be', siamo stati contagiati da una malattia incurabile. Trova una cura, guarisci entrambi.»

Mi parlava di questi sentimenti che provava come se fosse un cancro da estirpare, una brutta cosa di cui liberarsi. Dopo avermi guardato per qualche secondo, si diresse alla porta, uscendo dalla camera.

Come poteva essere così spaventata da una cosa così bella e meravigliosa...

Davvero, non lo capivo...

[...]

Chiesi all'infermiera dietro il banco accettazioni di iniziare con le pratiche di ricovero per una paziente e consegnai il fascicolo, quando venni raggiunto da Gianmarco.

«Dottore, aspetti!»

«Cosa sta succedendo?»

«La pressione di Alex è scesa. Deve venire.»

Lo seguii nel corridoio fino alla stanza del bambino e spalancò la porta, lasciandomi entrare. Il macchinario trillava di continuo e guardai i valori sul monitor.

«La pressione e il polso sono scesi.» spiegò Mattia.

«Ok, accompagna Bruno fuori per favore.» Il biondino lo prese per le spalle e condusse via. Tirai fuori la torcia e gli tenni alzate le palpebre. «Sta andando in shock neurogeno a causa della lesione spinale. Gianmarco, prendi i cuscini.» Glieli indicai con il braccio e intanto con l'apposito pulsante abbassai di più lo schienale. «Gli alzeremo le gambe e metteremo i cuscini sotto i piedi per favorire più ossigeno nel corpo, ok?»

«Ok...»

Una volta abbassato, gli sollevai i piedini e l'infermiere posizionò il cuscino sotto. «Dobbiamo alzare la pressione sanguigna. Occorre tenergli i piedi sollevati.»

Mi girai per controllare i segni vitali e aumentai il flusso di erogazione dell'ossigeno.

All'improvviso, un uomo entrò trafelato e Gianmarco lo bloccò con le mani sul petto, affinché non si avvicinasse al lettino.

«Signore, signore, si calmi.»

«Cos'è successo?» Domandò scoppiando quasi a piangere. «Cos'è successo? Sta bene, dottore?»

«Si calmi.» Gli misi la mano sulla spalla. «Il midollo spinale di suo figlio è più danneggiato di quanto pensassimo.»

L'uomo non riuscì a reprimere i singhiozzi. «E a-allora? Cosa c'è che non va, me lo dica!»

«Faremo tutto il necessario, non si preoccupi. Io e il mio team faremo tutto il possibile, glielo prometto» Guardò il figlioletto in quello stato e si disperò. «Gianma, inserisci un catetere venoso centrale, poi inizia l'infusione di dopamina.» Lui annuì. «Rimuovi anche la cannula nasale e sostituiscila con una maschera, ok?»
Quest'ultimo uscì di corsa e rientrò Mattia convincendo l'uomo a uscire per aspettare in corridoio. Lo lasciai nelle mani del biondo e puntai gli occhi sul paziente, gettando un'occhiata sbrigativa all'orologio.
I valori continuavano ad essere sballati e la macchina a suonare.

Federica

«Ehilà, dottoressa!» Il riccio spuntò da un corridoio laterale e si indicò al polso un orologio inesistente. «Credo avessimo un appuntamento noi, no?» A volte invidiavo la sua spensieratezza. Sembrava tranquillo e sicuro di sé, forse più della sottoscritta. La mia faccia parlava da sé, senza il bisogno di leggerla. Mi buttai a capofitto nelle braccia del giovane, avvolgendo le mani attorno alle sue spalle. Inizialmente restò interdetto dall'insolito gesto, poi ricambiò. «A quanto ho capito, il problema è grosso.» Dedusse. «Forza, guardami.» Mi staccò e tenni lo sguardo piantato a terra. «Ricordo molto bene quando ho visto questo sguardo l'ultima volta. Se ti va, la moto è pronta. Che ne dici se... ti rapisco?»

«Devo fare qualcos'altro.»

«Uhm, devo continuare ad aspettarti?»

«Vai nel giardino sul retro, lì c'è Nina. Cerca di farti perdonare da lei.»

«Hai ragione.» Passò la mano nella sua massa riccia e indomabile. «Sono un po' in ritardo. Si arrabbierà tanto?»

«Credo che avrai abbastanza lavoro da fare per entrare nelle sue grazie. Ha un cuore buono, ma sa essere molto testarda quando le fai un torto.»

«Bene... allora qualunque sia la punizione che mi aspetta, la accetterò.» Si rassegnò a ricevere la paternale di Nina.

«Ok, ci vediamo dopo.»

Proseguii il tragitto. Dovevo incontrare il padre di Bruno per la faccenda dell'operazione.
Non sarebbe stato semplice spiegare che il figlio doveva subire un'operazione urgente.

[...]

«Epilessia?» Ripetè l'uomo confuso. «Bruno non può avere l'epilessia, è impossibile.»

«Purtroppo, sì. Sorridere sempre è un chiaro sintomo.»

«Come può il sorriso essere una malattia?»

«Non ride perché lo vuole, lo fa quando ha paura o è arrabbiato. Questo è dovuto alla pressione del tumore sull'ipotalamo.»

«Quindi mio figlio non rideva perché era felice. Era malato e io non lo sapevo? Che razza di padre sono se non me ne sono accorto?»

«Non si incolpi. Nemmeno un medico plurilaureato è in grado di riconoscere questa malattia.»

«Cosa farà?» Andò dritto al punto senza giri di parole.

«Il tumore sta crescendo, dobbiamo operarlo.»

Si sporse in avanti strabuzzando gli occhi. «Proprio ora?» Abbassai gli occhi un attimo. «Dottoressa, se non ci sono rischi, possiamo rinviare l'intervento per un po'?»

«Ascolti, l'ipotalamo influisce sulla crescita. Se non viene trattato, può causare pubertà precoce o difficoltà respiratorie.»

«Quanto costano le cure?» chiese poi. «Entrambi i miei figli sono ricoverati in questo ospedale, è troppo.»

«Non lo so, davvero. Dovrà parlarne con i contabili.»

«Dottoressa Andreani, scusi, non fraintenda.» Proseguì. «Non voglio che pensi che sono un pazzo e che penso solo ai soldi.»

«Assolutamente no...»

«Ero un agente assicurativo, avevo una buona situazione, ma da quando mia moglie è passata a miglior vita... io ho perso tutto. Non mi è rimasto più niente.»

«La capisco.»

«Mi lasci chiedere i costi dell'intervento.»

Feci un ulteriore cenno di assenso e ci alzammo dal tavolino in contemporanea.
«Se possa aiutarla in qualche modo, per favore non esiti a chiedermelo. La salute di quei bambini viene prima di tutto.»

«La ringrazio, ha fatto già abbastanza per noi.»

Mi strinse la mano.

«Di niente.»

Dopodiché mi rimisi seduta al tavolo, pensando alla sofferenza che stava patendo, sapendo che entrambi i suoi figli avevano bisogno di cure mediche e probabilmente anche costose...






Angelina

Avevo sempre desiderato un cane da bambina e, a quanto pare, era arrivato il momento di realizzare il mio desiderio grazie a Kiko e non potevo essere più entusiasta di quella novità...

«Oh, che cosa carina. Ti mangerei tutto!»

Il cagnolino tirò fuori la lingua seduto sulla panchina, in mezzo a me e la bambina, che lo accarezzò a sua volta.

«La zia Fede ha deciso di prendere un cane?»

«Probabile. Non è carino? Guarda il suo musetto peloso! Oh...» Un pensiero mi frullò nel cervello e aggrottai la fronte. «Non ti vorrà mica tutto per sé? Fede sta cercando di vedere se io e te possiamo andare d'accordo. Vivremo con te, piccolino. Dormiremo abbracciati tutta la notte.» Sprofondai con la testa nel suo pelo morbido e la piccola rise. Mi sollevai, facendo una smorfia. «Ma anche zio Wax vive con noi. Come faremo a starci tutti in una casa così piccola? Vabbè, lo troveremo un modo! Giusto, Fe?» La bambina annuì. Tirai fuori il cellulare per scattare un selfie. Spostai poi gli occhi verso il riccio che si stava avvicinando, rivolgendomi uno sguardo malizioso e misi via il telefono, assumendo un'espressione indignata. Balzai in piedi e sciolsi il guinzaglio. «Kiko, vai, mangialo! Mangialo! È brutto e cattivo! Non avvicinarti altrimenti ti farà a pezzettini!»

Il cane partì all'attacco ma, contrariamente a quanto avevo detto prima, si sdraiò girandosi a pancia su, facendosi fare le coccole da quel ragazzo impertinente. La bambina rise a crepapelle a quella scena, più che altro per la mia faccia allibita.

«Oh... Sei spaventoso, un selvaggio!» Mi guardò e alzai un cipiglio. «Sono un ignorante.»

«"Stronzo" suona meglio.» E ovviamente, aggiunsi. «E tu non ripetere queste parole! Tua zia mi uccide, se lo sa.»

«Mi scusi, signora.»

«Signora?» ripetei, aggrottando la fronte. «Ma se sono più giovane di te.»

Si alzò in piedi, attirandomi in un abbraccio e, dopo qualche secondo, mi lasciai andare adagiando la testa sulla spalla.

«Mi dispiace tanto, Ninni.» bisbigliò fra i miei capelli e un sorriso mi apparve sulle labbra. Ci separammo e lo vidi sinceramente pentito. «Ho fatto quello per allontanarti da me. Mi dispiace di averti spaventato e turbato.» Alzai gli occhi al cielo mostrandomi orgogliosa. «Scusami...»

Misi il broncio, tornando con gli occhi all'insù e braccia conserte. «Non lo so... ci devo pensare.» Mi rivolse un sorriso. «A tal proposito, che ci fai di nuovo qui a Roma?»

«Mi ha chiamato Federica.»

«La mia Federica?»

«Sono sorpreso quanto te.» Scosse la testa, diventando serio. «Qualcosa non va, Angelì?» Presi un respiro, schiudendo le labbra. «Federica ha qualche problema?»

Inclinai la testa da un lato e l'espressione di Enne non cambiò. Federica, in realtà, non ne aveva nemmeno parlato e stamani avevo trovato la sua stanza nella confusione più totale e di solito... non era una persona che metteva a soqquadro a caso.
Non senza un motivo valido. Nella testa c'era qualcosa che non funzionava bene...

[...]

«Pronto?» Rispose.

Avevo lasciato la bambina e Kiko con il mio amico e volevo sentire la sua voce quella mattina.

Sperando che non fosse impegnato con i casi medici.

«L'amante più dolce, più sonnolento e più russante di tutti... Che succede?»

«Quando hai preso il mio telefono e hai cambiato il nome? Quando l'hai fatto?»

«Quando stavi dormendo. Stavo per svegliarti e chiedertelo, però dormivi così profondamente che ho preferito non farlo.»

«Mi hai guardato dormire?»

«Sì, qualcosa non va, caro? Mi piace guardarti. Senti, devo farti una domanda: tu... sei allergico ai cani o ne hai paura?»

«No, perché?»

«Credo che Fede abbia adottato un trovatello per portarlo a casa.»

«Come sarebbe a dire casa?»

«Esatto, casa, anzi...» specificai alzando gli occhi. «Nostra.»

«Casa nostra? Be', è come una famiglia, no?  È la nostra casa. Suona bene.» Fece un'altra pausa. «È carina...»

«Matteo, sicuro di stare bene?»

«Sto bene, certo, sto benissimo.»

Non sembrava dal suo tono.

«Ok... sono in giardino con la piccolina. Quando hai finito col lavoro, vieni a giocare con Kiko.»

«Verrò.» Un'altra pausa e restai attaccata al telefono. «Nina?» Mugugnai. «Non so esprimermi su certe cose, ma voglio che tu sappia che... io ti amo tanto. Non dimenticarlo mai, ok?»

«No, non lo farò.»

«Se un giorno, mi dimentico di tutto, non lasciarmi solo, ok?» Schiusi le labbra, perplessa. «Ricordamelo. Ricordami che ti amo. Non farmelo dimenticare, va bene?»

«Ok... non ti lascerò solo. Matteo?» Deglutii. «Stai bene?»

«Sto bene.» affermò. «Mi sta richiamando il dottor Rinaldi, devo tornare a lavoro, ok?»

«Bene, a più tardi, tesoro.»

Riattaccò, non dandomi il tempo di salutarlo e mi lasciò stupita.

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