Capitolo 16.1 - Trova una cura
Federica
"Signorina Andreani, lei è la nuova socia dell'ospedale Maddalena Svevi..."
Quella frase echeggiava nel cervello da quando l'avvocato l'aveva pronunciata in sala.
Le quote, il sorriso compiaciuto apparso sulle labbra del moro, le facce sgomente di Paolo Svevi e il padre, che non si aspettavano quel colpo di scena.
Ma il presentimento covato finora era diventato una certezza inesorabile.
Era colpevole come gli altri.
«Ipocrita.» Osservare l'immagine di Giorgio Rinaldi fu come ricevere un pugno dritto allo stomaco. Dietro il suo gesto innocente, si nascondeva un tornaconto personale. «Mi hai mentito guardandomi negli occhi. Mi hai dato il tuo ospedale e mi chiedi perdono.» Feci una pausa. «Be'... non lo farò, Giorgio Rinaldi. Mi hai lasciato a pezzi, ma non intendo lasciar perdere. Sappi che me la pagherai cara.»
Nemmeno all'inferno sarebbe stato al sicuro. Lo avrei trovato ovunque quella canaglia.
Agguantai quella cornice e la feci schiantare sul pavimento, il vetro si ruppe in mille pezzi e la foto scivolò fuori dalla cornice. La contemplai per qualche istante con aria scazzata, - lì dove avrebbe dovuto stare, ai miei piedi - e il cigolio della porta catturò la mia attenzione. Giovanni avanzò dal fondo e spostai gli occhi su di lui. "Lo sapeva. Sapeva tutto quanto." Lo lessi nei suoi occhi blu, anche se non aveva detto una parola.
Mi incamminai per scansarlo ma quando gli passai accanto, mi afferrò prontamente il braccio.
«Lasciami!» sbottai.
«Possiamo parlare?»
«Di cosa? Tuo padre ha confessato tutto lì dentro.»
«Fede, per favore...»
«Da tutto questo tempo l'hai sempre saputo e non mi hai detto nulla? Pensi che io sia stupida?»
«No... però te l'avrei detto.»
«Ma non l'hai fatto!» ribattei cercando di divincolarmi.
«Perdonami...» Mi tenne ferma e abbassò lo sguardo un istante. «Io... davvero, ti chiedo scusa.»
«A loro non è dispiaciuto affatto. Sai cosa hanno fatto? Lo sai? Undici anni fa, mi hanno portato via tutto! Mi hanno privato della cosa più importante che avessi... e anche tuo padre. Mi hanno rovinato la vita Gio, e adesso mi dici solo che ti dispiace?»
«Aspetta, aspetta.» Mi tirò e strattonai il braccio.
«Non provare a seguirmi!» Gli puntai l'indice contro.
«Fede... non mi abbandonare. Per favore, lasciami stare con te.»
Con sguardo duro, mi divincolai violentemente e fu costretto a mollarmi. «Non ho bisogno della tua compassione. Non ho bisogno di te. Di chiunque altro, ma di te, no.» sputai. Restò in religioso silenzio e lo piantai lì, marciando verso la porta per poi uscire sbattendola alle spalle.
Non sapevo cosa pretendesse. La mia testa era un pasticcio e mi sentivo una nave alla deriva.
[...]
Seduta sulla panca dello spogliatoio, ammirai la foto che portavo sempre con me da anni. Lei intenta ad accarezzarmi la guancia e io a sorriderle. Quel periodo era stato bello, avevo assaporato cosa si provasse ad avere qualcuno al tuo fianco che ti amasse e ti accettasse per come eri... ma qualcuno aveva pensato bene di rovinare tutto e ci aveva separate crudelmente.
Mia nonna era morta ed ero tornata ad essere sola contro tutti e contro il mondo intero.
"Vorrei che fossi qui. Pensavo di poter affrontare il mondo intero, di non farmi schiacciare... però come credevo di farlo?"
Parlai con me stessa. Interruppi quel flusso di pensieri e scattai in piedi per aprire l'armadietto. Scavai tra le grucce finché non trovai la giacca in pelle, non la mettevo da tempo... quando le regole amavo infrangerle. Lo gettai sulla panca e, in seguito, indossai una t-shirt scura e le scarpe col tacco furono sostituiti da vecchi stivali e infine la giacca. I capelli erano cresciuti leggermente, li legai in una coda di cavallo e raccolsi lo zainetto. Sì, ero apposto così. Mi sentivo più me. Uscii dallo spogliatoio. Poi mi diressi a passo svelto nel garage sotterraneo dove c'era parcheggiata la mia auto. Accesi i fanali e ingranai immediatamente la marcia facendo stridere le ruote quando svoltai. Il telecronista della radio informò che ormai l'estate era passata e che era meglio prendere l'ombrello che a breve sarebbe venuto giù un acquazzone" e la sua voce nasale mi snervò tanto che spensi la radio per avere silenzio nell'abitacolo. Le prime gocce vennero spazzate via dal parabrezza, poi aumentò d'intensità. La strada venne invasa dalla pioggia fitta. Dovetti fermarmi, quando vidi Giovanni fermo al centro della strada.
Ma che problema aveva?!
Non si spostò. Suonai il clacson innumerevoli volte, poi girai lo sterzo, a destra e di nuovo a sinistra, ma in entrambi i casi continuò ad intralciarmi.
«Togliti di mezzo!»*
«Se è ciò che vuoi, "investimi"»
«Sei completamente pazzo! Non puoi fermarmi così. Ti ho detto di spostarti!» Mi ribollì il sangue.
«Non fermarti, allora.»
«Ah, davvero?» Mi infilai dentro e indietreggiai in retromarcia, tanto la strada era libera. Con lo sguardo puntato sulla sua figura iniziai a premere sul pedale, il volante stretto fino a far impallidire le nocche, poi partii a tutto gas. Se non mi avesse fatto passare con le buone. Ma, quando stavo per travolgerlo, inchiodai la vettura, senza neanche sfiorarlo e restò ritto.
«Merda!» Colpii lo sterzo con un pugno e, sfidando la pioggia, mi catapultai fuori raggiungendolo. Gli assestai un calcio allo stomaco e cadde sull'asfalto in posizione fetale. Gemette, prendendo respiro dopo il colpo che gli avevo inferto e mi guardò. Un fulmine squarciò il cielo, illuminando di azzurro il suo viso.
«Non lo sapevo, Fede. Anch'io lo avevo appena scoperto.»
«E hai pensato bene che mentire e ingannare fosse più facile per te, no?»
«No...» protestò e, adirata, gli tirai un calcio al ginocchio, si ritrovò a terra un'altra volta. Ostinato, tornò ad alzarsi e sospirò a fondo. «Ascolta... so quanto stai soffrendo. E so quanto è difficile.»
«Cosa sai? Non sai un cavolo! Nessuno sa come mi sento io!» Fuori di me, avrei voluto schiaffeggiarlo e la mia mano sarebbe impattata contro la sua guancia, se non mi avesse bloccato. Mi attirò a sé, cingendomi i fianchi.
«Io lo so invece! So come ti senti, Fede. Sono io! Sono Giovanni, l'uomo che ti ama da morire.»
«Me l'hai nascosto!»
Mi agitai per staccare quelle mani dal mio corpo.
«È stato per poco.» insistè, stringendomi con più ferocia.
«Io mi sono fidata di te. Sei stato l'unico a cui ho confidato tutto. Cos'ho ottenuto in cambio, dimmi?! Ormai non c'è più nulla che ti distingua, anzi... sei come quella gentaglia!»
Gli tirai una gomitata, indietreggiando per porre una certa distanza tra di noi, ma allungò le mani e mi trascinò di peso verso l'auto, stendendomi completamente sul cofano anteriore. Mi opposi ma mi bloccò il polso.
«È vero, hai ragione. Non sono diverso da quella gentaglia, Fede.» ammise.
«Lasciami!»
Cercai di scrollarlo via, ma col suo peso continuò a schiacciarmi, corpo a corpo.
«No, non ti lascio, hai capito? Manterrò la promessa che ho fatto a me stesso di non lasciarti... anche se mi insulti, mi picchi, o mi prendi a schiaffi. Fede... ti prego, ascolta.»
«Non puoi obbligarmi ad ascoltarti! Lasciami!» Ringhiai.
«Devi, ti prego!» Sovrastò il mio "no" categorico e fortificò la presa. «Mio padre ti ha fatto del male, ti ha ferito, per questo lo odio e odio anche me stesso! Odio essere figlio di quel... mentecatto! Quando l'ho scoperto, sono andato da lui e gli ho gridato addosso, gli ho rivolto delle parole orrende...» I suoi occhi si riempirono di lacrime mischiate all'acqua e sbattei le palpebre. «Sai che è stata colpa mia? Sono stato io. Mio padre è morto per colpa mia.» confessò tra un ansimo e l'altro, zittendomi per qualche secondo. «Non voglio separarmi da te! Non voglio rinunciare a noi per il passato. Ti prego, dammi una possibilità di dimostrartelo.»
La pioggia stava bagnando intensamente entrambi, sentivo la maglietta attaccarsi alla pelle e Giovanni osservarmi dall'alto.
Mi sollevai e si scostò per farmi drizzare la schiena. Asciugai la lacrima sullo zigomo che stava scendendo.
«Mi dispiace per tuo padre.» Lo guardai dritto negli occhi. Percepii il suo dolore fin dentro il midollo, nelle ossa. «Ma non basta parlare o pentirsi. Io... non posso perdonarti.»
Tirai su con il naso, sentendo un groppo in gola e senza aggiungere altro feci il giro della macchina rientrando. Ero fradicia: vestiti, capelli, tutto.
Ciò che era peggio era non poter ignorare lo sguardo abbattuto di Giovanni quando me ne andai...
Angelina
Raggiunsi il rossiccio che mi aveva dato appuntamento in un parco non molto distante e accelerai il passo tramutandomi in una gazzella. Non mi aveva anticipato di cosa.
«Devi dirmi altro? Cosa cerchi di fare? Vuoi impressionarmi con questo panorama? Ti avverto che questo trucchetto non funzionerà con me.»
Si voltò totalmente con il busto e sorrise, sfoggiando quelle detestabili fossette.
«Pensavo che ti sarebbero piaciuto.»
Tirò fuori dalla tasca un marshmallow a forma di unicorno rosa, ma non potevo dargli quella soddisfazione.
No, signore!
«Che pensi? Che sono una bambina? Vuoi ingannarmi così?» Protestai incrociando le braccia al petto.
«Cosa c'entra, Nina?»
«C'entra, c'entra eccome. Ho capito tutto ieri sera.»
Fece spallucce. «Mi hai frainteso. Ho dovuto riprendere il turno in pronto soccorso e non ho avuto neanche il tempo di spiegartelo.»
«Pensi di avere Angelina in pugno? Vuoi spiegarmelo dopo... 37 ore e 45 minuti?» Guardai un orologio che in realtà non avevo e gli strappai la busta di mano.
«Hai ragione su qualunque cosa tu dica, Angelina. È solo che sto avendo dei problemi.»
«Cos'hai?» Chiesi, mutando espressione in un lampo.
Sospirò, passando la mano fra i suoi riccioli ribelli. «È... imbarazzante.» Ridussi gli occhi in fessure. «Non volevo disturbarti per quello non ti ho detto nulla, ma devo dirlo a qualcuno, Angelina.»
«A me puoi dirlo. Cercherò di aiutarti in ogni modo possibile.» Gli proposi poi di dividere anche il mio unicorno ma negò con la testa e tornò a fissare le ballerine ai piedi.
«Nina...» Si coprì le labbra, come se stesse riflettendo su come iniziare quel discorso, senza impappinarsi. Attesi. «Posso... Ecco... stare da te per un po'?»
Mi andò di traverso il marshmallow e tossicchiai. Poi schiarii la voce. «Intendi dire... con Federica e... me?»
Infilò le mani nelle tasche della polo. «Se non è problema per te e per la dottoressa Andreani.»
La proposta mi aveva colto di sorpresa e, per qualche secondo, lo fissai senza spiccicare parola. Dal suo canto, il ragazzo mi spiò di sottecchi con il capo inclinato a destra, aspettando una replica. Sbattei più volte le ciglia per riprendermi dalla trance.
[...]
Insolito però era palesemente in difficoltà dato che non sapeva da chi andare, ora che Gianmarco lo aveva sfrattato dalla roulotte...
Non era la fine del mondo, giusto?
Tornammo all'appartamento e dissi al giovane di mettersi comodo, mentre intanto andai a preparare un piccolo spuntino. Quando entrai nel salotto, si era già accomodato sul divano.
«Oh, chef Mango, che hai preparato questa sera?»
«Niente di che. Solo un tramezzino al tonno e pomodoro, poi anche della frutta fresca: kiwi, uva, fichi...» Sfortunatamente inclinai troppo il vassoio sbadatamente e il bicchiere di succo si rovesciò sulla camicia del ragazzo. «Oh! Cavolo! Mi dispiace, Matteo!»
«Accidenti! Volevo andare a lavorare con questi vestiti, Angelì. Se il dottor Daliana mi vede così, mi farà fare altre cinquanta flessioni!»
Posai il vassoio sul tavolo, onde evitare di fare altri danni.
«Mi dispiace molto.»
Sollevò gli occhi verso di me. «Che faccio? Che disastro.» Provò a pulire col tovagliolo la macchia arancione e sbuffò.
«Ci sono! Spogliati!»
Mi osservò di sottecchi, alzando un sopracciglio.
«Eh?»
«Ti ho detto di spogliarti. Ho fatto il pasticcio e io rimedierò. Basta buttarlo in lavatrice.»
«Non importa. Chiederò dei vestiti in prestito a Gianmarco.»
«No, i suoi vestiti non ti andranno bene.» insistei cercando di sganciare i bottoni, partendo dal collo.
«Ok, Angelì! Voltati.»
«Come?»
«Girati.» Feci come mi aveva chiesto e gli diedi le spalle. La curiosità però prese il sopravvento, ruotai il collo un attimo. «Ehi!» mi ammonì.
«Va bene, non ti guardo. Ecco. Dimmi tu quando finisci.»
Coprii gli occhi come a mosca cieca. Mi passò la camicia con i disegni delle palme e dei cocchi e mi rivoltai, guardandolo con un ghigno malizioso. Era a petto scoperto, la luce della televisione accesa rischiarava i suoi pettorali e con le mani ai fianchi da cui si ramificavano delle grosse vene. Mi dovette schioccare le dita davanti alla faccia perché mi ero imbambolata.
«Nina? Ehi? Sei connessa?»
«Mi verrà in mente qualco-» Mi bloccai all'istante quando udii la porta dell'ingresso. «F-Federica!» Urlai a bassa voce e il ragazzo provò ad acquattarsi a terra. Vidi una maglietta gialla e l'agguantai, porgendola a Wax che si era rimesso in piedi, rinunciando a fare il camaleonte sul tappeto.
«Non mi va!»
«Quante storie! Mettilo!»
Se la infilò alla velocità della luce. La mora si bloccò nel corridoio alla vista di entrambi.
«Buonanotte.»
«Ciao Fe...»
«Sogni d'oro anche a lei, dottoressa Andreani.» rispose Wax. Anziché domandarmi perché Matteo Lucido fosse nel nostro appartamento a quell'ora, non aprì bocca e si ritirò in stanza. «Angelina?» La maglietta non era della giusta misura infatti gli aveva scoperto l'ombelico, ma il dubbio che orbitava nel cervello era altro. Di solito, quando rispondeva a monosillabi e faceva scena muta, c'era qualcosa di grave...
Mi lasciai il rosso alle spalle uscendo in corridoio. «Fede?» Bussai. «Fede...» Dall'interno non proveniva nessun rumore. «Federica, è tutto ok?» Finalmente aprì, appoggiando la spalla allo stipite. Squadrai il suo aspetto, aveva i capelli umidi. «È tutto ok?» ripetei.
Strana, come un gatto che parlava. Anche perché i gatti non parlavano...
«Sto bene, tranquilla.»
Ma la sua espressione era apatica, priva di emozioni.
«Non hai una bella cera, tesoro. Sembra che hai preso di faccia un camion.» Constai. «Che ti è successo?» Mi appoggiò la mano sul braccio, mi augurò la buonanotte e si richiuse dentro addirittura a più mandate. «Oh... Sembriamo turiste in questa casa. Non sappiamo cosa succede nella vita dell'altra.»
[...]
«Non esce dalla sua stanza da ieri notte. Avrà un problema? Ah! C'è sempre qualcosa che non va in questa ragazzina. Sempre e solo casini e ancora casini» Rimuginai appiccicata alla sua porta come una chewing-gum alla suola delle scarpe quando le calpestavi per sbaglio, feci per allontanarmi. «No, no, non può rimanere lì, da sola. Potrebbe fare una pazzia.» Ormai era mattina e bussai. «Federica? Posso passare?» Non aspettando il consenso, entrai lo stesso. Vidi sul suo letto sparsi una marea di libri aperti, una confusione bestiale che mi lasciò intonita. «Ch'è successo a questa stanza?» Sembrava fosse appena esplosa una bomba, era tutto a soqquadro. Il portatile aperto sulla scrivania. «In... che anno siamo?»
«Cosa?»
«Voglio dire, siamo tornati indietro con una macchina del tempo fino al credo... Duemiladodici, o sbaglio?»
«Che vuoi dire, Ange?»
«Imsomma... sei la vecchia Federica.» Era ferma allo specchio. «Che ti è successo? Me lo puoi spiegare?»
«Niente. Mi mancava.»
«Così all'improvviso?» Si spostò prendendo lo zaino e la giacca lasciata sullo schienale della sedia. Osservai i suoi gesti interdetta. «Perchè?» Si fermò vicino a me e la scrutai con la coda dell'occhio. «Fede... Non è tutto ok, vero?» Abbassò lo sguardo inumidendo le labbra. «Hai qualcosa. Lo vedo dai tuoi occhi, non sei più la stessa. Hai una vita molto intensa e... sono davvero preoccupata che possa influire negativamente su tutto ciò che di bello hai costruito.»
«Non devi, Nina. Me la caverò.» Mi sfiorò la spalla e dopodiché toccai la sua.
«Bene, allora... sistemo sto' macello.» Tirai un sospiro e mi girai intenta a raccogliere il primo libro che mi capitò.
«Ferma!» Gridò e rimasi piegata.
Mi voltai a rallentatore. «Pensavo di ordinare qui altrimenti finirai seppellita come "sepolti in casa".»
«Meglio di no. Se ne sposti anche solo uno, poi non troverò più niente. Odio quando ficcano il naso nella mia roba. Lascia come sta e va ad aprire la caffetteria. I clienti non aspetteranno a lungo. Ok? Buona giornata, baby.» Alzai un cipiglio quando si defilò.
«Ok... ma non ti ho spiegato di Wax.»
Un altro sospiro infranse il silenzio. Sicuramente con l'umore che si ritrovava sarebbe stata un'impresa dirle che Wax voleva trasferirsi da noi.
Che trovata geniale!
Giovanni
Durante il tragitto continuai a scervellarmi e a chiedermi se esistesse una soluzione. Sentivo che l'avrei persa se non avessi fatto qualcosa, ma non ebbi il coraggio di chiamarla. Allontanai il dito e lasciai cadere l'aggeggio sul sedile. «Tempo al tempo. Devi avere pazienza.» mi dissi, prendendo a morsi il labbro inferiore e strinsi il volante. Non aveva senso forzarla. La conoscevo, era orgogliosa e adesso si sentiva anche tradita per il fatto che le avessi nascosto la verità. Quella ferita era ancora aperta e non avrebbe smesso di sanguinare facilmente. Varcai l'ingresso dell'ospedale avviandomi da Gianmarco e Mattia ch'erano in compagnia di un ragazzino. Tolsi gli occhiali da sole: «Che sta succedendo?»
«Ci sta facendo uno scherzetto, dottore. Niente di che.»
«Perché non vogliono credermi? Giuro che sto dicendo la verità!» insistè il giovanotto sorridente.
«Se non ti credono loro, prova con me. Qual è il problema?»
«Mio fratello è caduto in un pozzo e non mi crede nessuno.»
«È caduto in un pozzo?» ripetei e lui assentì, ma sembrava vittima di una strana paresi facciale. «E perché ridi? Com'è caduto tuo fratello?»
«Gli ho detto di non seguirmi, ma non mi ha ascoltato. Voleva venire a riempire le bottiglie d'acqua con me, si è aggrappato al pozzo, non sono riuscito più a tenerlo ed è caduto giù.» spiegò gesticolando con le mani. «Venga signore, glielo faccio vedere! Andiamo!» Mi tirò.
«Aspetta, ok, calmati, calmati...»
«Per favore, dobbiamo salvarlo!»
«Ok, verrò con te, non preoccuparti. Dov'è il pozzo?»
«Dietro la scuola.»
«Dietro la scuola?» Annuì, sorridendo ampiamente. Guardai immediatamente l'infermiere tenendo le mani del bambino. «Gianma, manda un'ambulanza e vigili del fuoco sul posto.»
«Ma gli sta reggendo il gioco, dottore?» E sghignazzò.
«Gianmarco!» Gli lanciai un'occhiata severa. «Fallo.» Fu costretto ad obbedire e corse via. «Mattia, tu verrai con me.» Quest'ultimo annuì, in seguito mi rivolsi al bambino, prendendogli il viso tra le mani. «Andrà tutto bene. Salveremo tuo fratello.»
[...]
Seguii alla lettera le istruzioni e giungemmo sul posto. Scesi, lanciando con noncuranza gli occhiali da sole sul sedile, e avvicinai ad un uomo. Ci stringemmo la mano. Spiegò che un bambino di otto anni era caduto e non poteva muoversi, e inoltre un medico di passaggio aveva cercato di intervenire per aiutarli. Scansai alcuni operai e mi affiancai a Mattia e al ragazzino. Lo feci allontanare leggermente dal punto pericoloso e guardai di sotto.
Strabuzzai gli occhi. «Matteo!?»
«Dottor Giovanni!»
«Che fai lì?»
«Lo vede!» Fissai il ragazzino, ma non capivo se fosse irritato, visto che continuava ad avere il sorriso sulle labbra. «Nessuno mi credeva che fosse nel pozzo.»
«Ok, Mattia portalo via. Aspetta con il dottore, adesso tiriamo fuori tuo fratello. Matteo!»
«Stavo andando in ospedale quando ho visto la folla, non ho esitato a prestare soccorso.»
«Hai fatto la cosa giusta. Come sta il bambino?»
«Non può muoversi. Ma...» Iniziò a respirare con affanno e a ciondolare avanti e indietro. «Anch'io non mi sento bene...» confessò, perdendo i sensi.
«Matteo! Merda!» Non rispondeva. Incrociai lo sguardo sconvolto di Mattia. Mi curvai, urlando a squarciagola. «Matteo!» La situazione stava peggiorando, le persone da trarre in salvo erano due. «Ragazzi, il metano si è accumulato sul fondo del pozzo. Per questo motivo, Matteo è svenuto. Potrebbe esserci una rete fognaria che passa da queste parti. Ora devo scendere e fare un intervento medico. Dobbiamo portare il medico e il bambino fuori da lì, d'accordo?» La squadra non batteva la fiacca e avevano già pronto il rimorchio, aspettavano solo un mio segnale. Controllai l'imbracatura e scossi la testa.
«Tirerete mio fratello fuori con questa corda?» chiese il ragazzo.
«Esatto. Lo legherò a questa corda e lo porterò su. Perché mi hai fatto questa domanda?»
«E se si rompe? Ho paura.»
L'osservai, un sorriso a trentadue denti, sembrava incollato alle labbra. Nessun'altra mimica facciale oltre quello. Non dava l'impressione che fosse così impaurito. «Ha paura.» Annuii. «Ha paura, ma sorride. Tranquillo, porterò in salvo tuo fratello.» Poi diedi l'ok per farmi passare lo zaino arancione con l'attrezzatura medica. Mi sollevarono e, con estrema prudenza, iniziai a scendere nelle viscere del buco facendo attenzione a non incanalarmi. Sganciai il moschettone, liberandomi e tolsi lo zaino dalle spalle. Presi un'altra maschera e me la premetti sulla bocca per fare scorta d'ossigeno. Raggiunsi Matteo e la posizionai sulla sua. «Matteo... coraggio, respira profondamente. Bravo.» Tossì, si stava riprendendo e lo tirai per farlo sedere. «Respira, respira profondamente. Stai bene?» Gli scompigliai i capelli scrollando il terreno. «Ti fa male? Hai preso una botta?» Scosse il capo e passai a controllare il bambino. «Ciao, piccoletto! Che succede? Non hai nulla da temere con me. Diamo un'occhiata a questi occhietti, eh...» Puntai la torcia nelle sue pupille scure. «Oh, che bellissimi occhi! Adesso anche il collo...» Portai le mani in quel punto. «Ti fa male?» Cercai nella borsa il collare ortopedico e glielo posizionai. «Ti chiami Alex?» Mugugnò sì. «Piacere di conoscerti. Sono Giovanni, sono un medico e sono qui per aiutarti a stare meglio. Tra poco ti tireremo fuori e andremo in ospedale, ok? Come ci sei arrivato qui, campione? Ok, usciamo da qui e poi ne riparliamo.» L'ossigeno scarseggiò e iniziai a tossire. Appoggiai la mano sulla spalla del rosso. «Che ci fai qui, amico, eh? Non hai pensato che ci fosse una fuga di metano qua sotto?»
«C'era una sola maschera. Pensavo che avrei potuto tirarlo fuori in fretta, dottore.» rispose togliendosi la maschera e accarezzai la fronte del bambino. «Dov'è la sua maschera?»
«Nelle tue mani.» Gliela indicai con un cenno del mento e me la passò per farmi inspirare altro ossigeno. «La useremo a tempi alterni, però dobbiamo sbrigarci altrimenti moriremo asfissiati.» Gettai un'occhiata al piccolo. «Dobbiamo andarcene via, ok, piccoletto?» Matteo annuì e alzai gli occhi, riprendendo a tossire. In seguito, gli feci un'iniezione al braccio, conficcando poi l'ago nel terreno. Il fratello lo chiamò a gran voce dall'alto. «Il tuo fratellone è preoccupato per te, piccoletto. È lui che mi ha portato qui da te, sai? Sta aspettando lassù - glielo indicai - un grande eroe come te. Non facciamolo aspettare ancora.»
Wax mi passò di nuovo la mascara e inspirai a fondo un paio di volte.
«Pensavo che non dovessi spostarlo, dottore. Credo che abbia il collo rotto...»
Gli restituii la maschera e appoggiai la mano sulla spalla. «Ottimo lavoro. Sembra che non ci siano fratture, probabilmente è solo dislocato, ma un singolo movimento avrebbe potuto essergli fatale. Bravo!» Gli diedi altre pacche. Aveva avuto una buona intuizione. Alzai il capo. «Il bambino è pronto! Fate scendere la barella!» Quest'ultima venne calata giù, Wax allungò le mani per afferrarla, ma lo fermai per fargli mettere la mascherina.
Ne aveva più bisogno lui che io...
Riuscii ad allacciare il bambino alla tavola spinale per impedirgli qualunque movimento sbagliato. «Il bambino è pronto! Tiratelo su!» Cominciarono a sollevarlo dall'alto. Gli tolsi la mascherina, in seguito fu il turno di Matteo. Lo agganciai alla corda e diedi l'ordine di portarlo fuori.
«E lei, dottore?»
«Dai, vai!» Lo spronai, ruotandolo in posizione verticale. Alla fine toccò al sottoscritto e mi lasciai risollevare tornando di sopra. Ringraziai l'operaio con una possente stretta di mano e il ragazzino sorrise con riconoscenza, gli arruffai i capelli. «Wax, ragazzo, stai bene?»
Si rannicchiò fra le mie braccia e a stento si resse in piedi, poi spostai gli occhi sul ragazzino, stavolta il suo sorriso splendente aveva un senso.
Tommaso
Capitava di rado momenti di stacco dal lavoro e me ne andai a zonzo per il corridoio con le mani piazzate nelle tasche. Quando passai davanti alla sala operatoria indietreggiai a passo di gambero vedendo la "pel di carota" stesa sul tavolo operatorio che aveva scambiato per un confortevole giaciglio.
Entrai senza fare il minimo rumore e allungai il collo per controllare se dormisse. In effetti, si era addormentata, come un sasso, in posizione fetale. Un sorriso impertinente indugiò sulle labbra. Si girò a pancia su, con gli occhi chiusi e abbracciandosi il corpo con le braccia. Mi scappò una risata, presi il telo blu dal carrello per coprirla ed evitare che prendesse freddo.
La giovane si svegliò di soprassalto. «Mamma...»
Pessima idea, Tommy.
«Sssh...» Soffiai.
«Devo andare da lei. Mi starà aspettando!»
Sembrava alquanto confusa.
«Ale, un momento.»
Scostò il telo e mi ignorò, parlando tra sé e sé di mille cose. «Dovevo fare i rapporti, Gianmarco mi starà cercando. Dove mi trovo?» S'interruppe per guardarsi attorno. «In sala operatoria. Da quant'è che stavo dormendo? Oddio! Che figuraccia!» Si coprì la faccia. Le feci segno di stare zitta con il dito. «Stavo per dare la medicina ad un paziente. Devo andare a prendere la bambina a scuola, ma non c'è nessuno. Mio padre è stato...» Massaggiò la fronte e mi fece sorridere, era buffa. «Volevo chiamare l'avvocato per papà e me ne stavo per dimenticare! Sarà meglio che mi prenda cura di mia madre.»
Le cinsi i fianchi con le mani e ci ritrovammo con i visi a pochi millimetri. Si specchiò nei miei occhi, come io nei suoi, e catturai le sue labbra. Chiuse le palpebre assaporando quel momento, io invece no, volevo guardarla. Ci staccammo, restando vicini, e riaprì gli occhi. Si zittì.
«Che c'è? Era l'unico per farti stare zitta. Mi stavi facendo la testa quanto un pallone. Ale, cosa fai in situazioni come questa?»
Schioccai le dita e dicemmo all'unisono. «Ossigeno.»
Sorrisi. «Respira.» Sfiorai la punta del suo naso, avvertendo il respiro depositarsi sulle guance. «Respira... ed espira. Ancora.» Mi rivolse un dolce sorriso e le nostre risate riecheggiarono nella sala operatoria. «Ora sdraiati e riposa un'altra oretta. È un ordine.» Annuì. «Cosa aspetti?» Tornò di corsa sulla barella, coprendosi col lenzuolo e finii di rimboccare le coperte come fosse una bambina. «Mentre dormi, darò un'occhiata ai referti di tua madre e poi ci vedremo più tardi in pronto soccorso.»
«Mhm...» mormorò con gli occhi puntati al soffitto.
«Mhm?»
«Mhm.»
Andai verso l'uscita e girai per controllarla, ma aveva ancora gli occhi spalancati.
«Su, dormi, dico sul serio.»
Dopodiché uscii.
Federica
Parcheggiai nello stallo adibito al personale, a pochi passi da un motociclista di mia conoscenza, che se ne stava in panciolle a sfogliare una rivista di motori. Spalancai lo sportello e scesi dal mio bolide facendolo rimettere seduto composto sulla sella.
Misi lo zaino in spalla, spostando i capelli intrecciati sulla schiena, e gli andai incontro.
«Wow!» Esclamò tirandosi in piedi. Era il solito: l'aria da spaccone e quel ghigno malizioso. «Sogno o son desto? Guarda, guarda... la bad girl Federica Andreani.» Tolsi gli occhiali dalla montatura scura riducendo le palpebre e fece scorrere lo sguardo. «Mi è mancata, devo dire.» confessò.
«La pianti con le cazzate? Non si era detto alle dodici?»
«Lo so, ma ho cambiato idea.»
«Perchè?»
«Mi hai scritto: "ho bisogno di te". E la ragazzina che da giorni non mi chiedeva nemmeno come stessi... addirittura mi chiede aiuto.» Distolsi lo sguardo levando gli occhi al cielo, scocciata. «Come potevo aspettare fino alle dodici? Volevo vedere se stavi bene.»
Tentò di accarezzarmi la guancia, ma mi scansai e gli afferrai il polso.
«Non toccarmi.»
«Mi piace questo lato selvaggio, bambolina.»
«Non ti conviene.»
Incrociai le braccia e prese la treccia rigirandola fra le mani.
«Dammi una possibilità, Andreani. Non ti deluderò» Replicò, dopodiché si fece serio. «Lo vedo che non stai bene.»
«Hai visto male. Comprati un paio di occhiali, De Girolamo.»
M'intralciò il passaggio, mettendosi davanti.
«Fede, che ti prende? Evidentemente, hai un problema. Andiamocene.»
«Assolutamente no, ho dei pazienti da seguire. Devo vedere anche il dottor Riccardo.»
Feci per oltrepassarlo, ma mi agguantò il polso. Era determinato a farmi perdere la pazienza, ci stava riuscendo, e mi divincolai con uno strattone.
«Lasciami.»
«Sembri di nuovo la ragazzina spregiudicata e senza scrupoli che ho conosciuto, ma tutto ciò... ha una spiegazione.»
«Non è affar tuo, Enne.»
Lo guardai in cagnesco e superai marciando verso l'ospedale.
Una volta, salita in ascensore, mi appoggiai alla parete a braccia conserte, e ricordai di aver messo l'anello in tasca stamani. Lo estrassi, osservando attentamente quel simbolo di una felicità effimera e realizzai di non aver ancora capito cosa fare: se tenerlo oppure gettarlo. Fino a che non avrei preso una decisione definitiva, infilai l'anello all'anulare destro e tornai nella stessa posizione con la testa da un'altra parte. Un trillo preannunciò l'apertura e mi avviai verso la stanza del dottor Gentile. Ieri aveva avuto una crisi di panico, mista a pianto, e neanche oggi riusciva a darsi pace, visto che le sue urla si udivano dalla soglia.
«Che succede? Il paziente fa i capricci?»
«Qualcosa di simile.» rispose la dottoressa Rosalba.
«Vi state prendendo gioco di me?» sbottò, inacidito.
«Visto? Forse a te darà ascolto.»
«Non voglio ascoltare nessuno di voi. Andatevene! Fuori di qui!»
«Questo tuo atteggiamento non servirà a niente.»
«Certo! È evidente che non serve a niente.»
Posai lo zaino sul mobile e misi le mani sui fianchi. «Ho passato tutta la notte a cercare protesi.»
«Ah, sì?» Mi schernò, stizzito. «Hai trovato una bacchetta magica in grado di rimettermi a posto il braccio? GRANDIOSO!»
«Riccardo, non fare il rude.» lo ammonì.
«Non sono riuscito ancora a mandarvi via! Peccato!»
«Come preferisci, ho finito il turno. Ci vediamo.»
Abbandonò la stanza. Lo squadrai in posizione autoritaria. Mi guardò di sfuggita e, ignorando i suoi insulti, presi posto sulla sedia.
«Ho contattato diversi centri di riabilitazione all'estero, per aiutarti. Aspetto notizie, ma questa è la migliore. Guarda.»
«Lascia perdere il centro, per un momento.» Con un gesto del capo, indicò la mano. «Ho visto l'anello. Sono sicuro che anche il signor Giovanni è entusiasta.»
Stesi la mano per guardarlo. «La felicità e "noi"? Non possiamo nemmeno stare insieme. La tua guarigione richiederà meno tempo.»
«Senti, la cosa migliore che posso fare in questo momento, anzi l'unica, è ascoltarti.»
Mi sporsi verso il suo viso, riducendo le palpebre. «Hai intenzione di ascoltarmi?»
«Lo farò.»
«Ottimo. Da un'occhiata.»
«Non tutti i metodi funzionano per tutti, lo sai anche tu.» Obiettò gettando il tablet sul lenzuolo.
«Troveremo quello adatto a te.»
Ruotò il capo. «Lo troverete?» Spostò poi lo sguardo avanti. «Ma non so se il tuo fidanzato mi ha tagliato bene il braccio.»
«Puoi dubitare di molte cose, ma non di quello. Gio ti ha sempre voluto un bene profondo. Sei il suo unico punto di riferimento. Non ha più nessun altro. Suo padre è morto, e non voleva perdere anche te. Ric, ti prego...»
[...]
«Ohi, Fede?» Tommy mi bloccò mentre stavo transitando in corridoio. «Congratulazioni.» Lo scrutai dall'alto in basso interdetta. «Sei diventata una socia dell'ospedale.»
«Ah, ti riferivi a quello...»
«Perchè? C'è dell'altro?»
Per un attimo, mi era sfiorato il presentimento che avesse saputo del fidanzamento, ma a quanto pare non era possibile, visto che non avevamo fatto alcun annuncio ufficiale.
«Niente. Come fai a saperlo? Non ho ancora detto nulla.»
«Ne parla tutto l'ospedale!» Riprendemmo a camminare l'uno accanto all'altra. «E bello anche questo cambio look, interessante.» commentò notando i capelli non più corti.
«È stata una follia. Alla fine resteranno solo dei pettegolezzi. Non intendo accettare.»
Non riuscì a continuare a causa dall'arrivo imprevisto di Gianmarco, che lo mise al corrente di un nuovo caso: un cane aveva morso la sua proprietaria e lei, presa dal panico, era scivolata e aveva sbattuto la testa. «Dovevo controllare la signora Rebecca.»
«Tranquillo, me ne occupo io.»
«Ok, grazie.» Mi poggiò la mano sul braccio e tallonò il castano. Mi diressi nella direzione opposta. Non che mi piacesse stare a stretto contatto con quella vipera, ma era lavoro. Stavo per afferrare la maniglia, quando una voce alle spalle mi bloccò...
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