Capitolo 13.3 - Ho premuto io quel grilletto...
Tommaso
C'era sempre un botto di lavoro in quest'ospedale e mai un istante di tregua. Ero stato chiamato dalla dottoressa Rosalba al pronto soccorso. A quanto pare, la ragazzina, vittima di quello stupro, era peggiorata all'improvviso.
Infilai i guanti e mi avvicinai alla barella. «Che è successo?»
«La frattura al bacino deve aver causato l'emorragia. Le abbiamo anche dato ossigeno.» Cominciai a dare un'occhiata, sollevando una palpebra e poi l'altra, ma al momento non era in sé. Il macchinario iniziò ad emettere un segnale acustico. «La pressione si sta abbassando. Alessia, porta qui un'unità di sangue, avanti.»
«Dobbiamo stabilizzare il cuore.»
«E se inserissimo un palloncino nella parete addominale?»
Guardai la nuova infermiera, parlava sempre nei momenti meno opportuni, però Rosalba acconsentì con la testa.
«Sì, facciamolo. Passami la garza e un telo chirurgico, per favore.»
La pel di carota si affrettò ad appendere la sacca e trascinai verso di me il carrello per disinfettare il bisturi. Glielo passai e incise l'addome, chiedendoci di fare pressione sulla vescica, dal lato opposto. Gettai un'occhiata sbrigativa al monitor. «Presto, fate pressione.»
«Infermiera, ci serve una nuova garza!» Esclamò Rosalba.
«Sta andando bene. La pressione sta tornando alla normalità.»
«Ha funzionato!»
Rosalba si sollevò e ordinò di continuare con le trasfusioni e allertare la sala operatoria. Nel mentre, l'infermiera si arrampicò sulla barella posizionandosi poi a cavalcioni sulle gambe della paziente. La squadrai, stupito della sua intraprendenza e anche lei poi mi spiò di sottecchi. Rosalba tirò su la sbarra e seguii l'esempio. La barella venne condotta via dall'equipe, ma continuai a prestare attenzione alla "pel di carota", soprattutto.
Che strano deja-vu con Federica...
«Dottor Daliana!» Mi richiamò l'infermiera Manuela porgendomi un oggetto che era stato ritrovato nell'auto del soccorritore di Marisol. «Suppongo sia della ragazzina.»
«È macchiata di sangue.»
«La ragazza deve averla usata per difendersi da quel bastardo.»
«Impossibile! Quel ragazzo ha fatto un esame completo e non sono emerse ferite del genere. Ho visto i risultati, a meno che...» Mi bloccai, ricordando un particolare che finora avevo ignorato: l'altro giovane aveva una ferita nel palmo della mano sinistra, l'avevo intravista quando si era stropicciato l'occhio. Quella poteva essere una prova schiacciante. «Ma so chi può essere stato.»
«Chi, dottore?»
Mi tolsi il guanto e vi imballai dentro la chiave, avrebbero trovato le impronte, sarebbe stato importante per incastrare il vero aggressore. Le dissi di consegnarlo alla polizia il prima possibile e farlo analizzare, poi schizzai via dal pronto soccorso.
Entrai nella stanza del presunto uomo di "buona donna", con una schiera di poliziotti e il tipo ricominciò a lagnarsi del mio ritardo bestiale. Non avrebbe fatto lo spiritoso a lungo. Alla vista dei poliziotti, smise di agitarsi e si mise seduto.
«Che sta succedendo? Il ragazzo è morto?»
«Temo di no. Non sei così fortunato.»
«Cosa intende dire?»
«Devo dare un'altra occhiata alle tue ferite.»
«Cosa?» Strinse i pugni inerti ai fianchi. «Perché?» Protestò. Mi avvicinai e gli agguantai il polso per evitare che si divincolasse dalla presa. Si lamentò e chiese aiuto, ma non aveva capito che nessuno avrebbe mosso un singolo muscolo per difendere un maledetto bastardo, come lui. «Non mi tocchi! Mi lasci!» ringhiò a denti stretti e riuscii, dopo molto sforzo, a fargli aprire il palmo scoprendo che la ferita corrispondeva. Non c'erano dubbi, aveva ridotto quella ragazza in fin di vita e credeva di passarla liscia, scaricando la colpa sull'altro. Ma, purtroppo per lui, era stato sgamato.
«Marisol aveva una chiave in mano e l'ha usata per difendersi. Guarda, questa è una prova.»
«Che sta dicendo?!» Sbottò facendo la parte del finto tonto.
«Che sto dicendo, eh?» Ripetei guardando i presenti con un cipiglio alzato.
«Che tu sia maledetto, Albe! Ti ho visto alla festa ed eri con lei, non osare negarlo.»
«Smettila di dire cazzate, Serena!»
«Stavi cercando di corteggiarla per portartela a letto!»
«Ti ho detto di chiudere il becco!»
Poi si rimise dritto e continuò a dichiarare di non aver fatto nulla a quella ragazza, di non averla ridotta in quello stato e che gli stavano tendendo una trappola.
«È tutto vostro.» Dissi alla polizia. Si avvicinarono agguantandogli le braccia per mettere le manette e, nel frattempo, mi spostai posizionandomi accanto alla biondina che si strofinava le braccia, come se sentisse freddo. Proseguì con la ridicola scusa che era una trappola e voleva un avvocato, ma lo sollevarono di peso portandolo via mentre strepitava.
Alessia
«Ma che ho fatto? Ho urlato contro l'unica persona che mi ha aiutato. Gli ho augurato di morire. Sono stata crudele. Quel ragazzo ha affrontato il mio aggressore ed è finito in coma.»
«Non continuare a colpevolizzarti. Non potevi saperlo.»
«Che farò adesso? Come farò a vivere?»
La vita non era semplice e non c'era nemmeno un tasto reset per ripetere tutto e non rifare lo stesso errore. Di errori ne si facevano tanti purtroppo e il passato tornava a chiederti il conto prima o poi.
Mi accostai al suo viso, stringendole affettuosamente il mento. «Credendoci.»
«Come?» Sibilò.
La guardai dritto negli occhi.
«Tu sei molto di più di quello che è successo in un giorno, Marisol. Non lasciare che questa notte orribile rovini il resto della tua vita. Sei ancora giovane. Hai davanti a te altre possibilità.»
«Crede che sia forte?» Le tremò la voce.
«Certo. Sei più forte di quanto credi.»
«Mio fratello... mia madre, dopo tutto quello che hanno fatto per me, tutti i sacrifici...»
Singhiozzò e le accarezzai la guancia. «Marisol...» Poteva essere mia figlia a finire in quella brutta situazione ritrovandosi con tutti quei segni sulla faccia, con il cuore infranto e la dignità distrutta. «Anche loro lo supereranno. Quando vedranno che stai bene, lo dimenticheranno. Ogni giorno, andrà un po' meglio. Devi solo avere fiducia.» La ragazza annuì, le labbra le tremarono e i miei occhi si offuscarono. Una lacrima mi scivolò e abbassai prontamente la testa. «Sai, potrebbe esserci stata mia figlia, al posto tuo. Mi sarei sentita esattamente come tua madre e tuo fratello.»
«Anche lei ha una figlia?»
«Sì. È la ragione per cui non mi sono mai data per vinta delle volte, nonostante le delusioni che mi hanno inflitto.» Scacciai via le lacrime con il dorso. Marisol appoggiò la mano sulla mia e mi rivolse un blando sorriso. Mi chiese poi di accompagnarla nella stanza del giovane, che l'aveva salvata. Chiusi la porta alle mie spalle e avvicinai al lettino la sedia a rotelle. Non aveva ripreso conoscenza, era ancora sotto coma farmacologico. Mi piantai vicino al muro a braccia conserte e la ragazza chiese alla dottoressa se stesse bene. Confermò che si sarebbe ripreso.
Gli prese delicatamente la mano, aveva le nocche insanguinate e spaccate. Ma era stato un autentico eroe, quella ragazza era viva grazie al suo intervento.
«Non mi hai lasciato. Neanch'io lascerò te...»
Io e la dottoressa ci scambiammo uno sguardo d'intesa e abbozzai un sorriso. Il ragazzo finalmente aprì gli occhi, ma solo per pochissimo poi tornò a riposare. Condussi la ragazza nel corridoio, la madre e il fratello la stavano aspettando. Marisol si girò verso di me e le appoggiai la mano sulla spalla come a dirle "andrà tutto bene".
La madre e il fratello si lanciarono uno sguardo, poi quest'ultimo le sorrise facendola commuovere. Si inginocchiò e le accarezzò la testa.
«Starai bene.» Annuì e si buttò nelle braccia del fratello che la strinse a sé. Quella scena mi aprì i condotti lacrimali e cercai di resistere al pianto, ma dovetti passare il dito sotto l'occhio. «Sarò accanto con te, sorellina. Starai bene.»
Tuffò la faccia fra i suoi capelli, inspirando il profumo e la madre accarezzò il braccio del figlio.
Federica
«È difficile fare il padre...» ragionò Giovanni con gli occhi incollati sul suo genitore, steso nel letto della terapia intensiva. L'intervento era filato liscio per fortuna, ma non aveva ripreso conoscenza. Lo stavamo tenendo sotto osservazione per una misura preventiva. «È difficile essere padre per tua sorella oppure di un bambino rimasto orfano di entrambi i genitori.»
Forse si riferiva alla storia di Giuseppe o anche alla sua. Era lui il bambino rimasto orfano in tenera età, solo, senza genitori.
«Tuo padre ce l'ha fatta. È stato un buon padre» Giovanni rimase zitto con lo sguardo nel vuoto. «Anche Giuseppe ce la farà, vuole molto bene a sua sorella.»
«Lo pensi davvero, Fede?» Mi interrogò voltandosi.
Ricambiai lo sguardo. «Certo. E...» Lo distolsi. «L'ho accusato. Quando si sveglierà gli chiederò scusa.»
L'ambiente per un po' venne scandito dai battiti cardiaci del paziente, collegato al macchinario e infilai le mani in tasca, trovandomi a toccare una carta. Vidi la famosa lettera di Marco che Matteo mi aveva consegnato, ma dopo quanto accaduto non l'avevo non l'avevo aperta. Guardai immediatamente l'orologio alla parete, mancava un quarto d'ora alle sei.
«Porteranno via Marco, non me ne sono ricordata.»
Stavo per andare quando il moretto mi afferrò il polso di riflesso. Mi fermò e guardò negli occhi: «Federica.» Aveva un'aria seria, a tratti preoccupata. «Devo dirti una cosa molto importante.»
«Torno tra quindici minuti e ne parliamo, va bene?» Gli lasciai un bacio sulla guancia e mi avviai fuori, a passo svelto.
Mentre m'incamminavo nel corridoio, tirai fuori quella lettera e la spiegai. Mi stavo chiedendo che cosa avesse spinto quel ragazzo a scriverla.
"Dottoressa Andreani, non so quante volte mi sono scusato, probabilmente innumerevoli, però volevo farlo un'ultima volta. Voglio chiedere mille volte scusa per tutte le cose che non ricordo di aver fatto. Ma quel ragazzo... Mattia, ha ragione, dottoressa. Ammetto i miei errori, ma questo non riporterà indietro nessuno, non redimerà la mia coscienza.
Non ricordo niente di quello che ho fatto, ma ogni volta che mi guardo allo specchio, ricordo il volto di mia madre e di mio fratello. Questo senso di rimorso mi schiaccerà il cuore, comprimerà i polmoni, dottoressa. Non se ne andrà. Non ho dove andare, né nessuno da cui stare. Sono solo a questo mondo. Non posso vivere così, dottoressa. Il senso di colpa è troppo forte e non riesco a scacciarlo."
Mi bloccai d'un tratto, nel bel mezzo del corridoio, con la lettera fra le mani osservando le righe nere, leggermente sbiadite.
"Ho posto fine, ingiustamente, alla vita di molte persone innocenti. Non posso vivere. Chi meriterebbe di farlo? Ora, mentre sparisco, voglio dare vita ad altre persone. Lo farò, dottoressa. Adempirò a questo compito senza rimpianto. Prenda i miei organi. Doni speranza a quante più persone possibili. Io... li riunirò con i loro cari. E mi perdoni, se può. Mi perdoni per quello che le ho fatto passare, dottoressa."
Quel foglio mi cadde dalle mani finendo dritto sul pavimento e non mi importò più di tanto, lo abbandonai lì e cominciai a correre. Schizzai da un corridoio all'altro, senza prendere fiato, entrai in ascensore e uscii fino ad arrivare alla camera di quel ragazzo con il cuore che batteva a mille. "Prenda i miei organi..." quella frase si ripeteva come un loop. "Che sarebbe accaduto se fossi arrivata tardi?" Non potevo permettere che si togliesse la vita, doveva esserci un'altra soluzione per estinguere il suo peccato e lenire quel senso. Non così. Non adesso. Mi fiondai dentro e avanzai verso il letto vuoto con le coperte sgualcite ma del ragazzo non vi era traccia. "Dove poteva essere andato?"
«Marco!» Andai verso la porta del bagno e bussai. «Marco! Marco!» Strattonai la maniglia per tentare di aprirla, ma era chiusa dall'interno. Dovevo assolutamente entrare, avevo bisogno di aiuto. «Merda!» Due agenti arrivarono in quell'istante e gliela indicai. «Apritela subito, potrebbe essere in pericolo!»
I due fecero forza forzandola e, dopo svariati tentativi, riuscirono nell'intento. Il giovane era disteso sul pavimento. Mi catapultai nel bagno, scavalcando il suo corpo inerme e m'inginocchiai per posizionare il dito sulla carotide. «C'è battito. Svelti, andate a chiamare qualcuno! Presto, fate portare una barella!» Corsero e io restai e vigilare su di lui, ruotandolo su un fianco. «Che hai fatto? Sei pazzo. Non dovevi...» Gli sostenni la testa, ma quando controllai le pulsazioni dal collo... non percepii più nulla, così passai al polso. Lasciai andare la testa del ragazzo che sfiorò il pavimento con la punta del naso. Mi resi conto che non c'era altro che potessi fare, era troppo tardi perfino per la rianimazione. Se n'era andato, in pochi istanti.
Era finita. Mi accovacciai accanto al ragazzo, rimanendo a guardarlo con gli occhi lucidi, pieni di tristezza... e trassi un profondo sospiro. L'unica cosa che mi augurai era che dovunque fosse andato non sentisse più dolore. Abbassai la testa, inumidendo le labbra e gli accarezzai il braccio. Avrei dovuto esaudire la sua ultima volontà: quella di donare i suoi organi a coloro che ne avevano bisogno e così quel sacrificio non sarebbe andato sprecato.
Giovanni
«Che cosa?» Riccardo sgranò le pupille e mi fissò perplesso dalla parte opposta della scrivania, dopo che avevo finito di raccontare gli ultimi dettagli di ciò che avevo origliato nell'ufficio di mio padre. «Ma il dottor Giorgio non avrebbe mai potuto fare una cosa così crudele. Ci dev'essere una spiegazione.»
Accennai un sorriso amaro. «L'ho sentito con le mie orecchie, Ric.»
Ci riflettette un attimo e piegai il capo in basso. Non starei così se fosse stato un vociferare di corridoio o una chiacchiera di poco conto, perché ero sicuro che in quel caso non avrei avuto dubbi sulla buona fede di Giorgio Rinaldi.
«Non è possibile...» bisbigliò. «E che farai adesso? Lo dirai a Federica?»
Rialzai la testa. Ero determinato a far trionfare la verità, ero stanco di tutte queste menzogne. Per una volta.
«Sì, certo che lo farò. Sono stanco di tutte queste bugie e lei non merita di essere ingannata. Non sarò io a nasconderglielo.»
«Potrebbe non guardarti più in faccia per il resto della sua vita.»
Conoscendola, ne avrebbe avuto ogni diritto. Ero il figlio dell'uomo schifoso che le aveva sottratto sua nonna, la persona a cui teneva di più. Non era giusto che le imponessi la mia presenza.
Mi lasciai andare contro lo schienale. «Lo deciderà lei. Accetterò ogni sua scelta.»
Anche Riccardo mi imitò, tirando un respiro. «Anche se questo significa... perderla?»
«A costo di tutto. Non voglio basare la nostra relazione su bugie. Dovrà essere libera di scegliere quello che la fa stare bene e se stare con me è l'opposto, allora la lascerò continuare per la sua strada, senza di me.»
«Giovanni, mi dispiace, però è troppo grande come sacrificio.»
«Lo so... però lo devo fare, altrimenti il rimorso mi distruggerebbe.»
Mi massaggiai il mento e rimasi a fissare il vuoto, come facevo sempre da un po' di tempo a questa parte. Perdere Federica, rinunciare ad un futuro insieme a lei, era inevitabile... se la verità doveva venire a galla.
«Dottor Rinaldi!» Gridò a squarciagola il rossiccio, piombando nell'ufficio, ponendo fine ai miei pensieri contrastanti che mi arrovellavano il cervello. «Venga! È il dottor Giorgio..» Sentendo balzai in piedi e non gli feci terminare la frase. Era successo qualcosa e a giudicare dalla sua espressione, niente di buono. Mio padre era ricoverato in terapia intensiva e quando mi diressi lì mi aspettò un incubo aberrante. Avrei voluto che lo fosse, che stessi sognando tutto.
Ma purtroppo... era la crudele realtà. Mi precipitai in stanza, inciampando sui miei stessi passi per raggiungerlo.
«Papà!» Urlai, vedendolo a terra, ai piedi del lettino con il macchinario che suonava incessantemente, fino a far esplodere le pareti. Era su un fianco, un braccio al di sopra della testa e gli occhi aperti. «Che è successo? Papà, rispondi, ti prego!» Non reagiva, era immobile. Boccheggiai, ansimai sempre di più ritrovandomi ben presto a corto di fiato, colto dagli spasmi. «No... no...» Tentannai, lo scossi per la spalla e mi assalì la voglia di piangere. Mi torturai il labbro inferiore fino a farlo sanguinare così come le lacrime stavano scendendo lungo le gote.
Merda.
"Tu non sei mio padre, Giorgio Rinaldi."
"Non ci assomigliamo per niente."
"Tu mi hai ucciso. Non hai ucciso quella donna, hai ucciso me!"
Mi tornarono alle mente quelle parole e mi maledissi per avergliele dette l'ultima volta e non poter più porre rimedio.
«Papà, non lasciarmi la mano! Papà, non puoi andartene. Resta... Resta con me.»
Lo supplicai ma il suo sguardo rimase uguale.
«Giovanni...» Mi sentii sfiorare la spalla e poi stringerla. «Tuo padre non c'è più.»
«No, non è vero!»
«Giovanni... dovremmo...»
«No...»
«Dovremmo certificare il...» Ripeté Riccardo.
«Ti ho detto di no! Non voglio farlo!» Marcai continuando a toccare mio padre, rigirandolo sulla schiena. Sovrapposi le mani per fare le classiche compressioni sullo sterno.
Non vedevo nient'altro.
«Giovanni, non c'è più niente-»
«Uno-due-tre-quattro-cin...»
Contai mentalmente, ma sentii la morsa al petto farsi ferrea.
Allontanai le mani, come se mi fossi scottato quando invece era duro e freddo come un pezzo di ghiaccio, e ansimai, rischiando l'iperventilazione.
Forse, era vero.
Forse avevo premuto io quel grilletto.
«Ora del decesso: 18.30.»
- fine capitolo tredicesimo -
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