Capitolo 14.2 - Ogni inizio ha una fine...

Giovanni

Quel blocco di cemento non si spostava di un millimetro e così facendo rischiavo di perdere tempo prezioso per liberare il braccio di Riccardo. Ero quasi senza respiro e dovetti rinunciare. Cosa sarebbe successo se non ci fossi riuscito? Se fosse rimasto lì sotto? Il solo pensiero mi faceva accapponare la pelle e venire i brividi lungo la spina dorsale.

Gemette e gli presi il viso fra le mani dandogli qualche buffetto. «Guardami, apri gli occhi, ehi. Tranquillo, ok? Guarda me, Ric.» Obbedì. «Ascolta, siamo venuti qui assieme e ne usciremo assieme, ok? Fidati di me. Andrà tutto bene, non preoccuparti. L'ambulanza e i pompieri arriveranno presto, saranno qui in men che non si dica. Cerca solo di non mollare.»

«C-Ci sono altri feriti?» Biascicò con le poche forze rimastegli.

«Sssh... no, no, non ci sono feriti, ma non pensare a questo. Pensa a tenere duro e resistere.» Guardò in alto un punto nel vuoto. «Amico! Amico, svegliati. Sai che l'ultima cosa che puoi fare è addormentarti, vero?» Poi udii all'esterno il rumore delle sirene avvicinarsi e un senso di sollievo mi travolse. «I soccorsi sono qui! Resisti, Ric.» L'uomo annuì debolmente e un gruppo di paramedici si fiondarono all'interno. «Sta perdendo sangue da venti minuti dal braccio destro.»

«Lei chi è?» Domandò un paramedico perplesso.

«Sono un medico e dobbiamo salvare il mio amico! Inserite la flebo nel braccio, fate una trasfusione di sangue zero negativo e anche del siero, ok? Datemi un laccio emostatico per fermare l'emorragia. Forza, sbrigatevi!»

I due capirono al volo mettendosi all'opera e iniziai a sbottonare la camicia.

«C-Ci sono altri feriti...» Insistè.

«No, non c'è nessun altro ferito, ok? Nessuno.» Gli stavo mentendo perché il ragazzo che avevo trovato era deceduto da pochi minuti e purtroppo non avevo potuto fare niente. «Noi interverremo e ti porteremo in ospedale.» Osservai la condizione del braccio che si trovava schiacciato fra i due blocchi di cemento e deglutii. «Libereremo anche il braccio.» Mi sollevai per chiedere dei guanti. Giunsero anche la squadra di pompieri, si sarebbero occupati dei blocchi. Se non lo liberavano, rischiava di morire per emorragia interna. Il paramedico mi porse uno stetoscopio e ascultai con attenzione. «Respiro regolare, bene.» Increspai un sorriso e mi fece cenno di aver capito. Il mio cellulare in quel momento decise di squillare e lo tirai fuori dalla tasca. Era Federica. Probabilmente staccarle la chiamata in faccia l'aveva allarmata. Dissi ai ragazzi di tenere il paziente vigile e mi allontanai di qualche passo per risponderle, altrimenti chissà cosa avrebbe pensato di male. «Fede, scusa, non posso parlare ora. Ci sentiamo più tardi.»

«Non esiste! Parleremo adesso. Dimmi dove diamine sei, cos'è stato quel rumore?! Stai bene?»

«Io sì... Sto bene. C'è stata un'esplosione. Riccardo è ferito.»

Non si udì un sibilo nella cornetta. «R-Riccardo. Che gli è successo?»

«Gli è caduta una colonna di cemento sul braccio.»

«... È grave?» Domandò dopo un altro minuto di silenzio.

«Il braccio destro è intrappolato e non si riesce a spostarlo.»

«Ma siete vicini all'ospedale?»

«Siamo vicini ma ha perso molto sangue. Se non lo tiriamo fuori, non reggerà per molto ancora.»

«Ambulanza...»

«È appena arrivata.»

«Ok... Cavolo... Io-Io... Preparo tutto, ok? Non preoccuparti.»

«Ok, prepara tutto. Spero che riusciremo a tirarlo fuori e portarlo lì il prima possibile.» Federica agganciò di corsa e uno degli operai mi raggiunse, avvisandomi che ci sarebbero volute delle ore. Ma non c'era chissà quanto tempo a nostra disposizione. Riccardo non avrebbe retto in quello stato, più aspettavamo, più la situazione rischiava inevitabilmente di peggiorare. «Dovete rimuoverli. Sta perdendo troppo sangue. Non potete fare più in fretta? Dica ai suoi uomini di accelerare.»

«Sono caduti due enormi blocchi di cemento. Faremo del nostro meglio, ma ci vorrà tempo.»

«Amico, fai il più in fretta possibile. Quell'uomo è un chirurgo e potrebbe perdere il braccio. Per favore, ti supplico, dì alla tua squadra di fare presto. Fate del vostro meglio!»

Arpionai le mani sulle spalle dell'uomo, che annuì. La mia espressione era una maschera d'angoscia e parlava da sola. Tornò a coordinare il lavoro e mi accovacciai accanto a Riccardo. Era ancora lucido. Aiutato dalla torcia, scrutai sotto i due blocchi vedendo spuntare le dita ossute. Esalai uno sbuffo. Altri si stavano disfacendo dei corpi. Ritornai dal mio amico per dargli man forte e gettai un'occhiata al braccio sanguinante, deglutendo un altro fiotto di saliva. Comunque fosse, non potevamo perdere la speranza. «Amico, puoi farcela. Stiamo per tirarti fuori. Solo un altro sforzo.»

«Taglialo

Spostai fulmineo di nuovo gli occhi dal suo volto al braccio e poi di nuovo su di lui.

«Che dici? Tagliarlo?»

«Devi...» Sibilò.

«No, non essere ridicolo!» Obiettai, alzando le mani. «Non ti taglierò il braccio, d'accordo? Non lo farò. Senti...» Girai gli occhi altrove. «Ti tireremo fuori e porteremo in ospedale. Non ti taglierò nessun braccio o altro. Stai delirando...»

Strizzò le palpebre e gli portai la mano sulla fronte, facendola sprofondare fra i capelli scuri. Non poteva essere l'unica soluzione, in quel momento — a mio avviso — e non mi sarebbe mai passato per il cervello!

«È solo parlare per il gusto di parlare, Giovanni. Il tempo sta scorrendo.» s'interruppe per esplodere in un urlo di dolore.

«Rallentate! Rallentate! Ragazzi, rallentate.» Gridai a squarciagola per coprire i rumori. «Rilassati, presto sarà tutto finito. Andrà tutto bene, promesso.»

«Taglialo, dannazione!»

«Ascoltami: no.»

Ansimò e mi rivolsi alla squadra, chiedendo quanto rimanesse. Mancavano circa quindici minuti, erano a metà.

«Sai anche tu che non potrò durare così tanto. Dai, taglialo e salvami! Non farmi stare qui.»

«Amico. Amico...» La voce mi tremò e gli accarezzai il volto parlando a pochi millimetri, tenendogli la mano stretta nella mia. «Senti, puoi farcela. Resisterai. Sopravviverai. Okay? Sono sicuro che questi ragazzi ti tireranno fuori e ti porteremo in ospedale, e... di certo non ti taglierò il braccio. Però devi tenere duro.» Riccardo gemette, emettendo un urlo straziante e mi salirono le lacrime agli occhi. «Rallentate! Ragazzi, rallentate! Fatelo più gradualmente, ma in fretta, per favore. Tenetelo sotto controllo. Togliete questi dannati blocchi di cemento. Sbrigatevi, sbrigatevi! Per favore, vi scongiuro.» Abbassai lo sguardo, accarezzando il volto del mio migliore amico, che più che altro era da sempre stato un secondo padre. «Amico... amico, aspetta, ok? Tieni duro, ti prego. Per favore, un altro po'. Solo un altro po'. Forza. Sei un uomo forte, non ti arrendi di fronte a nulla.»

Ogni frase mi scivolò fuori dalle labbra con sforzo sovrumano. Vederlo lì mentre soffriva le pene dell'inferno mi faceva sentire impotente, l'essere più fragile sulla faccia della terra. Non potevo far altro che stargli accanto e rafforzare la stretta.

Mi scappò un singhiozzo e tirai su con il naso.

«Gio...» Riprese debolmente. «Devi... tagliarlo

«Ric...» Lo guardai. «Non puoi chiedermi di farlo.»

«Se non lo fai, sarà la fine.»

«No, posso trovare un altro modo. Troverò un'altra soluzione, vedrai. Ho ancora speranza, amico mio. Non chiedermi di farlo. Non posso.»

Mi fissò e, a quel punto, mi crollò il mondo addosso.

«Ti prego, taglialo! Te lo sto ordinando!» Gridò adirandosi.

Osservai il suo arto ancora e ancora fino a consumarlo.

«Non ce la faccio. Non posso, mi dispiace. Non posso tagliarlo.»

Mutilarlo significava rovinargli la vita e non me la sentivo. Era il mio amico e per quanto lo volessi bene, era una responsabilità troppo grande. Riccardo fece un cenno di assenso.

«Giovanni, ascoltami. Guardami!» Alzai di scatto gli occhi. «Ho perso troppo sangue. Se non lo fai, morirò.» Feci di no, scuotendo la testa. «Non voglio morire. Non così e non qui.» Altre lacrime mi solcarono gli occhi e iniziai a mostrare segni evidenti di cedimento mentale. Riccardo mi lasciò la mano e si aggrappò alla mia camicia.

Mi stava chiedendo tanto, troppo.

«Non voglio che tu muoia.» Appoggiai la fronte alla sua facendo cadere le lacrime sulle guance e piansi. Strinsi più forte che potevo la mano dell'uomo.

«Dai...» Mi spronò.

«Sì, lo farò, Ric.» Ma mi sentivo terribilmente male, tanto da avere lo stomaco sottosopra. Feci di sì. «Lo farò.»

«Allora, sbrigati, dottor Rinaldi.»

«Non ti lascerò morire.» Guardai per l'ultima volta quel braccio, frenando altri singhiozzi. Mi tirai su rivolgendomi alla schiera di paramedici. Si trattava di un'amputazione, a tutti gli effetti, serviva l'antisettico per disinfettare la zona, pinze emostatiche per l'emorragia e, per finire, la sega chirurgica.
Mi porse una siringa già piena, non avrebbe sentito nulla sotto l'effetto dell'anestesia.

Riccardo annuì. «Mi fido di te.»

Asciugai il bordo degli occhi recuperando la dovuta concentrazione e feci l'iniezione. Chiuse gli occhi e si rilassò. Mi voltai di scatto. «Siamo pronti?» Il ragazzo, curvo sul borsone, rispose di sì e guardai Riccardo, ormai incosciente. Quando mi consegnarono la sega chirurgica, mi diedero in mano anche la sorte del mio caro amico. Dipendeva la sua sopravvivenza da quello. L'accesi, facendo cenno agli altri di indietreggiare con la mano e mi piegai. Avvicinai la sega con qualche titubanza. Lo fissai, non potevo perderlo. Non lo avrei permesso. La lama iniziò a sminuzzare l'epidermide, scendendo in basso per proseguire con muscoli, tendini fino alle ossa. Il sangue cominciò a zampillare. Continuai imperterrito. Avevo promesso a Riccardo che lo avrei salvato ad ogni costo e, trattenendo il disgusto, terminai. La saga era macchiata anch'essa di sangue. Poteva essere spostato finalmente. Dovevamo fare in fretta poiché aveva perso troppo sangue e lo sollevammo di peso dalle gambe per metterlo sulla barella. L'arto potevamo cercare di ricucirlo in un secondo momento ma la cosa importante era portarlo in ospedale. Gettai un'ultima occhiata all'arto abbandonato nello stesso punto e poi lo trasportammo all'esterno.

Durante il tragitto in ambulanza, guardai il mio amico steso, non mi capacitavo di averlo appena mutilato. Mi sentivo egoista, pur di salvarlo da morte certa, ero sceso ad un simile compromesso. Gli strinsi con entrambe le mani il braccio incolume. L'altro non esisteva. La vista mi si annebbiò.

Mi aveva pregato lì, in bilico tra vita e morte di tagliarlo...

"Non voglio morire" Mi arrivò quell'eco nel cervello. Strofinai gli occhi per scacciare via quelle lacrime ottuse e chinai la testa.

Ero arrivato a tanto... ma era stata per una buona causa.
Non avrei sopportato di perdere un altro mio caro...

Alessia

A parte il diverbio con Gianmarco in sala operatoria, che voleva mettermi in cattiva luce, la giornata procedeva come al solito. Entrai nella stanza della donna, da poco era stata portata in camera e il suo aspetto tutto sommato era migliore. Presi la cartella clinica dal tavolo e mi accostai al lettino.

«Salve. Come sta?» Diede un'occhiata alla cartella e poi la chiusi. «Lo so che non può ancora parlare, ma sta bene.» Mi sporsi. «L'operazione è stata un successo, ma non è stato per la bravura dei medici. È una donna molto combattiva.» La donna mi prese la mano, di riflesso. Sembrava volesse qualcosa da me. Mi sedetti sul bordo, le diedi una penna ma la lasciò cadere per appoggiare l'indice sul palmo aperto della mia mano. La guardai, i suoi occhi si aprivano a stento in delle fessure. Cercò di muoverlo, ma era debole. «Ma non capisco cosa vuole....» Dovetti giustificare e provò a fare dei cerchi invisibili. «Se vuole scrivere, le tengo io la penna.» Insistei. Continuò a rifiutarla. Insisteva col ditino a fare dei cerchi sulla mia mano. Davvero non capivo cosa volesse. Il cellulare all'improvviso squillò e mi spostai in un angolo. Recuperai la cartella. Avevo chiesto alla vicina di darmi notizie su mia madre, visto che non riuscivo a contattarla. Non era mai raggiungibile da tutto il santo giorno e mi stavo preoccupando. Di solito, non spariva mai così. «Te l'ha già chiesto mio padre?» La paziente gemette e preferii uscire per non arrecarle disturbo. «Sì, se la vedi nel quartiere, avvisami o chiamami. Fammelo sapere. Ti saluto, ciao.»

Agganciai e, a quel punto, Tommy apparve in corridoio.

«Ale, allora novità?»

«Mhmm, no. È ancora dispersa. Sembra sia stata inghiottita dalla terra. Non capisco.»

«De che parli?»

«De che parlo?» Ripetei.

«Chiedevo della paziente.»

«La paziente, sì....» Abbassai lo sguardo. Ero uno stupida a pensare che si sarebbe interessato a me. Davvero una stupida credulona. Tommy si accigliò. «Che cosa ti importa di me?»

«Scherzi? Certo, mi importa. Non hai avuto notizie? L'hai ritrovata?»

Lo guardai, limitandomi a battere più volte le palpebre.
«La paziente sta bene, dottor Dalì. I suoi valori sono stabili. Ha altre domande su questa o su altri pazienti?» Il moro rimase zitto alzando il sopracciglio. «Non credo.» Dopodiché feci per andarmene.

«Aspetta, Alessia, mi hai frainteso. Non mi hai dato nessuna opportunità di chiederti di tua madre» Mi bloccai su due piedi. «Ti stai offendendo, come una bambina.»

Mi girai indietro e feci dietro front, ponendomi di fronte a quell'antipatico borioso.

«Una bambina?» Tommy non confermò ma era strafottente da morire. «Una bambina. Dottore, avrà un mucchio da fare. Non si complichi la vita e non sprechi il suo tempo a pensare ai banali problemi di una bambina.» Detto ciò, proseguii. Nemmeno io mi sarei preoccupata dei problemi che affliggevano lui e della sua totale mancanza di empatia. Ad ognuno il suo, naturalmente.

[...]

Entrai nell'ufficio di mia sorella con l'occorrente per la medicazione e la vidi buttare giù una pillola di analgesico con un bicchiere d'acqua. Richiusi la porta e si bloccò vedendomi.
Non si aspettava una mia visita.

«Che fai qui? Che vuoi adesso?»

«"Ciao Federica, anch'io sto bene. Tu? Tutto bene?" Ritira i tuoi artigli. Vengo in pace, fragolina.» La mora alzò gli occhi al soffitto. «Sei sempre sulla difensiva.»

«Sono troppo occupata. Lasciami passare.»

«Ci metto solo due minuti.» Insistei, piazzandomi davanti alla porta.

«Ti ho detto che non voglio.» Ribadì.

«Ed io sì. Almeno fammi dare un'occhiata alla ferita.»

«Ho detto di no. Ed è no!»

Fece per oltrepassare la mia figura, ma non demorsi.

«Aspetta, ricordi che tutte le volte eri tu a disinfettarmi le ferite quando mi facevo male? Ora è il mio turno. Siediti due minuti. Guarda che non mollerò fino a quando non mi starai a sentire. Avanti.»

«Da piccola eri una gran testa dura e lo sei tuttora.» sbottò mettendosi seduta.

Un punto di vittoria per me. Soddisfatta, seguii il suo esempio.

«Se non mi avessi parlato, avrei fatto una stronzata.»

«Tanto non sarebbe servito, visto che fai sempre stronzate.»

«Ah, ah, che divertente!» Ridacchiai, infilando poi i guanti. «Ehi, sai quella donna che è arrivata d'urgenza in pronto soccorso, le ho fatto un intervento cerebrale. Senza l'aiuto di mia madre e naturalmente del dottor Svevi.»

«Brava.» Ridusse gli occhi sporgendosi. «Dobbiamo darti una medaglia o farti una statua?»

«Fossi in te, non provocherei. Pensavo fossi più scaltra.»

«Dai, finisci che devo andare in pronto socco-Ahi! Cav...»

Le strappai via il cerotto e mi rimproverò.

«Ti ha fatto male?» Per orgoglio non disse nulla e disinfettai la ferita. «Senti...» Infine applicai un nuovo cerotto. «Fatto.»

Federica mi fece un cenno con il capo. «Cosa?»

Sapevo che l'argomento non le sarebbe piaciuto, era spinoso. «Ricordi quando eravamo piccole...» Si inumidì le labbra e distolse lo sguardo. «Tu ridevi sempre. Eri un sole.»

«Quando si diventa grandi, capita di essere più seri. Che c'è di male?»

«Non è questo.» Mi fissò in attesa. Abbassai lo sguardo sentendomi a disagio. «É il tuo sorriso che si è perso.» Ruotò il volto. «Te l'ha tolto mia madre, e anche io.»

«Eri piccola. Non è stata colpa tua.»

«Bene. E ti ricordi... che una volta sono entrata nella tua stanza entusiasta?» Si intrecciò le dita e mi ascoltò, in silenzio. Lo aveva sempre fatto. «Mi avevano portato al parco divertimenti quel giorno. Mi sono divertita tanto. Mi hai ascoltato piangendo. Hai detto poi che non ti piacevano le giostre per quello non eri venuta.»

«Eri ingenua e ci hai creduto.» Annuii con gli occhi altrove. «Ma quando abbiamo provato ad andarci di nuovo, hai insistito affinché non venissi.»

Quello fu un tremendo colpo dritto al cuore, sapere di essere stata la causa di tanta sofferenza in mia sorella.

«Fede...» Sussurrai. «Lo so. E mi dispiace. Ho lasciato che mia madre ti trattasse molto male.» Mi osservò di sottecchi. «E ti allontanasse dalla famiglia.»

«Sei una brava ragazza, Alessia. Non sei responsabile di nessuno dei ricordi che ho su di te.»
Poi si recò a spalancare la porta. Avevo visto in quegli occhi color cioccolato un vuoto estremo difficile da colmare. «Sorellina.» La fermai. «Grazie per aver parlato con me.»

Le ero debitrice per avermi aperto gli occhi su tante cose. Senza proferir parola uscì.

[...]

Successivamente, mi ritagliai un momento in giardino per stare sulle mie e mangiare il tramezzino con il tonno che avevo preparato al volo. In quel momento, una vocina mi fece distogliere l'attenzione e vidi mia figlia corrermi incontro. «Amore!» Allungai la vocale finale. Si lanciò a capofitto nelle mie braccia e reclinò la testa sulla mia spalla, com'era solita fare quando era piccolissima. «Mi sei mancata! Che cosa hai fatto, eh? A scuola com'è andata? Racconta.» Le accerchiai il visino e mi fece un sorriso stupendo.

«La maestra ci ha chiesto di scrivere un tema sui nostri genitori e io l'ho scritto su di te.»

Strabuzzai gli occhi e battei le mani. «Che hai scritto?»

«Che la mia mamma è un medico, lavora tantissime ore e invece io sto a casa con i nonni materni. Però ha sempre tempo per fare un gioco speciale.» Ridacchiai.

Mi mostrò il palmo aperto.

«Era un gioco speciale con la mano... che facevo con tua nonna quando avevo la tua età la sera. Com'era, ecco...» Le presi la mano e iniziai a camminarvi con le, canticchiando una canzoncina di un uccellino congelato che si posava sulla finestra. Le feci poi il solletico e ridacchiò.

"Mamma, ancora! Ancora!"

"Eh? Ancora? Ma non hai ancora sonno?"

Restai sovrappensiero a fissare il vuoto. Abbassai d'istinto la testa e una strana sensazione si impossessò di me. Quella donna dal volto tumefatto, perché aveva replicato il gesto di mia... madre? Aveva provato a farmi capire qualcosa. I miei occhi si inumidirono di colpo. «Non è possibile. Che sciocca che sei, Alessia!» Mi alzai d'impeto spaventando anche mia figlia. «Mamma... Non può essere lei! Ti prego, no...» Esclamai ormai in preda al panico. Per fortuna una collega giunse lì.

«Che sta-» Provò a chiedere, ma la scansai, chiedendole di prendersi cura di mia figlia.
Mi precipitai dentro, correndo nel corridoio e rischiai di mandare all'aria un ragazzo che portava una barella. Non badai alle scuse. Mi scontrai con un altro facendogli cadere il vassoio di mano, ma continuai a correre per raggiungere la stanza della paziente. «Scusami, mamma!» Come avevo potuto non riconoscerla in quello stato? Ormai i piedi schizzavano sul pavimento e quando individuai la porta a momenti la stavo per buttar giù. «Mamma!» Il letto era vuoto, non c'era alcuna traccia. Uscii, chiedendo a un'infermiera di passaggio delle notizie.

«Il suo stato è peggiorato. È stata sottoposta a un intervento d'urgenza.»

«In quale sala operatoria?»

«Credo la due.» rispose la riccia. Scappai via senza sé e senza ma. Non potevo permettere che mia madre morisse. Quel pensiero mi attanagliava l'anima.
E se le fosse successo qualcosa, non me lo sarei mai perdonata!

Federica

Quando i cercapersone ci avvisarono dell'arrivo imminente dell'ambulanza raggiungemmo l'atrio, pronti all'evenienza. Vedendo la perplessità dipinta sulle facce dei presenti alla vista di un Riccardo Gentile privo di sensi e un braccio tranciato, Giovanni spiegò che glielo aveva amputato sul posto. Mi portai le mani alla testa, scandalizzata.

Ciò che vedevo era abbastanza.

«Ha perso molto sangue. Non volevo arrivare a tanto, ma era l'unica maniera di salvarlo e portarlo qui.»

Ordinò spiccio di preparare la sala operatoria e nel mentre che ci recavamo al pronto soccorso chiesi: «Tutto bene?»

Si limitò ad un sì di circostanza, ma non mi tranquillizzò affatto. Doveva essere stato abominevole una simile esperienza. Una volta lì, chiese a Wax di cambiare la benda e anche la dottoressa Rosalba entrò trafelata.
Controllò lo stato dell'infezione e appurò che fosse peggiore di quanto sospettasse.

«Tu lo salverai, Rosi. Non abbiamo altra scelta.»

Chiese una garza e il monitor trillò.

«È entrato in shock.» Dichiarai.

«Ha bisogno di trasfusioni. Portate due unità di sangue, zero negativo!»

Gianmarco scattò immediatamente.

«Giovanni occupati tu del resto, ti aspetto giù in sala operatoria.»

Collegai la flebo regolando il lavaggio quando mi sentii chiamare: «Federica! Sorellina! Sorellina! Sorellina!» Sfrecciò da me agitata, afferrandomi le mani. «Mia m-madre...»

«Dobbiamo portare urgentemente Riccardo in sala operatoria, non posso parlare.» Tentai di divincolarmi.

«Mia madre sta molto male!»

«Che ti prende? Non piangere, dimmi.»

«Mia madre era in ospedale e non sono riuscita a riconoscerla. Non sapevo che fosse lei. Non lo sapevo...»

Singhiozzò.

«Aspetta, cosa significa che non lo sapevi? Spiegati dall'inizio, non capisco nulla. Che è successo?»

Se continuava di questo passo, mi avrebbe solo confuso di più.

«La donna non identificata?» Si intromise Matteo.

«È stata investita da un autobus. Qualcuno l'ha spinta ed... era mia madre. Non lo sapevo, Federica. Non ho riconosciuto la mia stessa madre. Che razza di figlia sono?!» Piagnucolò.

Mi girai. «Vai Fede. Ci penso io.»

«Dov'è ora?» Chiesi ad Alessia.

«Il dottor Tommy la sta operando. Non mi farà entrare, però a te sì. Non lasciare mia madre sola.» supplicò, in lacrime. Mi rivoltai verso Giovanni che per l'ennesima volta mi spronò ad andare. Seguii la rossa fuori e, in quel preciso momento, mi passò davanti l'infermiera con un frigo termometrico. Lì probabilmente c'era il braccio amputato del dottor Gentile.

Tirai dritto, ignorando quella vista raccapricciante e imboccammo l'uscita. «Hai detto che non l'hai riconosciuta. Sei sicura che sia lei?» Domandai accelerando il passo nel corridoio.

«Ero in giardino poco fa con la bambina... e ho ricordato un gioco che da piccola facevo con mia madre. Ma non l'ho capito! Capisci? Non l'ho riconosciuta.»

«Non piangere.» Le poggiai la mano sulla schiena. «Sai com'è fatta Rebecca. Non si darà per vinta facilmente, si riprenderà.» La bloccai ponendole la mano sul braccio. «Inoltre, Tommaso è un ottimo medico e farà di tutto per salvarla. Fidati di lui, ok?»

Alessia mi afferrò le mani speranzosa. «E anche tu?»

La guardai e posizionai le mani sulle sue spalle, i nostri occhi erano alla stessa altezza.
«Farò tutto il possibile per farti ricongiungere con lei.»

«Grazie...»

«Per questo dobbiamo andare in sala operatoria. Hai informato papà dell'accaduto?»

Negò e mi tallonò fino allo spogliatoio. Indossai il camice ed entrai nel blocco operatorio, con la ragazza al seguito.

«Vorrei abbracciarti, ma sei pronta e non posso farlo. Ma quando uscirai, sappi, che te ne darò uno gigante!»

«Sai che sono un po' prudente... sulle misure igieniche e tutto.» dissi bloccandomi sul posto.

«So che è chiederti tanto... partecipare all'intervento. Sappi che lo comprendo.»

Una lacrima le percorse la guancia e abbassai un momento gli occhi per poi sollevarli.
«Non dire così. Ora non salverò Rebecca, ma una madre. Nessuno dovrebbe perdere la propria madre. Hai capito?»

«Certo, l'ho capito.»

Tirò su con il naso e un sorriso affiorò sulle labbra. Mi squadrò e si avventò verso di me, avviluppandomi in un abbraccio caloroso. Quando mi ritrovai incastrata con le braccia che mi circondavano il collo, piangendo tutte le lacrime sulla mia spalla, appoggiai le mani sulla sua schiena percorsa da mille singhiozzi. Durò qualche minuto. Poi si staccò. Le feci cenno di andare, me la sarei cavata, e si diresse all'uscita.

Tutto quell'affetto mi era passato addosso come l'autobus che aveva travolto la madre.
Quella ragazza si fidava ciecamente di me. Mi avvicinai ai lavandini per ingienizzare le mani sotto l'acqua corrente e Tommaso Daliana si affiancò.

«La polizia ha confermato che è stata spinta. Non è stato un incidente.»

«Qualcuno voleva che morisse.»

«Certo. Ci sono dei testimoni. Dicono che sia stata anche picchiata prima di essere spinta.»

Picchiata...

«È stata picchiata?»

Diedi voce ai miei pensieri.

Tommy fece spallucce. «Sfortunatamente.»

«E si sa da chi?»

«Che io sappia, no.»

Il ragazzo mi precedette in sala operatoria, mentre stavo provvedendo ad asciugarmi mani, gomiti e polsi con della carta rimediata dal dispenser.

Poteva mai averlo fatto... lui?

[...]

«Ho trattato molto male sua sorella, dottoressa. Adesso me ne pento. È stato crudele da parte mia. Che pena!» ammise Gianmarco guardando in alto.

«Concentrati, Gianmarco.» Lo ripresi. Eravamo in sala operatoria e nel bel mezzo di un importante intervento e invece straparlava di non so che.

«Sì, scusi tanto, dottoressa.»

«Pinze.» Mi girai per raccogliere quella che mi stavano porgendo e strizzai le palpebre. La vista mi si offuscò e lo strumento mi cadde di mano. Tommaso mi spiò di sottecchi e lo guardai. Feci finta di nulla e ne chiesi un'altra. «È tutto ok?»

«Sì, sto bene, tranquillo.»

Vidi un'altra volta immagini offuscate per qualche secondo e dovetti scuotere la testa per cancellare quella sensazione,  magari era solo stanchezza mista a stress. Goccioline di sudore mi colarono lungo la fronte e strofinai il braccio contro essa.

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