Capitolo 12.1 - Dall'inferno non si torna indietro
Giovanni
«Mattia. Mattia, per favore. Metti giù quel bisturi, ok? Parliamone.»
«Stia alla larga da me!» Mi puntò contro il bisturi, ero a pochi metri con il braccio sollevato nel vano tentativo di farlo rinsavire. Stava commettendo un errore madornale. «Non si avvicini! Lo ammazzo a questa canaglia. Gli taglio la gola, mi ha sentito?»
«No. No, Mattia. Guardami.» Sentii il sapore ferroso del sangue invadermi la bocca dato che stavo mordicchiando l'interno della guancia. «Fargli del male non ci riporterà Maddalena. Per favore, non fare niente di avventato.»
«Sì, non la riporterà indietro, ma mi farà sentire meglio, capisce? Mi sentirò sollevato.» Urlò togliendo la lama dalla giugulare del giovane con gli occhi di fuoco e il viso rosso grondante di sudore.
Ne approfittai, afferrandogli il braccio e bloccare i polsi. Lottai con le unghie e con i denti per disarmarlo mentre tentava di dimenarsi e lo allontanai dal paziente.
«Mi lasci andare, lo ucciderò!»
«Ti rendi conto di quello che vuoi fare!? Uccidere una persona a sangue freddo? Non sei così!» Lo feci sbattere di schiena contro il muro e lo guardai dritto negli occhi ormai infiammati da una potente collera. «Basta, smettila!» lo ammonii a denti stretti.
«Mi lasci andare, dottore! Devo porre fine alla sua vita. Mi lasci!»
Cercò di strattonare il braccio mentre impugnava lo strumento chirurgico. Nell'abbassarglielo però un bruciore intenso mi attraversò e una smorfia di fastidio fece capolino sul mio viso. Gli sferrai un destro nello stomaco per sbilanciare il suo precario equilibrio e cadde a terra. Mi posizionai a cavalcioni sul suo corpo, agguantandogli il polso un'altra volta e glielo storsi facendolo gemere per il dolore. Dopodiché lo costrinsi a rimettersi in piedi e inchiodai di nuovo al muro. Lo strattonai. «Che fai, eh? Riprenditi! Calmati e smettila.» Inspirò ed espirò dal naso con la faccia imperlata di sudore, il ciuffo appiccicato alla fronte. «Non fare l'incosciente, okay? Calmati, calmo!» Poi il mio sguardo si focalizzò sul paziente accovacciato sul pavimento. «Sta bene?» Mi fece un cenno affermativo col braccio. «Va bene, le mando un'infermiera.»
«Mi lasci andare. Mi lasci ucciderlo, dottore!»
«Mattia!» sbottai. «Andiamo.» Lo trascinai con forza verso l'uscita e tentò di divincolarsi, ripetendo come un disco rotto che voleva finire ciò che aveva cominciato e di lasciarlo. Una volta nel corridoio, richiusi la porta, incontrando lo sguardo di un poliziotto che era lì. Lo salutai educatamente, accerchiando le spalle del biondino. Ci incamminammo e sussurrai. «Senti, capisco che odi tutti, compreso te stesso.» Svoltammo in un altro corridoio.
«Mi lasci andare, dottore!» sbottò riprendendo a strattonarmi. «Non capisce un ca...»
In risposta, gli strattonai il braccio interrompendolo a metà. «Pensa a quello che stai facendo, Mattia. Dall'inferno non si torna indietro.»
«Chi me lo dice? Un medico che ha salvato un assassino?»
Lo spintonai con poca grazia contro il muro. Mi ero stancato delle sue provocazioni e gli strinsi i bicipiti, spingendomi a pochi millimetri dalla faccia. «Mattia, sta' zitto. Devi smetterla di dire stronzate. Maddalena se n'è andata per tutti. Non fa male solo a te. Fa male anche a me. Non c'eri. Tenevo molto a Maddalena, era una mia alunna, capisci? Ero il suo professore.»
«Siete tutti falsi! Tutti voi!» Tuonò, sgranando gli occhi.
«Mattia, sta' zitto. Zitto.»
«Non mi dica cosa fare. Mi lasci andare.» Strattonò le braccia per liberarsi e alzai la voce di un'ottava rischiando che mi sentissero. Ispezionai così i dintorni, ma non c'era nessuno del personale nei paraggi.
«Ascoltami, questa rabbia ti sta divorando. Finirà per portarti su un precipizio senza che tu te ne renda conto e quando riaprirai gli occhi, starai già cadendo. Non voglio che tu cada nel vuoto e ti faccia del male, amico mio. Sei un bravo medico, non distruggere la tua vita. Non farlo, per favore. Per favore...»
«Ehi!» Esclamò Tommy raggiungendoci di corsa. Mi mise la mano sulla spalla. «Che succede?» domandò e girai il collo nella sua direzione.
«Tommy.» Spostai il biondino per interporlo tra di noi. «Porta via Mattia e non lo perdere di vista, d'accordo?»
«Va bene, me ne occupo subito. È successo qualcosa?»
«Lasciatemi stare!» strillò.
«Mattia.» lo ammonii con tono severo e poi tornai a rivolgermi al mio collega. «Portalo nel tuo ufficio e non lasciarlo andare via. Ho delle cose da sbrigare. Ti raggiungo dopo.»
Lasciai il ragazzino con lui e mi allontanai, premendo nel frattempo la mano in corrispondenza delle costole, probabilmente mi ero ferito nella colluttazione. Mi rintanai in uno stanzino dove raramente qualcuno ci veniva e sembrava il posto adeguato. Guardai dalla minuscola fessura, se avessi attirato l'attenzione, e richiusi la porta a più mandata. Mi introdussi in un'altra stanza, dove c'era uno specchio. Tolsi il camice, appoggiando il cellulare sul mobile e notai il buco nel tessuto. La lama era penetrata e lo stracciai, vedendo uno squarcio. Era una ferita profonda, la sfiorai con la punta dei polpastrelli. Occorrevano immediatamente dei punti.
Accidenti...
Federica
Passeggiai nervosamente per il corridoio con la mano fra i capelli mentre il poliziotto stava raccogliendo informazioni dal dottor Gentile. Purtroppo quel dannato era irraggiungibile. Chissà dove diamine si era cacciato. Era incorreggibile! Prima creava problemi e poi spariva. Talvolta era proprio un infantile del cavolo!
All'ennesimo squillo, attaccai da me, ritornando dal mio mentore che aveva finito la conversazione con la polizia.
«Io non lo chiamerei...»
«È spento.»
«È il solito teppista. Arriva e ci butta addosso un mucchio di problemi, poi se ne va.»
Lo guardai in tralice. «E tu?»
«Ho dovuto farlo.»
«Come hai potuto fare una cosa del genere?»
«Fede, ok. È successo solo una volta.»
«Non hai pensato alle conseguenze?»
«Se ne occuperà la polizia di tutto e poi il ragazzo sta bene.»
Era facile parlare così, ma era stato ad un passo dal compromettere la sua carriera e nemmeno se ne rendeva conto quanto fosse stato irresponsabile.
«Certo, certo, quindi è così facile? Non posso crederci!» Abbassò lo sguardo. «Come ci sei finito dentro questo schifo? Come sei venuto meno alla tua etica, mi sto chiedendo? Proprio tu...»
Fece spallucce: «Va bene! Mi sono lasciato coinvolgere, ed è finita.» Allargò le braccia arretrando di un passo. «Sì, sono un cretino.»
Gli afferrai il polso. «Non è finita! Perché? Perché non hai contattato la polizia? Perché non l'hai detto a me o a qualcuno dell'ospedale? Perché ti vuoi pregiudicare in questo modo?»
«L'ho fatto per te!» sbottò alterato guardandomi e lasciò scivolare le mani sulle mie braccia. «Per... proteggerti.»
«Bravo. Per proteggermi?» Sollevai le sopracciglia. Tenne gli occhi schivi, inumidendosi le labbra e mi scansai. «Non fare nient'altro per me. Capito? Niente!» Gli voltai le spalle per allontanarmi e salire le scale.
Un altro per cui mi serviva il libretto d'istruzioni per capire che gli passasse nel cervello...
Ma che avevano?
Si ostinavano a fare qualcosa che io non avevo chiesto. Non mi serviva la guardia del corpo e le cose potevo affrontarle da sola senza nessun aiuto. Mi urtava terribilmente essere trattata come una ragazzina debole quando non lo ero mai stata. Telefonai a Giovanni per scoprire se avesse trovato Mattia dato che nella stanza di Marco non avevo trovato nessuno dei tre.
Dopo parecchi squilli, il piccolo malefico si degnò di rispondere.
«Dimmi, Federica.»
«Marco non c'è, Mattia non è da nessuna parte. Che succede?»
«È tutto ok, tranquilla. Te lo dico più tardi.»
«Se è tutto ok, perché non sono qui? Puoi spiegarmi, Gio?»
«Fede. Perché non puoi ascoltarmi per una volta? Ti ho già detto che te lo spiego più tardi. Ne parliamo dopo.»
«Voglio che tu mi dica subito cosa sta succedendo. Parla Gio!» A quel punto, non sentii nulla dalla parte opposta e tolsi il cellulare dall'orecchio guardando di traverso lo schermo. «Gli ho fatto solo una domanda, e che cavolo!» L'infermiera mi venne incontro per avvisarmi che stava per arrivare un'emergenza in pronto soccorso e la seguii. «Il dottor Giovanni era qui, l'ha visto?»
«No. Non ho visto né il dottor Giovanni, né il dottor Tommaso.»
«Neanche Tommy?»
«No, oggi non ho trovato nessuno. La polizia è passata a chiedere di Mattia, ma non c'era neppure lui.»
Raggiungemmo il piano terra, arrivando nel momento in cui i paramedici calarono la barella e attraversarono l'entrata.
«38 anni, incinta alla ventesima settimana. È caduta dal letto e ha battuto la testa. Il bambino è stabile, ma la madre ha difficoltà a respirare. Polso in calo con bradicardia e pressione in calo.» riassunse il paramedico.
«Ha battuto la testa andando in bagno.» aggiunse l'uomo, probabilmente il marito.
La portammo di corsa al pronto soccorso e poi gli operatori la sollevarono con cautela per adagiarla sul lettino. Ordinai a Gianmarco di regolarlo. Presi lo stetoscopio e guardai la paziente. «Ora ho bisogno che faccia un respiro profondo, ok?» Appoggiai la campana sul suo torace ed eseguì anche se a fatica. «Ancora.» Mi drizzai. «La respirazione è debole. Eseguiamo radiografia torace e cranio. Manteniamo le radiazioni al livello più basso e mettiamole una copertura protettiva.»
«Certo, dottoressa.» rispose l'infermiere Pretelli.
«Per favore...» La donna scostò la mascherina dell'ossigeno. «Non voglio che a questo bambino succeda qualcosa di brutto.»
«Le prometto che il livello di radiazione sarà ridotto al minimo e che proteggeremo il bambino con un grembiule di piombo. Deve stare tranquilla.»
«Mario, dì qualcosa.» Interpellò il marito e mi voltai in automatico.
«Non c'è un altro modo?»
Scossi la testa. «Temo di no. Sua moglie non respira come dovrebbe e dobbiamo scoprire perché.»
«Mi avete sentito. Non voglio fare una radiografia.» Obiettò lei.
«Signora, è in gioco la sua vita.»
Feci per allontanarmi e mi afferrò la mano. «Non capisce.» Mi rivoltai. «Il bambino è l'unico donatore compatibile con mia figlia. Non posso rischiare.»
Arricciai la fronte scuotendo il capo: «Come?»
Il silenzio calò fra i presenti, quando una vicina sottile lo spezzò. «Ho la leucemia...» Osservai di scatto una ragazzina dal volto smunto, segnato da occhiaie scure. «Mia madre vuole dare alla luce questo bambino per salvarmi.»
Quell'affermazione mi fece mozzare il respiro di fronte a quegli occhi spenti, sofferenti. Incrociai lo sguardo del dottor Riccardo fulmineamente e poi guardai la paziente, che mi fissava speranzosa tenendomi stretta ancora la mano.
[...]
«Quel bambino avrà molte responsabilità. Dovrà tenere in vita sua sorella...» commentò Gianmarco intristendosi, mentre staccavo gli occhi dalla cartella che stavo controllando.
Annuii. «Sì. Donerà prima il midollo osseo, poi il rene o forse... il fegato. Non sarà facile.»
«E se fosse tuo figlio ad avere la leucemia?» Mi giunse la domanda del dottor Gentile e mi voltai leggermente, vedendolo immobile sul posto a braccia conserte. «Non faresti la stessa cosa? Non rischieresti la tua vita per curarlo?»
«Lo farei.»
«Anch'io. Si fa tutto il necessario per le persone che si amano.»
Posai la cartella sulla scrivania e feci un passo avanti. Il sacrificio era importante, ma non era una sola vita ad essere in ballo. Direi che c'era di più. «Ma non alle loro spalle.»
Mi allontanai con grandi falcate nella direzione opposta. Avevo fatto sistemare la paziente in camera in attesa dei risultati degli esami. Era meglio tenerla sotto osservazione.
«Come va la respirazione?»
Mi avvicinai al lettino.
«Meglio...»
Vidi la ragazzina seduta su una sedia con un contenitore sulle gambe e la faccia pallida.
Le appoggiai la mano sulla spalla, inclinando la testa.
«Va tutto bene?»
«Sì...»
«Gaia ha appena finito la chemioterapia e ha un po' di nausea.» spiegò l'uomo e poi chiese ad entrambi i bambini di andare al distributore a comprare qualcosa e uscirono, accompagnati dall'infermiera. Controllai la ferita sulla fronte e il dottor Gentile entrò in stanza.
«Signora, dai risultati vedo che i polmoni sembrano a posto, ma lei ha un problema più serio.» La donna rialzò la testa dal cuscino. «Ha un'insufficienza cardiaca.»
Osservai il mio superiore di scatto. La donna non sembrò esserne sorpresa.
«Dopo la sua ultima gravidanza ci è stato detto che il cuore era ingrossato.» confessò l'uomo.
«È consapevole del rischio?» Domandai.
«Non avevamo altra scelta. Il midollo osseo di nostro figlio non era compatibile con quello di Gaia. L'unico modo per salvarla era avere un altro bambino.»
«Siamo consapevoli. Ne abbiamo parlato e abbiamo deciso di comune accordo di correre questo rischio per il bene di nostra figlia.» continuò il marito.
«Signora, so che non è piacevole sentirselo dire, ma la sua vita è in pericolo. Forse è il caso di interrompere questa gravidanza per la sua salute.»
«No, no. Non lo faccia. Se mia figlia non riceve un trapianto di midollo entro l'anno, morirà. Se perdo il bambino, perderò anche lei. Per favore.» Mi implorò con gli occhi lucidi di pianto.
«Per favore, aiutateci.»
Il silenzio tornò a regnare nell'ambiente, ma venne di colpo interrotto dal mio mentore. Purtroppo era rischioso andare avanti per la donna.
«Va bene.» Mi voltai perplessa. «La cureremo per rafforzare il cuore.»
«Dottore...»
Mi bloccò, alzando il palmo della mano. «Stabilizzeremo la pressione sanguigna. Speriamo che presto possa tornare a respirare normalmente.»
Gli sfilai davanti per uscire, in disaccordo sulla decisione di assecondare quella follia. Mi diressi spedita verso la reception per chiedere altre notizie di Giovanni. Finora non l'avevo visto. L'infermiera confermò che non era nei paraggi. Sembrava sparito dalla circolazione. Alzai gli occhi al cielo, sprofondando le mani in tasca e vidi giungere Riccardo. Immaginavo che volesse farmi la ramanzina per il mio pessimo comportamento.
«Non sei d'accordo con la mia decisione?»
«Non dipende da me. Sei tu l'esperto.»
«Che faresti al mio posto?»
«Opterei per la madre. I due bambini, che ha già, hanno bisogno della madre.»
Il nostro dibattito venne interrotto dalle urla allarmanti dell'uomo che si precipitò da noi.
«Dottori! Dottori! Dottori! Per favore, aiutatemi! Mia moglie... non riesce a respirare!»
Lo seguimmo.
Riccardo si catapultò nella camera e chiese ai bambini di spostarsi e lasciarlo visitare. La donna annaspava sul punto di soffocare. Il quadro era peggiorato e il bambino si aggrappò al mio corpo. Erano spaventati.
«La frequenza cardiaca sta crollando. Può fermarsi il cuore. Somministro atropina!»
«Mamma!» Strillò la ragazzina e le misi la mano sulla schiena. «Papà, cosa stanno facendo alla mamma?»
«Tranquilla, la cureranno. Non preoccuparti.»
Era una condanna vedere una persona stare male e non poter fare niente per salvarla da quell'agonia. Non poter fare nulla se non rimanere in disparte, a guardare...
Mi tornò in mente il confuso chiacchiericcio dei signori, venuti con le sirene spiegate quella mattina, perché mia madre non si era svegliata per prepararci la colazione ed era rimasta a letto, senza muoversi. Qualcuno mi tenne lontana dal letto, mentre un uomo tentava di rianimarla con il massaggio.
"Che state facendo alla mamma!? Mamma! Mamma!" Urlai con le lacrime copiose che mi scendevano lungo le guance. Le diedero innumerevoli scariche, ma non reagì. Loro dichiararono il decesso e, per la disperazione, le ginocchia mi cedettero.
Una bambina di sei anni non avrebbe dovuto assistere a una scena simile.
Non l'avrei mai dimenticata...
Ero rimasta a guardare. Avrei dovuto impedirle di prendere quelle maledette pillole, magari sarebbe sopravvissuta. Non avrei attraversato quell'inferno, sarebbe stato tutto diverso se fosse stata viva. Non avrei dovuto lasciarla, avrei dovuto lottare per entrambe...
«Federica!» La voce di Riccardo mi distolse da quei pensieri. «Prepara l'EMS!» Mi fiondai a prelevara la valigetta mentre rassicurava la paziente. Poi applicò i cerotti sul torace e regolai il macchinario.
«Che state facendo a mia moglie?»
«Aiuterà il cuore a battere fino all'inserimento del pacemaker. Elettrizzerà la pelle sessanta volte al minuto.»
«C-Causerà... danni al bambino?» chiese con un filo di voce.
«No. Ma le farà male. Impostalo su sessanta joule!»
Annuì, impostando il macchinario. La ragazzina continuò a gridare agitata e poi crollò a terra.
Mi mossi velocemente, accovacciandomi accanto al suo corpo inerte. Aveva perso i sensi.
«Qualcuno venga qui, per favore! Ho bisogno di aiuto!» Gianmarco si fiondò dentro e gli strappai lo stetoscopio intorno al collo. «Necessita urgentemente di ossigeno. Leucemia al quarto stadio.»
Lui annuì e scappò fuori. Passai la mano sotto la maglietta per sentirle il respiro e poggiai il dito sulla carotide. Il battito era debole. La donna supplicò di salvare la figlia e Riccardo la invitò a calmarsi...
Tommaso
Quando Giovanni mi lasciò da solo, trascinai il biondino con la forza nel mio ufficio e chiusi la porta.
Lo tenni fermo per le spalle. «Mattia, che succede? Dimmelo.»
«Dottore! Non sa un cazzo!»
«Okay. Siediti e spiegami che cazzo è successo, ok? Però prima ho bisogno che ti calmi...»
Era letteralmente fuori dai gangheri, l'ira gli incendiava gli occhi e la faccia era arroventata.
«No! Devo andare! Si levi di mezzo!» lo spinsi all'indietro piantandomi davanti alla sua unica via di fuga. Lui sospirò. «Le dico una cosa, dottore. È stato quello psicopatico lunatico a sparare a Maddalena, ma siete stati voi a ucciderla!»
«Attento a quello che dici, Mattia. Non ho intenzione di ripetertelo» Si passò la mano fra i capelli e mi guardò con fare da superiore. «È una bugia? Non avete fatto la metà per Maddalena di quanto ne abbiate fatto per quel bastardo! Siete tutti colpevoli della sua morte!» Ringhiò.
Alzai l'indice. «Smettila di dire sciocchezze. Sta' zitto.»
Gli voltai lentamente le spalle.
«
Cosa? Perché si arrabbia? Perché è vero?»
Tornai a osservarlo in malo modo e sollevai l'indice. «Ti ho detto di stare zitto, Mattia.»
Andai verso la porta ma mi bloccai. «Giovanni e lei... Entrambi sapete che ho ragione. Lo sapete! Siete voi che l'avete uccisa!»
Mi girai d'impeto e gli sganciai un pugno in faccia, facendolo cadere addosso alla libreria. Lo fissai, inspirando con calma. «Non dire una parola e non te ne andrai da qui fino a che non avrai ripreso a ragionare!»
Si asciugò il labbro che sanguinava e tirai la sedia vicino la porta, mettendomi comodamente seduto lì. Schiantò i palmi contro la mensola, emettendo un urlo di frustrazione, ma sprecava fiato. «Che pena. Mi vergogno di te.»
Accavallai le gambe e mi guardò in cagnesco, come un cane a cui pestavano la coda...
Andò avanti e indietro sotto il mio sguardo impassibile, sembrava un animale in trappola.
«Hai picchiato anche il paziente che hai portato al pronto soccorso, eh?»
«E se anche fosse?»
«Ti fidi della tua famiglia, Mattia?» Il ragazzo ghignò, distogliendo il volto. «Non ti interessa quello che hai fatto? Tanto non ti accadrà niente. Pensi di passarla liscia?»
«Non mi fido di nessuno.»
«Fai bene...»
Qualcuno bussò alla porta.
Spostai la sedia e lasciai entrare Giovanni che mi rivolse un piccolo cenno e poi si avvicinò all'altro.
«Mattia, dobbiamo andare. Diremo tutto alla polizia.»
Si mise dritto rialzandosi. «D'accordo, ma non stasera.»
Provò a sorpassarci, ma Giovanni lo afferrò per il braccio.
«Cosa intendi con "non stasera"? Andrai da quell'uomo e ti prenderai la responsabilità di quello che hai fatto. Ti scuserai con lui. Domani incontreremo gli avvocati dell'ospedale e vedremo cosa fare.»
«Sì, certo» Sorrise. «Farò ciò che mi ordina, dottor Rinaldi.»
«È l'unica cosa che possiamo fare...» Intervenni io.
«Certo» Esibì un sorrisetto arrogante. «In questo modo eviterò altri pugni.» Giovanni ruotò il viso verso di me interrogativo e roteai gli occhi, scuotendo il capo. Quel ragazzo era un caso disperato. «Sono stufo di quest'ospedale! La fanno sempre franca tutti, perciò farò anch'io a modo mio.»
«Mattia. Andiamo.» Gli prese il braccio conducendolo verso la porta. Ci lanciammo sguardi io e Giovanni mentre scortavamo il biondino nel corridoio, quando due tizi spuntati chissà dove attirarono l'attenzione facendo baldoria. Sembravano ubriachi e uno di loro sventolò la mano.
«Dottori! Date un'occhiata a questo!»
Indicò il compagno che si girò a rallentatore mostrandoci un coltello conficcato in testa. Restammo allibiti sul posto.
«Qualcuno può togliermi questo dalla testa?» Fece il ragazzino sghignazzando e diede una pacca forte all'altro. «Abbiamo rubato il coltello di qualcuno!» Risero e stavano entrambi per perdere l'equilibrio. «Ma perché è tutto buio pesto, Luca?»
Io e Giovanni ci guardammo, scioccati dalla scena...
«Non è buio, vedo la luce, eh, eh. Dev'essere colpa del gin tonic»
Il compagno poi perse i sensi e si accasciò sul pavimento. Giovanni si precipitò da loro e l'altro continuò a confabulare cose senza senso. Dovetti lasciare Mattia e correre a prendere le garze pulite e la sedia a rotelle.
«Ehi Nunzio, stai bene o no?»
Il tizio si riprese, spalancando gli occhi. «Mi sono addormentato... Luca, che è successo?»
«Niente, Nunzio.» Ridacchiò.
«Si fermi, un momento! Per favore, non si muova.»
«Lo lasci alzare, dottore. Anzi gli dia qualcosa per tirarlo su, così correrà come un grillo e starà alla grande. Vedrete!»
Giovanni alzò gli occhi al cielo e poi si rivolse a me. Dovevamo muoverlo per metterlo sulla sedia a rotelle ma senza spostare il coltello o rischiava dei danni cerebrali. Lo sollevammo per le ascelle e lanciai un'occhiataccia all'altro che parlava a vanvera.
«Che problema c'è?»
«Ciao! Saluta qua!»
Aveva tirato fuori il cellulare per fare un video e la cosa mi infastidì.
«Cosa sta facendo? La smetta di registrare!» sbottai.
«Perchè? Siamo in diretta!»
Giovanni sbuffò, drizzando la schiena. «Merda, se n'è andato via. Si caccerà nei guai.»
«Non preoccuparti, aiutia il paziente. So come gestire la situazione.» Annuì e spostammo la sedia a rotelle, tallonati dall'altro che a stento si reggeva in piedi.
Giovanni
«Ehi, amico! Se non metti via il cellulare, chiamo la sicurezza.» Lo rimproverò Tommy seccato.
«Non si preoccupi, sto finendo.»
Continuai a controllare le pupille del ragazzo. Sembrava lucido, insomma, per modo di dire. «Senta, dottore, stavamo mangiando un panino. Poi è arrivato un tizio e ha cominciato ad insultarci. Io non lo sopporto, non mi piace dire parolacce e gli ho detto: "ma che ti prende, bro? Non ti ho fatto niente" e mi ha tirato il coltello. Mi ha colpito alla testa! Lo vuole vedere un trucco? Se muovo le sopracciglia su e giù riesco a muovere anche il coltello!»
«Non lo faccia, fermo! Non si muova.»
«Deve stare fermo» lo ammonì Tommy parlandogli all'orecchio.
Il tizio sbuffò con fare scocciato.
«Va bene. Non la muovo. Sono così noiosi, così non è divertente! Luca, segnati i loro nomi, non li inviteremo al party!»
«Certo, certo!» rispose il compagno e batterono un cinque.
Lo guardai di traverso. «Le ho detto di non muoversi. Che fa? Senta, non sappiamo esattamente dove la lama abbia colpito e la situazione è molto delicata. La invito a stare fermo e in silenzio, per favore.»
«Nunzio, tua moglie ti sta chiamando!» l'avvisò l'amico.
«Non rispondere! Sono due mesi che mi assilla che vuole venire in ospedale e adesso siamo venuti senza di lei. Si incazzerà di brutto!»
«È meglio che non lo scopra...» Concordò e mi scappò quasi un sorriso per il loro siparietto.
«Mi presti attenzione. Allora: 20+9?»
Ci pensò sù: «Ehm, 29!»
Annuii. «Okay: 1087-22?»
Arricciò la fronte, sconcerto. «Ehm... io non riesco a calcolarlo, dottore. Ma non è perché sono stupido, è solo che non sono stato mai una cima in matematica.»
«Non è per il coltello. È perché è un idiota e ubriaco!»
Rise di gusto e l'amico lo seguì, gesticolando con l'indice.
«È molto raro che lo stato mentale sia normale.»
«Sì, non deve aver toccato il cervello.»
«Sentito, Nunzio? Non ha trovato il cervello! È solo un idiota. Forza, dottori, toglietelo!»
Si sporse, allungando il braccio, ma mi rialzai fermandolo dal commettere un'imprudenza.
«Si dia una regolata. Farà del male al suo amico, quindi si allontani. Rimanga lì e non si muova per nessun motivo»
In quell'istante il cellulare mi squillò e lasciai il paziente nelle mani di Tommy per farmi in disparte.
«Federica, dimmi...»
«Non volevo chiamarti perché mi hai chiuso il telefono in faccia, ma sono in pensiero per Mattia.»
«Stiamo facendo tutto il possibile, ma non so se funzionerà. Credo abbia perso completamente il controllo.»
«Dov'è?»
«Purtroppo, non ne ho idea. Se n'è andato.»
«Dov'è andato?» continuò pronta a farmi un interrogatorio.
Ma non avevo tempo di parlare di quelle cose...
«Fede, mi dispiace, sono al pronto soccorso. Quando avrò finito, ti verrò a cercare.»
«Ok... Scusami...» Poi fu lei a riattaccare. Tirai un profondo sospiro e tornai ad occuparmi del caso per fare i dovuti esami.
[...]
Osservai la lastra con attenzione mentre il paziente, la cui sbornia non era passata, ci indicava un orologio invisibile al suo polso.
«Cosa dicono i risultati?» domandò Tommy affiancandomi.
«Il coltello è conficcato in un punto specifico che gli impedisce di perdere troppo sangue. Credo che l'opzione migliore sia quella di aprire il cranio e rimuovere la lama.»
«Possiamo farlo, o forse rimuoverlo con attenzione in modo che non colpisca arterie o vene. In questo modo lo monitoriamo meglio.»
«No, penso che dovremmo aprire.»
«Andiamo in sala operatoria e decidiamo lì.»
«Se non apriamo il cranio, sarà tutto un'incognita. È un rischio troppo grande.» Replicai riportando lo sguardo sul tablet quando uno strano tintinnio mi fece risollevare il capo. Vidi il tizio sorridente che teneva il coltello sporco di sangue, come un trofeo. Restammo a fissarli con espressione inebetita...
«L'intervento è stato un vero successo! Non è stato difficile, quindi noi andiamo.»
«Mia moglie non mi lascia entrare se torno tardi, sapete?»
«E non ci ringraziano nemmeno, dai!» Risero a crepapelle battendosi un'altra volta il cinque.
«Il conto, per favore!»
Lo prese sottobraccio per accompagnarlo verso l'uscita, dicendogli che glielo avremmo mandato direttamente a casa. Erano dei pazzi. Lo staccai dal compagno e riportai sulla barella, nonostante le proteste biascicate che mi porgeva. Ora che il coltello era stato estratto, poteva aver subito danni celebrali...
Federica
Staccai la telefonata con Giovanni senza ascoltare minimamente la risposta. Alla vista di Riccardo, mi alzai, ma mi afferrò il braccio.
«Federica...» Si fermò di fronte a me. «Per quanto tempo mi terrai il muso?»
«Non so di cosa stia parlando. Ho appena preso un caffè...»
Lasciò la presa e infilò le mani nelle tasche. «Gaia sta bene. Immaginavo che volessi sapere che sta meglio.»
«Grazie.»
Oltrepassai la sua figura per dirigermi dalla ragazzina. Entrai e vidi il padre, che si alzò dal letto, rivolgendomi un sorriso.
«Come stai, Gaia?»
Mi guardò con occhi stanchi.
«Sto meglio...»
Gettai un'occhiata al monitor. «Altri venti minuti di ossigeno e dopo potrà andare.»
Il padre sorrise e le accarezzò la guancia informandola che l'avrebbe fatto sapere alla madre che era in pensiero. Gli rispose un flebile "va bene" e mi ringraziò, uscendo.
Mi accomodai sul bordo del letto.
«Posso chiederle una cosa? Cosa c'è che non va in mia madre? Perché dite che è così malata?»
«Non preferiresti chiederlo ai tuoi genitori?»
Fece spallucce, abbassando gli occhi. «Se lo chiedo a loro mi mentiranno sicuramente. Mi dicono sempre che va tutto bene, ma è una bugia.»
Presi un sospiro. «In gravidanza il cuore pompa per due persone, ma il cuore di tua madre non può sopportare tanto sforzo.»
«E morirà?»
Le accarezzai dolcemente la gamba da sopra il lenzuolo.
«Non preoccuparti, ci occuperemo noi di lei. Andrà tutto bene.»
Tirò su con il naso. «Fa questo per me, lo sa, vero?»
«Certo che lo so. Una madre farebbe qualunque cosa per i suoi figli.»
«E mio fratello?»
«Tuo fratello?»
Annuì lasciando scivolare una lacrima. «A volte i miei genitori si dimenticano di lui, è come se non vivesse a casa con noi.» Strizzò le palpebre. «Non è giusto che si occupino solo di me.» Li spalancò guardandomi, lasciando trasparire una muta tristezza. Si sentiva un fardello per la sua stessa famiglia e la causa di quello che stesse accadendo, ma non era colpa sua se stava combattendo contro la malattia.
«Gaia...» Allungai la mano e, con il pollice, asciugai quelle lacrime salate. Incrociai i suoi occhioni.
«I tuoi genitori ti dedicano più attenzioni perché sei malata. Sono sicura che farebbero lo stesso per tuo fratello.»
«E come sarà la vita di quel bambino? Non voglio che stia male per colpa mia. Voglio che siamo una famiglia normale.»
«Hai detto a tua madre come ti senti?»
«No.»
«Dovresti farlo. Dille come ti senti.»
Tirò fuori le mani dal lenzuolo e afferrò la mia. «Può dirlo lei? Le dica di non farlo per me. Per favore, dottoressa Federica. Non voglio che muoia» Rafforzò la presa, guardandomi con occhi intrisi di sofferenza e altre lacrime le sgorgarono. Un magone mi annodò lo stomaco. Inumidii le labbra e mi spinsi in avanti per accogliere quel fragile corpicino in un abbraccio.
Non so quanto avrei potuto fare in una situazione del genere, era già una grande lottatrice di suo. La sentii singhiozzare sulla mia spalla e feci scorrere le mani su e giù per la schiena.
«Andrà tutto bene, tranquilla...»
[...]
Salutai con un cenno del capo la paziente mentre Riccardo controllava il tracciato.
Ma la situazione purtroppo era destinata a peggiorare. Di questo passo, l'intervento chirurgico sarebbe stato inevitabile.
«Che succede?» domandò il marito notando le nostre facce.
«Il cuore peggiora. Dobbiamo intervenire e operare per pompare sangue.»
«E il bambino? Non sarà dannoso per lui?» insisté la donna.
«Probabile, ma se non lo facciamo, dovremo intubare e attaccarla al respiratore.»
«Ok, facciamolo subito.»
«Non capisce.» Intervenni io. A quanto pare la donna non aveva ben chiaro la sua situazione.
«Devete mettere un tubo? Qualsiasi cosa, ma fatelo subito.»
«Se lo facciamo, entrerà in stato vegetativo. Sarà un coma irreversibile.» spiegai. La donna si voltò verso il marito rimasto accanto al capezzale.
«L'unica cosa che possiamo fare è intervenire. Chiamerò per fare preparare la sala operatoria.»
«Succederà qualcosa al bambino? Voglio dire, se entro in coma...»
«Che stai dicendo?» la ammonì l'uomo ma la moglie non aveva intenzione di mollare.
«Forse, ma le probabilità sono minime.»
«Va bene, questo mi basta.» Affermò la donna irremovibile sulla sua decisione.
«Non credo abbia capito il punto.»
«L'ho capito invece, siete voi che non capite. Porto dentro di me la cura per il cancro di mia figlia.» Riccardo mi suggerì di lasciarli da soli e facemmo l'atto di uscire.
«Non c'è niente di cui parlare. Ne abbiamo parlato, andremo fino in fondo. Quando sarà il momento, inducetemi il coma.»
Osservai il marito, quel poverino che a stento aveva aperto bocca di fronte alla ferrea determinazione della donna di volersi condannare a morte.
Ma quello poteva essere un sacrificio troppo grande. Cosa ne sarebbe stato dei bambini quando la loro madre sarebbe morta? Decidemmo di uscire e mi appostai contro il muro, prendendo qualche respiro.
Non era la soluzione... andare in coma, e che ne sarebbe stato della sua famiglia, di quei tre bambini che amava e che voleva proteggere ad ogni costo?
«Non possiamo permettergli di farlo.»
«Non possiamo costringerla a fare l'operazione.»
«E resteremo a guardare mentre si suicida?» ribattei.
«Non è così facile. Non lo vede come tale, ma come la salvezza di sua figlia.»
«Sta lasciando due bambini senza madre!» Esclamai voltandomi di scatto nella direzione dell'uomo. «Davvero non proverai a convincerla?»
«Gaia guarirà dalla malattia.»
Sbuffai. «Ascolta, Fede...» Guardai il pavimento, stringendomi nelle spalle. «So che ultimamente hai dovuto sopportare parecchie cose molto difficili: la morte di Maddalena, il problema di Marco. Credo che tu debba prenderti una pausa.»
Spalancai la bocca, staccandomi automaticamente dal muro. «Certo che sì! Chiudiamo anche l'ospedale e ce ne andiamo tutti a casa, che ne dici? Sono l'unica ad essere stata colpita da questa situazione! E allora tu?»
«Non ho detto questo.»
«Pensi che sia stata colpa mia oppure mi sbaglio?»
«Non dire sciocchezze, Fede. Questo non è vero.»
«Fai l'operazione. Sai che ci sono altre alternative.»
Mi spostai per ritornare nella stanza della paziente e Giovanni mi venne incontro.
«Ehi, ti stavo cercando...»
«Arrivi tardi, Rinaldi.»
Ero irritata e senza far caso mi chiusi la porta alle spalle.
Mi mandava in bestia che pensassero mi servisse una pausa quando ero perfettamente in forma e in grado di prendermi cura di chiunque qui dentro.
[...]
La situazione in un attimo si complicò e dovetti informare il dottor Gentile che si precipitò s
nella stanza. La pressione arteriosa si era abbassata e l'ossigeno era sceso a ottanta. La donna era irremovibile sulla sua posizione di prima e nemmeno il marito che si era reso conto del rischio riuscì a farla desistere.
La ragazzina le afferrò la mano, supplicandola con le lacrime agli occhi. «Mamma, non farlo!»
«Andrà tutto bene. Ti prometto che andrà tutto bene.»
«No, non andrà bene! Niente andrà bene.»
«Un giorno capirai che l'ho fatto solo per farti stare bene. Devi fare tutto quello che ti sei prefissata nella vita.»
«Io voglio te! Non voglio nient'altro. Mamma, per favore, resta con me. Ti prego, non andartene!» Abbassai gli occhi, quelle stesse parole le avevo pronunciate anch'io, tempo fa, quando avevo vista mia madre in bilico tra vita e morte. Ma mi aveva già abbandonato smettendo di lottare.
Il rumore acustico della macchina attirò la mia attenzione. La pressione era scesa a sette. Non c'era tempo.
«Signora, ci lasci operare o dovremo intubarla subito.»
«No, no, no! Non intubatela!» Gridò la ragazzina scattando in piedi. «Per favore, dottoressa. Non lo faccia!»
Scrutai il viso di Riccardo, sembrava sovrappensiero.
«Ci sarebbe un altro modo.» Annunciò curvandosi in avanti. «Posso provare a operare senza bypass. È un'operazione complessa, ma posso usare un anticoagulante per non danneggiare il bambino.»
«E potrebbe... salvarci entrambi?»
«L'operazione ha dei rischi e devo dirle che se la situazione si complica, io salverò lei. Non il bambino.» Scosse il capo sul cuscino e la ragazzina tornò a supplicarla di fare quello che dicevamo, continuando a singhiozzare. La donna guardò i suoi familiari poi Riccardo, infine si limitò ad annuire. Tirai un sospiro di profondo sollievo. «Dico che preparino la sala operatoria.»
«Prepariamo la paziente.»
Uscii. Per fortuna, aveva deciso di darci retta per il bene dei suoi figli e per il suo.
[...]
«Ascoltate, il sangue deve essere aspirato continuamente. Il polso non ci deve tremare in alcun momento. Il nostro conto alla rovescia inizia col primo taglio. Siamo pronti?»
L'equipe accerchiava il tavolo operatorio, bardata di ogni indumento protettivo.
«Sì, pronti!»
«Bene, cominciamo.»
Si mise subito all'opera concentrato e intanto facevo fatica a vedere, c'era sangue ovunque, era un lago.
Il suono acustico delle macchine echeggiò febbrilmente nella sala operatoria.
«Il polso del bambino è centoventi e la pressione della madre sta scendendo.»
«Mi servono 45 secondi!» esclamò il mio mentore.
Guardai i valori sul monitor.
«Il polso del bambino è sceso a 98. Lo stiamo perdendo.»
«Non ancora.»
«La madre non risponde.» Disse l'infermiere.
«Stiamo perdendo anche lei!»
«L'ho preso!» Annunciò.
«Il battito è sceso a 65...»
«Dottore» Mi girai di scatto. «Dobbiamo estrarre il feto e liberare il cuore. Non reggerà ancora per molto.»
«C'è troppo sangue.»
«Possiamo salvare ancora la madre. Dobbiamo tirare fuori il bambino.»
«No!» Dissentì.
«Riccardo!»
«Ho detto di no, Fede. Ci siamo quasi.»
Il battito del bambino, nel frattempo, era calato addirittura sotto i cinquanta. Andare avanti era una follia. L'infermiera gli chiese cosa fare. La nostra unica possibilità era fare la cosa giusta.
Sostenni il suo sguardo per parecchi secondi, in religioso silenzio, ma con caparbietà, aspettandomi un suo cenno.
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