Capitolo 13.1 - Ho premuto io quel grilletto...
Giovanni
La vita di mio padre era appesa a un filo e... la colpa era solamente mia. La paura che potesse essere tardi mi sopraffece e implorai a squarciagola l'aiuto di qualcuno, guardando verso la porta che poi si spalancò rivelando la figura della bruna rimasta spiazzata.
L'osservai senza dire nulla, con gli occhi intrisi di lacrime e tenne i suoi puntati su di me con la bocca leggermente schiusa.
Una squadra ci raggiunse e lo trasportammo al piano di sotto. Non c'era un minuto da perdere. Dovevamo sbrigarci.
Ignorai gli sguardi sorpresi dei presenti quando trascinammo la barella oltre la soglia. «Ragazzi! Fibrillazione ventricolare. Portate il def, somministrate una fiala di adrenalina. Presto, facciamo presto!» Guardai nella direzione della ragazza dai capelli ramati che si era fatta strada. «Alessia, prendi questo!» Si avvicinò e afferrò l'ambu. Passai a sbottonargli la camicia e applicai gli elettrodi. «Forza, sbrighiamoci ragazzi, per piacere. Il def è pronto?»
«È pronto.»
Agguantai le piastre.
Federica regolò il macchinario.
«Centoventi.»
«Fatto.»
«State tutti indietro.» L'infermiera indietreggiò di qualche passo abbandonando la presa e appoggiai le piastre sul petto. «Avanti, papà. Ce la puoi fare. Tre... due...uno... Libera!» La scossa partì facendo inarcare il corpo esanime, ma non cambiò la situazione. Dovevo fare un altro tentativo, ci dovevo riprovare. «Metti duecento. Di nuovo. Papà» Ingoiai per mandare giù il groppo in gola. «Dai, dai!» Rifeci quel conto alla rovescia e rilasciai un'altra scarica. Tornai a fissare il monitor che continuava ad emettere un segnale acuto. Non aveva funzionato. «Di nuovo.»
«Duecentocinquanta.» Annunciò Federica.
Per la terza volta appoggiai le piastre sul torace nella speranza che tornasse. La gabbia toracica si alzò e abbassò a ritmo. «Dai, papà! Forza, forza, ti prego!»
Lo spronai, infliggendogli un'altra e lanciai un'occhiata al monitor. Non era possibile che non servisse! Finora avevo salvato tante vite, più di quanto ne avessi potute contare. Per me, salvare vite umane era facile quasi quanto respirare. Adesso era la vita di mio padre ad essere in pericolo, non potevo lasciarlo morire. Staccai gli elettrodi e posizionai le mani per attuare il massaggio cardiaco. Mi tornarono in mente le ultime - devastanti - parole prima del collasso sul pavimento, dettate dalla rabbia, dal risentimento per aver scoperto che la persona di cui mi ero sempre fidato... non era altri che un viscido manipolatore. Gli avevo urlato addosso con disprezzo che non poteva essere mio padre, e il suo cuore aveva ceduto. Tutto divenne un eco nel cervello coprendo i rumori attorno.
Forse Sergio ha ragione.
Non sei più mio padre.
Non sei più mio padre, Giorgio Rinaldi.
Non ci assomigliamo per niente.
Non siamo più una famiglia.
Vorrei non avergli gridato addosso l'ultima volta, pensai tra me e me, ruotando la testa verso Federica che alzò a rallentatore gli occhi per incontrare i miei.
Vorrei non avergli spezzato il cuore...
Distolsi lo sguardo dalla ragazza.
Allora avrebbe più forza per tornare da me.
Il mio sguardo sofferente si focalizzò sull'uomo che mi aveva allevato, colui che avevo stimato per la sua empatia, il suo ottimo fiuto negli affari e continuai.
Non sarebbe morto.
Non se ne sarebbe andato.
No.
Sarebbe stato inaccettabile!
Non potevo perderlo.
Non potevano essere quelli gli ultimi frammenti...
«Giovanni, lascia fare a me!» Intervenne Riccardo.
«Gio...» Federica poggiò la mano sul mio braccio per convincermi a smettere, ma mi rifiutavo di lasciar perdere. Poi, di getto, mi bloccai, guardando il mio amico dall'altro lato.
«Gio, lascia, faccio io.»
Mi interruppi e prese il mio posto nel fare la RCP.
«Riccardo...» Sibilai.
Il rimorso mi pesava come un macigno, da cui sarebbe stato difficile trovare un po' di conforto. Avrei voluto che si svegliasse per chiedergli scusa e ripagare ai miei torti. Una lacrima mi scivolò lungo la guancia. Pregai in silenzio che non fosse un addio quello lì. Il pensiero mi logorava lo stomaco.
Per favore, torna papà.
Apri gli occhi.
Guardami. Guardami, ti prego.
«Dammi un'altra possibilità. Per favore, non andartene così.»
Spostai gli occhi verso la bruna, avrebbe voluto confortarmi, ma alla fine si limitò a sospirare. Solo guardandola negli occhi un pugnale mi si conficcava nello stomaco.
Riccardo gettò un ulteriore sguardo al monitor che mostrava una linea piatta e intanto quel suono febbrile mi stava forando le orecchie.
[...]
La situazione non era stabile, era ancora in pericolo nonostante il cuore fosse ripartito dopo circa cinque minuti. Restò da fare un'angioplastica urgente. Riccardo inserì un tubicino nell'arteria a livello del polso facendolo avanzare fino alla coronaria chiusa. Federica mi lanciò una sbrigativa occhiata prima di seguire i passaggi.
«Sono dentro.» Fece un cenno d'assenso e raccolse il tubicino che gli stava porgendo. «Poi installerò una pompa a palloncino.»
«Puoi farlo senza fluoroscopia?»
«Non ho scelta, lo inserirò alla cieca.» rispose voltandosi.
Nella sala fece il suo ingresso la nuova infermiera informandoci che aveva ritirato i risultati delle analisi con la cartella fra le mani.
«Leggili, Alessia.»
«Sì, dottore. La troponina è a quattro.»
«Ematocrito?»
«Quaranta.»
«Potassio?»
«Quattro e mezzo. Bicarbonato a diciotto, gli altri valori sono nella norma.»
Scossi la testa. Sia Federica che Riccardo stavano lavorando a pieno ritmo, passandosi gli strumenti. La ragazza armeggiò con le pinze per sutura e non distolsi lo sguardo da lei.
Il macchinario riprese a trillare e Riccardo mi ordinò di impostare il def a duecento. Gli passai le piastre. Le agguantò, Federica si distanziò e partì la scarica.
Il ritmo cardiaco tornò a risalire e abbassai le spalle, rilassando i muscoli contratti del corpo.
«Bene, è tornato.»
Anche Federica si concesse un piccolo respiro di sollievo.
«È ancora in fibrillazione ventricolare. Vuoi davvero mettergli la pompa?»
«L'aorta potrebbe rompersi, dottore» Ipotizzò la moretta.
«Posso farcela.»
«È troppo rischioso, Ric.» Convenni.
«Sì, lo è, ma per salvare la vita al paziente bisogna correre questo rischio.»
Ad esprimere quel parere non erano stati nessuno dei due, ma la nuova arrivata. Federica girò gli occhi verso quest'ultima. Dopodiché guardò me . «Ha ragione. Non possiamo arrenderci, Gio. Dobbiamo andare fino in fondo.»
Rimasi in silenzio, osservando mio padre steso lì, che lottava per la sopravvivenza e si aggrappava alla vita. Era sempre stato il tipo che si buttava in ogni cosa che faceva, inconsapevole delle conseguenze. Avrebbe combattuto per il suo paziente senza gettare la spugna. I duri cominciavano a giocare solo nelle partite toste. E lo era quella.
«Lo faremo allora. Correremo questo rischio.»
Federica congedò sgarbatamente la giovane fulminandola con lo sguardo e le ordinò di andare in pronto soccorso a prendersi cura di altri pazienti. Il mio sguardo indugiò su quella ragazzina testarda, dal carattere di fuoco per qualche minuto e non appena rialzò gli occhi, mi rivolse un lieve cenno...
[...]
Mi fidavo di Riccardo, era un medico scrupoloso e se correva quel rischio era perché credeva nelle sue capacità di chirurgo. Era determinato a farsi che andasse tutto per il meglio. L'aorta non si sarebbe spezzata, mi ripetei, come un mantra.
«Non si romperà, vedrete.»
«Giovanni, calmati.»
«Sono calmo.»
«Non succederà nulla di male.» Ribadì lei.
«Mi fido di te, amico mio.»
«Ti ringrazio per la fiducia, Gio. Non devi preoccuparti.» Ero un fascio di nervi e la tensione mi stava trapassando da parte a parte. Osservavo il monitor nella speranza che non ci fossero intoppi. «Fede, puoi spostare il monitor?» Lo portò a destra.
«Piano... piano, più piano.»
«Tranquillo.»
«So che puoi farcela. Andiamo.»
«Ce la farò, non aver paura.»
«Mio padre si è sempre fidato di te, perciò ti ha scelto come medico di fiducia.»
«Ci sono quasi» Dichiarò spingendo il tubo nell'arteria.
«Piano... va' più piano.»
«Non c'è rimasto nulla.»
Il monitor iniziò a mostrare degli evidenti segni di miglioramento, i valori si innalzarono.
«Il battito cardiaco è stabile!»
Rilasciai un respiro, liberando tutta l'ansia dell'ultima mezz'ora che avevo accumulato e un sorriso mi si formò sulle labbra. Riccardo sorrise e arrivai ad appoggiargli la mano sulla spalla.
«Sapevo che potevi farcela. Ne ero sicuro, amico mio.»
«Sì, abbiamo guadagnato un po' di tempo.»
Annuii, osservando quei valori e sospirai un'altra volta. Avvicinai la mano alla testa di papà, gli era stata medicata la ferita ma non sapevamo quali fossero le reali condizioni.
«Devo vedere dove ha battuto la testa.» Fissai Federica. «Portiamolo a fare una Tac.»
Annuì. La preoccupazione che potesse esserci qualcosa di grave dilagava dentro di me e probabilmente traspariva da ogni mio gesto o mimica facciale.
Alessia
Era pazzesco... davo dei consigli buoni da professionista e la prima cosa che le balzava in mente era di cacciarmi? Che avevo fatto di male per meritare quel trattamento così insolente? Eravamo sorelle. Non mostrava un briciolo di simpatia. Avevo promesso a papà che avrei provato a riallacciare il rapporto, ma stava andando tutto a rotoli.
Arrabbiata, mi incamminai per il corridoio e il cellulare squillò. Lo tirai fuori e risposi.
«Chiami giusto in tempo, papà.»
«Ch'è successo, Alessia? Come mai questo tono?»
«Sono incazzata! Sono stata spedita al pronto soccorso. Come credi che mi senta? Mia sorella non si degna di considerarmi. Per lei nemmeno esisto!» sbottai.
«Eh?»
«È mia sorella il problema! Tu mi hai detto di essere paziente e positiva, ma–» Portai la mano alla fronte, traendo uno sbuffo. «Sembra peggio di prima.»
«Tesoro, lo so. So quanto tieni a far pace con tua sorella, ma devi essere paziente e non infastidirla. Non preoccuparti, prima o poi capirà le tue intenzioni e ti perdonerà.»
«Se pensa che mi arrendo, allora si sbaglia di grosso.» Accennai un sorriso. «Se è testarda, io lo sarò cento volte di più di lei, te lo assicuro. Vedremo se facendo così riuscirà ancora a ignorarmi come sta facendo.»
«Senti, tua sorella non è affatto una ragazza cattiva. È ferita dal comportamento mio e di tua madre quando era bambina. Non devi farci caso. Non sei stata tu, cara.» Voltandomi verso le porte d'accesso una barella venne trasportata da una donna dai capelli scuri acconciata in caschetto e altri due ragazzi. Seguii la donna con lo sguardo mentre mi stava passando accanto, con il cellulare premuto all'orecchio.
«Devo lasciarti, papà. Occupati tu della bambina, stasera qui è un macello!»
«A che ora arriverai? Ti faccio scaldare la cena?»
«Non tornerò stasera. Ho molto da fare. Ci sentiamo dopo!»
Staccai la telefonata per correre appresso alla barella. La dottoressa stava prendendo in mano la situazione e passò immediatamente ai controlli. Era una ragazza mulatta con segni di percosse ed escoriazioni sparse su quasi tutto il corpo, ma sembrava vigile. Le collegarono gli elettrodi e poi analizzò le pupille con la torcia. Le chiese di dire il nome (se lo ricordava) per controllare se avesse sviluppato un trauma cranico.
«Mari...sol.» biascicò a fatica, non potendo neppure muoversi.
«Marisol. Ok, ti trovi in ospedale e sei al sicuro, mi senti?»
«Mi... fa male la testa. Mi fa male tutto. Che mi è successo?»
Provò ad inarcare la schiena, ma la corvina la fece rimettere giù con delicatezza, soffiando un sussurrato: "è tutto okay". Poi interrogò il signore che era lì. «Non ha visto cos'è successo?»
«No, era a terra, in un parcheggio. Non ho visto nulla.»
«E che mi dice dei due ragazzi feriti che ha menzionato?»
«Hanno chiamato un'ambulanza per loro, però dato che lei stava male ho preferito portarla io.»
«Infermiera.» La castana si rivolse a me. «Presto arriveranno le ambulanze con i due giovani. Li affido a lei. Mi faccia sapere appena arrivano.»
«Sì, dottoressa!»
Annuii fiondandomi all'esterno. Dovevo dimostrare di sapermi barcamenare ed essere svelta il più possibile. Accompagnata da un'altra collega scesi al pianterreno per attendere l'arrivo dei mezzi, ma fino ad adesso neppure l'ombra. Se c'era stato un qualche ritardo, sarebbe stato un problema.
Svoltammo nel corridoio continuando a chiacchierare (sempre del caso ovviamente), quando un uomo mi bloccò.
«Scusi?»
«Sì, dottore?»
«Non ci conosciamo?»
«Ah, no, sono nuova. Piacere, Alessia.» Gli porsi la mano sorridendogli e, con titubanza, me la strinse.
«Ah, sei nuova? Non mi pareva. Hai un aspetto così familiare.»
Feci spallucce. «La ringrazio. È un piacere lavorare qui con voi.»
«Benvenuta nel nostro ospedale.»
«Grazie, dottore.»
Era stato gentile, fossero stati tutti così i saluti, soprattutto quello di mia sorella che mi teneva a distanza come fossi una sostanza tossica. Ripresi a incamminarmi per raggiungere la mia collega e intanto dalla parte opposta si palesò lei.
Ecco, si parlava del diavolo e spuntavano le corna.
Arrivò ma voleva tagliare la corda, accelerando il passo.
La chiamai. «Fragolina?» Niente. Mi passò accanto senza salutarmi, con il classico atteggiamento da stronza. Le andai dietro agguantandole il braccio, riuscendo a farla voltare. «Fede...» Mi guardò, ma sembrò apatica come un pezzo di iceberg. «Ma che hai? Stai cercando di torturarmi? Essere stronza ti piace, eh?»
«Sono occupata.»
Mi diede le spalle ma non la mollai. Doveva ascoltarmi e smetterla con questo stupido giochetto.
«Federica.» Sbuffò e si rivoltò. «Non capisci che mi ferisci? Non hai il diritto di ignorarmi. Ricordati che sono tua sorella. Nelle vene ci scorre lo stesso sangue.»
«Ah, sì. Che sfortuna! Senti, questo tuo straparlare mi dà noia. Lasciami in pace.»
Tornò a darmi le spalle e stavolta non me ne fregò di alzare la voce. «Non capisci! Mi fa male ogni volta che non mi guardi! Mi fai soffrire! Perché? Perché ti diverte calpestarmi come se non valessi nulla? Davvero, non ricordi quanto bene ti abbia voluto, e te ne voglio ancora? Hai bisogno che te lo dimostri! Spiegami, che devo fare.»
Si avvicinò per fronteggiarmi. Ridusse gli occhi in fessure.
«Se ti va, discutiamo su chi di noi ha sofferto di più. Ma, secondo me, perderesti in partenza.» Mi accigliai. Quel mare oscuro mi fece salire i brividi lungo la spina dorsale. «Quando ti guardo, sai cosa ricordo?» Mi limitai a stare immobile come una statua. «Ricordo come mi hanno buttato in mezzo alla strada e si sono presi cura di te, perché eri la loro figlia prediletta. Ricordo il piatto che tua madre mi toglieva dal tavolo dandolo a te per punirmi.» Chinai lo sguardo, ricordando le volte in cui neppure mangiava, quando nostro padre era in trasferta da qualche parte. «Ho passato un periodo brutto, ma la mia vita era quella.»
«Ma non è colpa mia quello che ti hanno fatto.»
«Mmhm...» bisbigliò con gli occhi al cielo, facendo un sospiro. Fece qualche passo in avanti. «Certo. Nessuna delle due ce l'ha. Nessuno può cambiare il passato, per quanto ci si sforzi. Stai sprecando il tuo tempo.»
«Federica...»
«È successo. Impegnarsi per cambiarlo è inutile. Per questo, non possiamo essere sorelle. Capisci?»
Detto ciò se ne andò accompagnata da una maschera di sfrontatezza, senza farmi replicare sulla sua sentenza.
«Capisco.» Mi dissi con gli occhi appannati dalle lacrime che faticai a ricacciare indietro, ingoiando la saliva più volte, prima di proseguire per la mia.
Federica
«Ragazzi, fate con calma. Con calma, per favore.» li esortò dal microfono Giovanni sporto in avanti mentre osservava minuziosamente i ragazzi sistemare il signor Giorgio sulla lettiga. Da quando il padre era stata colto da quel malore, era stato sulla corda per tutto il tempo e non era riuscito a rilassarsi un secondo.
Mi accostai, appoggiando la mano sulla sua schiena.
«Gio... siediti.»
Gli feci segno alla sedia dietro di sé.
«Sto bene. Sto bene, Federica.» Mentì, — sapendo di farlo — continuando ad avere gli occhi incollati al vetro.
«No, non lo sei, siediti.»
«Ti ho detto che sto bene, non preoccuparti.»
«Gio, ti prego...» Mi fissò un'altra volta e spostò gli occhi sulla mia mano ancorata al suo braccio. «Dai.» Dopo un po' di resistenza, si accomodò e lo feci a mia volta. I collaboratori si stavano occupando di preparare il macchinario e quando il mio sguardo capitò sul ragazzo notai il velo di preoccupazione misto a nervosismo sul volto contratto. «Ehi, guardami.» Fissò insistentemente la stessa direzione, contraendo la mascella. «G, guardami. Guardami» ripetei a chiare lettere per poi afferrargli i lati del viso per ruotarlo. Ebbi finalmente la sua attenzione. «Non sentirti solo. Ci sono io qui. Noi affronteremo tutto insieme, okay? Tranquillo.»
«Insieme?» Un sorriso gli spuntò sulle labbra per poi affievolirsi. Portò le mani sopra le mie, mi accarezzò le nocche a volerle trattenere il più possibile in quella posizione. Poi le allontanò a rallentatore stringendomele. «Se possiamo stare insieme... non c'è niente che non possiamo superare, io e te. Lo so.»
«Se possiamo stare insieme?» Che intendeva dire? Perché stava usando il condizionale? «Si può sapere perché dici così?»
Si rabbuiò e continuò a fissarmi, fino a che il suono della notifica del PC ci fece distogliere lo sguardo. I risultati della Tac erano appena arrivati. Si affrettò ad aprire il file da scaricare, ma l'immagine comparsa non ci piacque per nulla.
«Non può essere!» proferì a denti stretti, sbattendo il mouse sulla scrivania.
«Sanguinamento subdurale.»
Mi osservò di rimando per poi riportare immediatamente lo sguardo dritto davanti a sé. Scattò in piedi all'istante.
«Devo operare subito. Non ho altra scelta o sarà troppo tardi.»
Sollevai gli occhi verso il moro che mi guardò. Dovevamo trasferire il signor Giorgio in sala operazione. Ci spalancarono le porte, aiutandoci a portare la barella verso gli ascensori, ma Riccardo spuntò dall'altra parte del corridoio e ci intercettò:
«Ditemi che non è vero quello che ho sentito. Non puoi operare tuo padre in queste condizioni.»
«Non posso perdere tempo.»
«Sei impazzito, eh?» sbottò contro Giovanni, bloccando la barella a metà strada.
«Non ho altra scelta, Ric.»
«Il suo cuore non reggerà l'anestesia. Lo ucciderà, lo sai.»
«Non si può sapere.» Obiettò prontamente. «Come hai detto tu, delle volte si devono correre rischi!» Tenni gli occhi abbassati. «Ed io sto correndo questo rischio! Se non fermo l'emorragia nel cervello, rischierà un'ernia cerebrale. Non posso permetterlo. Sono un medico.»
«Fede, dì qualcosa.» Mi interpellò.
«Sono d'accordo con Giovanni.»
Riccardo restò a corto di parole e crucciò la fronte. «Eri l'unica sana di mente, ma vedo che ti ha plagiato con la sua follia!» Giovanni ordinò che chiamassero l'ascensore. «Gio, il suo corpo riesce a malapena a tollerare la pompa a palloncino. Per favore, prova a pensare come un medico.»
«Sto pensando come un medico. Mio padre sta per morire. Farò tutto il necessario per salvarlo, va bene? Mi sono fidato di te, ora ti chiedendo di fare lo stesso con me e di fidarti.» Slittai gli occhi sull'altro che non avanzò altre proteste, tanto Giovanni era pienamente convinto e ci lasciò condurre la barella in cabina.
[...]
Stava finendo di disinfettare braccia e gomiti quando lo raggiunsi nel corridoio del blocco operatorio. Si voltò e mi ritrovò ferma alle sue spalle. Mentre stavo cambiando, continuavo a rimuginare sulla questione dell'intervento e a chiedermi se il dottor Riccardo avesse ragione. Se avessimo eseguito l'intervento e sarebbe accaduto qualcosa di irreparabile?
Giovanni non se lo sarebbe perdonato. Forse prendere una scelta importante facendosi guidare dalla paura e dal desiderio di salvare una persona a noi cara... Rischiava di farci sbagliare in partenza.
«Mi stavo chiedendo...» Sollevai gli occhi dai calzari. «E se...» Sospirai stropicciando la cuffietta. «Il dottor Riccardo avesse ragione?» Non lo lasciai replicare. «Se prendiamo la decisione sbagliata, sai, non si potrà tornare indietro.»
«Ne sono consapevole. So quello che potrebbe accadere.»
«Allora potremo aspettare un giorno, così il cuore si rafforzerà e potrà tollerare meglio l'intervento. Tuo padre è debole.»
«Abbiamo visto insieme quei risultati ed eri d'accordo che l'operazione andava fatta stanotte. Non intervenire su quell'emoraggia... significherebbe ucciderlo con una pistola.» Prese un respiro, inumidendo le labbra. «Forse ho premuto io quel grilletto.»
«Non capisco.»
«Abbiamo litigato prima dell'attacco. Gli ho gridato contro delle cose orribili. E se gli succedesse qualcosa?» Gli presi la testa. «Non me lo perdonerò mai, Federica.»
«Sst. Non incolpare te stesso.»
«Devo salvarlo.»
«E lo farai, ok? Non ti preoccupare.» Avvolsi le mani attorno attorno alla schiena e lo abbracciai. Le sue mani, dopo un momento di incertezza, si posarono sulla parte bassa della mia. «Ma senza cercare di cancellare un errore con un altro. Pensaci, va bene? Tuo padre potrebbe resistere un altro giorno.»
Restammo abbracciati per un tempo indefinito, nella speranza di mitigare quella sofferenza che lo stava distruggendo...
Angelina
Tornammo all'ospedale mano nella mano e Matteo chiuse la roulotte per poi guardarmi con fare dolce. Ci sorridemmo a vicenda, il bacio di prima mi aveva lasciato una strana sensazione di leggerezza e uno sciame di farfalle nello stomaco. Era questo il sentimento che si provava? Probabilmente sì.
Ci allontanammo e mi fece fare una giravolta, guardandomi dall'alto.
«Nina, tesoro...»
«Mhm?»
«Puoi lasciarmi la mano? Devo andare.»
«Oh, sì, ecco tu... devi andare.»
«Purtroppo. Ho bisogno della mano. Mi hanno chiamato e devo andare in pronto soccorso.»
«Lo so, ma ho paura che quando la lascerò mi sveglierò da questo bellissimo sogno... e non voglio.»
Si chinò alla mia altezza per stamparmi un bacio sulla guancia. «Non è così facile svegliarsi da questo sogno. Non lo permetterò.» Mi strizzò l'occhio e sorrisi. «Nina. Dai, devo anda' o mi faranno una strigliata.»
Abbassai lo sguardo e notai che le sue dita erano intrecciate alle mie e, a quel punto slegai quella presa.
«Certo, va' pure. Non voglio trattenerti. Comunque, devo vedere Federica.»
«Ok.» rispose.
«Allora ci vediamo.»
Ero così emozionata che a momenti mi sarei messa a saltellare come una bambina.
«Sì, sì, ci vediamo.»
Ricambiò appoggiando la mano sulla mia scapola e poi mi passò accanto per dirigersi all'ingresso.
Era vero quello che avevamo vissuto poco prima? Di certo, non era stato frutto dell'immaginazione.
Wax mi aveva baciato cogliendomi di sorpresa e ora come sarebbe evoluto questo rapporto? Se così si poteva denominare...
[...]
«Oh, Fede, accidenti! Dove ti sei cacciata?» Attraversai l'atrio principale dell'ospedale a passo svelto quando l'immagine in bianco e nero di Maddalena mi costrinse a fermarmi.
Mi avvicinai. Il suo sorriso era luminoso, sembrava soddisfatta e i miei occhi si riempirono di lacrime. Quella ragazza aveva tutta la vita davanti a sé, era giovane e soprattutto con tante esperienze da fare, eppure la morte aveva cancellato tutto. Ci aveva lasciati con l'amaro in bocca e totalmente sconvolti. Anche se si era comportata da viziata arrogante, non gli avrei mai augurato di morire. Speravo che fosse in un posto migliore di questo. «L'odio lascia il posto a momenti d'amore... ma tu non hai potuto vivere nulla. È ingiusta la vita. Prima dà e poi toglie, come se niente fosse. Come se noi fossimo solo pedine sulla sua scacchiera.» Tirai su con il naso e accarezzai con la punta del dito la sua faccia. «Eri la mia migliore amica, Madda. Lo sarai sempre.» Accennai un debole sorriso e sfiorai i petali delle margherite che adornavano il quadro. Un altro sorriso fece capolino e toccai quell'immagine, a furia di guardare avrei rischiato di sciuparla. Feci qualche passo e senza farlo di proposito mi cadde l'occhio sulla seconda immagine.
Arricciai la fronte. «Aspetta, aspetta. Dove ho già visto questa donna?» Scavai nella memoria. Dopo aver lasciato quella busta piena di soldi all'uomo si era alzata con nonchalance e aveva abbandonato il locale su due vergognosi tacchi e una valigetta in mano. Sobbalzai. «Oh, santo cielo! Ma è...» Non poteva essere altrimenti, doveva esserlo. Guardai furtiva i dintorni e mi diressi alla reception. «Scusi?» Alzai l'indice per catturare l'attenzione della giovane dietro al bancone. «Sa dirmi chi è la donna della seconda foto?»
Gliela indicai.
«La nostra direttrice amministrativa, cioè lo è stata. È morta. La signora Melissa era una donna dalle sorprendenti capacità amministrative. Dirigeva tutto con assoluta professionalità.»
Questo dettaglio non lo avevo considerato. Se non era più in questo mondo significava essere punto e daccapo e che il colpevole l'avrebbe passata liscia.
Federica
Controllai gli ultimi fascicoli, rimettendoli nel cassetto e mi diressi spedita alla porta, ma prima che potessi sfiorare la maniglia mi piombò di fronte la castana stravolta, con il fiatone e i capelli arruffati.
«Angelì, che ci fai qui? Che succede?»
«Lo dicevo... che devo fa'... palestra. Hai ragione.» Ansimò, ponendo la mano sul cuore. «Ma non posso prendere l'ascensore dopo quell'incidente. Ho usato le scale.»
«Su, entra, entra.» Mi superò senza preamboli, mettendosi seduta sul divano riprendendo a respirare. La raggiunsi, sedendomi. «Cosa sta succedendo? Senti, Ange, se vuoi parlarmi di Matteo, ti avverto-»
«Di quello te ne parlerò più tardi.» Scossi il capo, invitandola a proseguire e inspirò con la mano sul petto. «La donna che ha cospirato contro di te, so chi è, ma...» Osservò un punto nel vuoto. «L'abbiamo persa».
«Di che parli, Angelina?»
«Ascoltami bene: ti ricordi quello che ti voleva citare in giudizio per negligenza sul lavoro?»
«Sì.»
«Quel tipo era venuto nel mio locale e una donna gli aveva dato una busta con dei soldi.»
«Sì, lo sappiamo. Arriva al nocciolo.»
«Quella donna era la direttrice del tuo ospedale!» Dichiarò lasciandomi stupefatta.
Sbattei le palpebre più volte. «Chi? Melissa?»
«Esatto, baby! Me ne sono accorta vedendo le foto qui sotto. È stata a lei pagare quel tizio...»
«Ti sarai confusa.»
«Ma quale confusa, Fede? L'ho vista bene. È andata via dal mio locale dopo che ha pagato quello screanzato» Distolsi lo sguardo, perdendomi nei pensieri. Era così contorta quella faccenda, utile per scriverci un romanzo d'azione. «Mi dispiace per quello che l'è capitato... Ma a quanto pare stava tramando qualcosa alle tue spalle. Sarà stata comandata. Forse tra quei due c'era più di un rapporto lavorativo. Svevi le avrà promesso dei piaceri carnali in cambio.» A pensarci, non poteva trattarsi di una coincidenza che quella donna fosse implicata, visto che la maggior parte delle volte era appiccicata a Paolo Svevi. Quello che pensavo fosse una sciocchezza, in realtà stava prendendo più forma nel mio cervello. «Hai capito, eh?» aggiunse Angelina, che mi vide sempre più sovrappensiero.
Lo sapevo che dietro c'era lo zampino di quella feccia, ma non aveva capito contro chi si stesse mettendo. Sarebbe stato meglio rinfrescargli un po' la memoria.
[...]
Mi spostai sulla corsia del sorpasso e superai la vettura nera, dove viaggiava il mio obiettivo che avevo seguito per tutto il tragitto quando l'avevo visto uscire dall'ospedale in compagnia del genitore. Frenai bruscamente al punto che le ruote stridettero e mi posizionai in obliquo per sbarrare la carreggiata.
Sì, ero la regina delle cazzate e della spericolatezza, ma non gli avrei lasciato scampo.
Se lo poteva pure sognare.
La macchina fu costretta a rallentare, con sommo disappunto del signor Sergio che non si aspettava un intralcio simile. Sbraitò contro il figlio e mi dipinsi un ghigno beffardo sulle labbra.
Bene, se voleva giocare sporco, l'avrei accontentato.
Sbattei forte la portiera scendendo e mi piazzai di fronte, aspettando che smettesse di nascondersi come un coniglio.
«Dottoressa Federica Andreani. Che piacere! Perché ci ha seguito stasera?» Ironizzò con un sorriso ipocrita, venendomi incontro con le mani nelle tasche. «Vuole che le offra la cena o preferisce un aperitivo?»
«Non voglio niente da lei. Sono qui per farle una promemoria su domani.»
«Wow...» Si voltò e il padre scese dall'auto. «Hai capito la ragazzina? Vuole dare ordini e fare la voce grossa.»
Roteai gli occhi. «So che è stato lei ad organizzare la calunnia con quell'uomo.»
«Di cosa sta parlando, Paolo?» Chiese il padre, sbalordito.
«Glielo spiego io.» L'uomo si concentrò su di me. «Suo figlio cercando di pregiudicare la mia carriera, mette a rischio anche l'ospedale, signor Sergio. Quindi, domani andrà a ritirare la denuncia.»
«Ha altre richieste, signorina Andreani?»
Feci un cenno d'assenso, incrociando le braccia.
«A dire il vero, sì. Mi lasci in pace e mi faccia fare il mio lavoro.»
«Fare il tuo lavoro?» Scoppiò a ridere isterico.«Se tu avessi fatto bene il tuo lavoro, mia figlia sarebbe ancora viva. Non ho intenzione di passarci sopra. Ti farò soffrire per quello che hai fatto. Non avrò pietà.»
«Sta perdendo tempo. Da molto, non sento più alcun dolore. E sa molto bene perché. Trovi altri modi. Glielo consiglio, da medico.»
Lo guardai dritto negli occhi, rischiarati dalla luce dei fanali delle nostre rispettive automobili, e poi gli diedi le spalle per tornare alla mia. Non avevo altro da aggiungere e facendo una manovra veloce sgommai via, premendo sull'acceleratore.
Alessia
Tutto quelle ore a trotterellare di qua e di là come una cavalletta impazzita per prendermi cura dei due e zero tempo per respirare, tra l'altro il mio nuovo supervisore era antipatico, mi riferivo a Tommaso Daliana.
Mi fece saltare i nervi quando mi lanciò una sfida mentre eravamo in pronto soccorso. Finalmente mi concessi una pausa rintanandomi nella sala operatoria alternativa, che di solito veniva usata poco, perché la prima era più fornita.
Con un enorme sorriso, continuai a disegnare uno schizzo sul mio quaderno, curva sulla barella, quando qualcuno me lo rubò. Alzai gli occhi e incrociai l'antipatico e schizzinoso medico.
«Oh, guarda che abbiamo qua!» Lo fissai di sbieco e allungai la mano per riprendere ciò che mi era stato sottratto ma si spostò.
«Può ridarmelo?»
«Mhm-Mhm. No?» mugugnò, continuando a sfogliare quelle pagine, senza permesso.
«Questo atteggiamento non le conviene.»
«In che senso "non mi conviene"?» Si sporse con un sorrisino impertinente sulle labbra guizzando le sopracciglia, e bisbigliò. «Non mi conosce ancora, signorina.» Poi scoppiò a ridere e roteai gli occhi. «Tuttavia, ti consiglio di non farti coinvolgere.»
«Ho sentito del rapporto tra lei e Maddalena.» cambiai discorso.
«Che vuoi dire? Non c'era nulla tra di noi.»
«Non ho detto che c'era. Ma voi due eravate molto amici.»
«Sì, lo eravamo. E allora?»
«E io sono la sua sostituta?»
Mi guardò per qualche secondo, rivolgendomi uno sguardo serio con quegli occhi scuri, ma anziché rispondere alla mia domanda preferì riportarli sul quaderno. «Dai, prenditelo.» Me lo consegnò. «Torna al lavoro» ordinò. Si levò il camice, mostrando anche il tatuaggio a forma di dragone aggressivo che gli marchiava il lato destro del collo. «Io voglio dormire un po'.»
Additai la barella. «Dove, proprio qui?»
«Sì» rispose, piegando il camice. «Se te ne vai.»
Mi rialzai, seppur controvoglia, e si lasciò cadere a peso morto sulla barella, sistemando il camice che aveva appallottolato come un cuscino, sotto il capo. Appoggiò la mano sullo stomaco e biascicò qualcosa di incomprensibile alle mie orecchie. Mi fissò di nuovo. «Ehi? Va al diavolo.»
«Ma che simpatico!» Dissi tra me e me, prima di voltare le spalle. Era simpatico come un taglietto con la carta. Dannatamente presuntuoso per i miei gusti.
Mi diressi verso le porte che si aprirono al mio passaggio e uscii.
Giovanni
Osservai mio padre inerte, nel letto. Avevo deciso di seguire quel suggerimento di Federica: aspettare che si riprendesse e ritardare di un giorno l'operazione. Non sapevo quale fosse la scelta giusta, era tutto confuso nella mia testa.
Perché mio padre aveva commesso quel crimine contro una donna innocente? Perché lo aveva tenuto nascosto?
E quelle parole che gli avevo sputato in faccia nel suo ufficio tornavano a intervalli a far capolino tutte le volte che rimanevo in silenzio.
Guardai Riccardo appoggiarsi alla sbarra del letto. «Hai preso la scelta giusta, rinviando l'intervento. Tuo padre ha bisogno di stabilizzarsi e sicuramente avrai più probabilità di successo.»
«Sai, amico...» spostai lo sguardo su mio padre tenuto sedato per precauzione. «Posso essere un eccellente medico, però sono il peggior figlio che si possa avere.»
«Che dici, Giovanni? Perché certi pensieri? Tuo padre è sempre stato orgoglioso di te»
«Ho avuto un litigio con lui prima che avesse l'attacco di cuore. Abbiamo discusso.»
«Avete discusso? Non ci crederei nemmeno se lo vedessi. Voi due siete uniti.» E invece, qualcosa si era rotto. Qualcosa che non poteva essere aggiustato. «Gio? Ohi?» Mi richiamò, ma avevo lo sguardo perso nel vuoto.
«Si è distrutto tutto... e sono finito seppellito dalle macerie.»
«Dimmi cos'è successo.»
«Non ti preoccupare di questo. Prima salviamo mio padre, dopo ne riparleremo...»
La nostra priorità doveva essere innanzitutto, lui. Nessun altro.
La mia testa era torturata da troppi pensieri mentre ero seduto alla scrivania in completa solitudine. Per stasera sarei rimasto qui, con mio padre in quelle condizioni non mi andava di andarmene a casa a dormire, ammesso che ci riuscissi.
Mio padre che ammetteva il suo coinvolgimento nella morte della nonna di Federica, io che rimanevo impalato vicino alla porta dopo aver sentito ciò che mai mi sarei aspettato.
Quando poi lo avevo affrontato, con la rabbia e la repulsione che avevano offuscato la mia ragione e gli avevo gridato addosso che non sarei mai più stato suo figlio. Che non eravamo una famiglia. Che non avrei seguito il suo esempio, diventando un essere spregevole. Avrei voluto resettare ogni cosa e ricominciare, da zero.
"Non sentirti solo. Ci sono io qui. Lo affronteremo insieme, okay?" mi aveva detto Federica prendendomi il viso tra le mani e guardando negli occhi.
"Insieme?"
Forse... non sarebbe stato così. Il mio futuro insieme a lei adesso più di prima era un'incognita. Solo un bella visione...
Che ne sarebbe stato quando avrebbe saputo che l'uomo che l'amava in realtà era il figlio di colui che le aveva portato via la sua persona più cara?
Non mi avrebbe perdonato.
Mi avrebbe allontanato, ma anche col cuore ridotto in poltiglia, l'avrei capita.
Avrei capito che non poteva farlo, non poteva stare con me, che il più grande ostacolo per il nostro amore era il passato.
E combatterlo era inutile.
Mi alzai, per smetterla di rimuginare sulla stessa cosa poiché scervellarmi serviva solo a farmi perdere il controllo. Avrei voluto staccare la spina e spegnere il cervello.
Mi abbandonai sul divano che, anche se scomodo, mi avrebbe fornito il riposo di cui avevo bisogno.
Finalmente dopo un po' riuscii a prender sonno.
Mi sentii sfiorare l'attaccatura dei capelli, mi sfiorò il viso, correndo lungo le guance.
Una mano familiare che mi invitò ad aprire gli occhi. Incrociai i suoi, scuri come il cioccolato, e no, non era un angelo... era Federica, seduta sul bordo del divano, che stava continuando a osservare ogni mio movimento.
Mi misi comodo con la mano sotto la guancia per studiare quella bellissima fanciulla. Lei mi riservò un sorriso genuino. Sembrava un sogno ad occhi aperti, e pregai che non svanisse.
«Ho fatto un sogno su di te.» confessai. «Siamo ancora lì?»
«Chissà...»
Mi aprii in un sorriso anch'io. «"La signora Chissà"»
La guardai intensamente, volevo imprimermi l'immagine perfetta nella testa. «Voglio sognare per sempre con te e non svegliarmi.»
«Gio, sono stata da tuo padre. Sta meglio. Se ti va bene, potremo operarlo oggi stesso.»
Mi stiracchiai, divaricando le braccia e poi le allungai per prenderle il viso.
«Sai che questa è la più bella cosa che ti sento dire da così tanto tempo, signorina Andreani?»
«Credo proprio che tu ti sia ripreso, visto che hai ricominciato a prendermi in giro. Forza, alzati.» Non avevo alcuna intenzione di darle ascolto, restai a giocare con il secondo orecchino che le adornava la parte alta del lobo. Poi afferrai la sua mano e me la portai alle labbra per posarci un bacio. «Quanto mi fai pena', piccolina.»
«Ah, io, signor Rinaldi?»
«Ti chiedo perdono.» Le strinsi la mano più forte.
«Perchè?»
«Per tutte le cose che ho fatto per paura di perderti.»
«Tutto?» Alzò gli occhi al soffitto. «Mhm, vediamo queste scuse non credo siano sufficienti, però dai, le accetto.» Riprese la sua aria seria. «Come va con la ferita? Do un'occhiata ai punti?»
«No, no, tranquilla.» Portai le mani attorno alle sue spalle e mi tirai più, rimettendomi seduto. «Non devi preoccuparti, la ferita sta guarendo.» Abbassai lo sguardo per raccogliere la sua mano e me l'appoggiai al centro del petto, in corrispondenza del battito cardiaco che aumentò in modo esponenziale. I nostri sguardi si ritrovarono alla stessa altezza. Lei rappresentava la mia strada di casa. Era il mio punto di riferimento, in questa vita. Non ne avevo altri. «Tu prenditi cura del mio cuore. Il resto non è importante.» Portai la mia mano sul suo petto e abbassò lo sguardo per un breve istante. Lo rialzò. «Non mi importa di nulla, né degli altri né dell'ospedale, se non di te. Perché se mi qualcuno» inclinai la testa. «Lo ami ogni singolo giorno» Mi lasciò continuare. «E per tutta la vita, lotterai affinché sia felice.»
«Da dove ti vengono queste frasi di prima mattina? Hai ingoiato un libro di poesie? Potresti fare concorrenza a Shakespeare.»
«Me le ha suggerite il cuore...»
«OK.» si limitò a dire di colpo imbarazzata, perché non avevo smesso un secondo di spogliarla con gli occhi, di desiderare le sue labbra e di toccare la sua anima. Fissai le sue labbra morbide, alterandolo con i suoi occhi.
«Vorrei che il tempo si fermasse.»
«Cosa?» bisbigliò.
Il silenzio diventò assordante, ma il mio cuore continuava a battere all'impazzata, fin quasi a saltarmi via. Con la mano, accarezzai il suo viso, percorrendo la mascella. «Facciamolo...» le sussurrai. «Fermiamo il tempo, possiamo farlo se ci crediamo. Restiamo nel mio sogno perfetto.» Mi spinsi verso di lei sempre di più, assottigliando i millimetri che ci separavano, inalando il suo profumo e le sue labbra si posarono sulle mie. Quante volte le avevo sognate, non era quantificabile...
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top