Capitolo 11.3 - Niente sarà più lo stesso

Federica

Alessia...

Mia sorella.

O sorellastra.

Non ci vedevamo da tanto, forse da più di undici anni. Adesso aveva addirittura una figlia ed era quella bambina che a momenti stavo per investire.

Era così surreale. Smisi di rimuginare sulla faccenda per raggiungere il reparto di Neonatologia e chiesi all'infermiera se la neonata si trovasse lì. Mi indicò la nursery e mi avvicinai alla culletta con il lenzuolo rosa. Mi voltai un'altra volta, riprendendo a pensare all'incontro di qualche minuto fa. Dovevo togliermelo dal cervello il prima possibile, avevo altro di importante a cui pensare e sotto lo sguardo esterrefatto uscii trasportando la culletta. Presi in braccio la creatura fragile e alzai gli occhi incrociando quelli commossi del moro. Gianmarco mi cinse i fianchi aiutandomi a salire sulla pedana.

«Le ho portato la sua principessa.»

Gliela accostai per fargli ammirare quel visetto paffutello, le guance rosee e gli occhietti scuri che aveva da poco spalancato, iniziando a fare dei piccoli versetti con le labbra.

Sollevò leggermente il collo. «Lei... è così bella!» Sorrisi. «Mi dispiace, tesoro mio. Mi dispiace per quello che è successo. Farò in modo che tu e tua madre lo dimentichiate. Rimarrò sempre al tuo fianco. Te lo prometto. Ti amo, mia principessa.»

Gliela avvicinai e le depositò un bacio sulla testolina.

«Se ci crede quando me, allora iniziamo.» Lui annuì. Mi girai consegnando quell'angelo all'infermiera e farla riportare dentro. Dopo quel momento dolce, Giovanni ordinò di procedere iniettando duecento milligrammi di ketamina e intanto abbassai lo sguardo.
Mi spostai leggermente.

«Non vada via» mi pregò.

«No, resto qua.»

«Portare qui mia figlia non è stata una buona idea.»

Inarcai un sopracciglio. «Perchè?»

«Perchè se qualcosa va storto e dovessi morire... giuro che mi incavolerei moltissimo con lei.»

Increspai un sorriso. Eravamo della stessa opinione entrambi. «Mi creda, anch'io. Anch'io lo sarei tanto.»

Controllai i tubicini e le varie sacche. Non sarebbe stato come tutti gli altri interventi che avevamo avuto, in un ambiente sterile ed esisteva un'altissima probabilità che fallissimo, ma ci saremmo impegnati al massimo.

«Siamo tutti pronti?» Chiese il mio superiore Gentile.

«Pronta.» Sistemai la mascherina chirurgica sulla bocca e sul naso.

«A parte le stranezze della dottoressa Andreani, va tutto benissimo. Siamo pronti.» Rispose Giovanni lanciandomi un'evidente frecciatina e girai il viso. Tirai giù la mascherina e socchiusi le palpebre.

Mi ritrovai a pochi centimetri dal ragazzo sfacciato. «Concentrati piuttosto su Luigi. Non sono io ad essere stata ferita.»

«Tu pensi? Che buffo. Penso che ti stai sbagliando.»

«Che vuoi dire?»

«Posso concentrarmi su due cose contemporaneamente, tranquilla.» Sospirai. «Ma che tu non sia strana... è un fatto discutibile.»

Stavo per aprire la bocca e intimargli di non intromettersi, ma il dottor Gentile ci ammonì. «Smettetela, ragazzi. La pressione sanguigna e i segni vitali sono stabili. Dobbiamo iniziare il prima possibile.» Si era salvato in calcio d'angolo dato che avevo ben altra priorità e non di discutere di quelle stupidaggini dinanzi ai presenti. Si allontanò un secondo per sgrombrare il percorso da eventuali ostacoli. «Che voleva dire prima?» domandò.

«Chi lo capisce è bravo, dottore.»

«Entra direttamente dall'arteria renale».

«D'accordo. Servono altre garze.» La tempestività giocava un ruolo essenziale in quel frangente oppure i nostri sforzi sarebbero stati del tutto vani. Non potevamo sbagliare e compromettere il lavoro. «Dobbiamo essere veloci, dottore. Non ci rimane molto tempo»

«La parete toracica è fratturata. Metti un'ultima pinza.»

«Sì, lo faccio.» La pelle non doveva cedere quando avremmo rimosso la barra. «Ok, sì, ci sono.»

Calai la mascherina sotto il mento, ponendo le mani sui fianchi dopo aver posizionato l'ultimo morsetto.

«Dobbiamo assicurarci che le pinze non cadano quando toglieremo il pezzo.»

L'operaio annuì. «Ok, ho capito.»

«Siamo pronti a suturare la ferita?» Stavolta si rivolse a me.

«Pronti...»

«Grandioso. Quando avremo rimosso la barra metallica dallo stomaco, avremo cinque minuti per raggiungere la sala operatoria. Se non arriviamo entro questo tempo limite, sarà stato tutto inutile e il paziente morirà, capito?»

Conoscevamo i rischi fin dal principio, ma non potevamo arrenderci alla prima difficoltà. Giovanni tornò, informando che il tragitto era libero e aveva istruito un gruppo di infermieri chiedendogli di non lasciare le proprie postazioni e sorvegliare la zona. L'operaio mise in funzione la roditrice e il ronzio mentre lesionava il ferro coprì il silenzio. Dopodiché, il dottore afferrò il pezzo e lo estrasse con cautela. Poi me lo consegnò. Il paziente venne prelevato e adagiato su una barella.
Ci fiondammo immediatamente verso l'entrata principale, trasportandola nell'atrio e poi per i corridoi. I piedi schizzavano sul pavimento e il cuore batteva così tanto che a momenti lo sentivo in gola. Ogni infermiere collaborò per tenere aperto un varco, le guardie tennero lontani la folla di curiosi. Arrivammo di corsa dalle parti degli ascensori, ma ci aspettò una tragica sorpresa. Gli apparecchi emettevano dei bip assordanti.

«Dov'è l'ascensore? Wax, dove sta Gianmarco?!»

«Non lo so, dottore.»

Giovanni si spostò. «Chiamate, chiamate! Svelti, premete quel pulsante!»

Che potevamo fare se l'ascensore non arrivava più?

«Il polso sta scendendo!» Informò il dottor Gentile e il panico mi investì. Le porte metalliche all'improvviso si riaprirono e restammo tutti immobili come statue di pietre ad osservare un Gianmarco visibilmente nervoso nella cabina che si mangiava le mani.

«Forza, Gianmarco, esci, esci, esci!» Si fiondò fuori beccandosi un'occhiataccia truce da Giovanni e trascinammo dentro la barella, premendo il pulsante. Riuscimmo finalmente a raggiungere il blocco operatorio ed entrammo spediti nella sala operatoria libera. Tutta quella fatica ne era valsa la pena e lasciai Luigi nelle mani di altri ventordici colleghi. Il dottor Gentile tolse il disturbo dichiarando di avere un altro paziente di cui prendersi cura. Avevo bisogno di togliermi i guanti, liberarmi di tutta la tensione che avevo accumulato e mi incamminai per andare verso l'uscita dalla parte opposta.

«Possiamo parlare adesso?»

Tentò un approccio.

«Sono stanca.»

Trovai una scusa plausibile e distolsi lo sguardo dal suo.

«Spiacente, ma stavolta non mi interessa, Federica. Voglio sapere che stai succedendo.»

«Abbiamo tenuto in vita un paziente tutto il santo giorno. È stata molto dura per me. Ti prego, non insistere.»

«Sì...» Alzai la testa di scatto per incastrare i suoi occhi cobalto. Quindi, perché continuava a insistere oltre? M'infastidiva con quel suo essere petulante. «È vero, e allora?»

«Voglio stare da sola. Non seguirmi.» Gli intimai riprendendo a camminare.

«Non merito questo tuo atteggiamento, Federica.» Si venne a posizionare di fronte a me e mi fermai. «Cos'è successo dopo il funerale? Mhm? Dove sei andata? Dimmelo, per favore.»

«Ho scoperto una cosa e volevo esserne sicura. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, contento?»

«E ci hai parlato?»

«No» risposi seccata.

«Raccontami.»

«Giovanni, sono stufa marcia delle tue domande. Non hai fatto altro che impicciarti di me da quando hai messo piede qua! Appena scoprirò qualcosa te lo farò sapere, d'accordo?»

«Scopriamolo insieme. Lascia che ti aiuti, Fede.» Avanzò di un altro passo in avanti verso di me costringendomi a indietreggiare.

«Non puoi.»

«Per quale motivo?» domandò facendo spallucce.

«Perchè poi ti pentiresti di avermi aiutata».

«Mi pento solo di averti lasciata andare in passato.» Roteai gli occhi distogliendo di scatto la testa. «Quanto sei salita su quella maledetta moto e te l'ho lasciato fare senza fermarti.»

«Vuoi davvero aiutarmi, Gio?»

«Sì, lo voglio.»

«Allora allontanati da me! Lasciami in pace, capito?»

Osservai i suoi occhi spegnersi lentamente, sprofondando nell'incertezza, ma il mio non era  un capriccio passeggero. Volevo che quel concetto gli si inculcasse in testa. Qualsiasi cosa ci fosse stata fra di noi non aveva importanza. Era acqua passata.
Esisteva una distanza che ci divideva e niente avrebbe potuto colmarla, nemmeno quel sentimento che provava. Non eravamo in grado di affrontare tutto questo senza ferire l'uno o l'altra con i mostri del passato.

Sembrò capirlo. «Bene...»

Senza dire altro, se ne andò senza guardarsi indietro e mi dissi che era meglio mettere un punto definitivo a quella storia infinita, non saremmo andati da nessuna parte. Fissai il vuoto con gli occhi annebbiati abbassandoli un po' verso il pavimento e dopodiché sfilai i guanti sporchi, scaraventandoli nel cestino.
Sbattei le palpebre per scacciare via quella sensazione.

Non sopportavo di piangere, lo avevo fatto troppe volte e non era servito a granché.

[...]

Il battito del mio cuore aumentò a dismisura non appena raggiunsi l'atrio deserto, eccetto per una figura ferma ad osservare le due immagini commemorative accanto alla reception. Mi immobilizzai per scrutarlo. Non lo avrei mai pensato come sospettato di un azione così aberrante nei confronti di una perfetta sconosciuta, modificare un rapporto per coprire un assassinio... per proteggere il colpevole. Giovanni si fidava di suo padre, aveva molta stima di lui e invece quell'uomo lo aveva tradito alle spalle. Era un dottore dagli alti principi morali, si era sacrificato per le vite umane in quest'ospedale, perché si era abbassato a tanto? Per i soldi? Si era venduto come mio padre?

Quel mare di dubbi mi avrebbe inghiottito se non avessi trovato un appiglio stabile a cui aggrapparmi.

Perché lo aveva fatto? Non pensava a suo figlio? Non pensava a quella povera signora che non c'entrava nulla?

Non l'aveva mai vista in vita sua, eppure aveva distrutto due vite quel giorno. Non solo quella della mia cara nonna.

Mi avvicinai con le mani nelle tasche e l'intenzione di scoprire tutta la verità. «Signor Rinaldi» Mi fermai di fronte all'uomo.

«Federica...»

«C’è una domanda che vorrei farle. Devo scoprire una cosa.»

Mi osservò stranito. «Certo, chiedimi pure, figliola.»

Non c'era spazio per l'incertezza. Sganciai quella bomba senza giri di parole.

«È coinvolto nel caso del report modificato di mia nonna?»

Restò di sasso senza aprire bocca. Girò il collo in un'altra direzione ma io non persi di vista i suoi occhi nemmeno per un istante. «Senti» Tornò a guardarmi. «Sei esausta. Hai lavorato senza sosta oggi. Il paziente sta bene ora. Va a casa e riposati. Possiamo parlarne domani con più calma.»

«Sto benissimo. Voglio solo una risposta alla mia domanda.»

«Ti rendi conto di ciò di cui mi stai accusando, Federica?»

«La risposta è semplice. Basta dire sì o no.» Lo misi alle strette. Si specchiò nelle mie iridi scure e io nelle sue. «Non sembra molto facile per lei. Se vuole posso chiedere aiuto...» Alzò il mento. Ma non mi spaventava. «Facciamo venire Giovanni. Forse è più facile rispondere a lui» L'uomo continuò a fare scena muta, senza ribattere.
Ma stare in silenzio e non dare alcuna spiegazione equivaleva ad ammettere di non essere totalmente innocente...

Molto bene, in caso contrario, avrei preso provvedimenti.

[...]

Oltrepassai una porta, proseguendo nel corridoio con la testa immersa nei pensieri caotici.

Le parole di Giorgio Rinaldi echeggiavano nel mio cervello da qualche minuto. Lo avevo affrontato, chiedendogli se c'entrava con la morte di mia nonna, se era stato un complice dei colpevoli e aveva agito per proteggerli. Mi aveva pregato di non coinvolgere suo figlio in quella storia e ribadito che la morte di mia nonna era stata frutto di una sfortunata coincidenza. Non c'era stato lo zampino di nessuno, compreso il suo. Poi aveva aggiunto che se non gli credevo, avrei potuto chiedere all'altro medico che aveva presenziato all'operazione. Gli avevo risposto che mi stava mentendo, oltretutto lo faceva guardandomi negli occhi, che in qualche modo ero parte della sua famiglia così come Giovanni era della mia, e si offrì di accompagnarmi a parlare con questo medico che conosceva. Avrebbe trovato il numero nella sua agenda. Entrai nel pronto soccorso - movimentato a tutte le ore - e notai Giovanni vicino ad una barella che studiava il tablet nelle sue mani. Ordinò di dare il lorezapam e poi tirò su le maniche verso gli avambracci per mettere a posto il naso, a quanto pare aveva l'osso rotto e dislocato.

«Che succede?»

Mi avvicinai a loro. Udendo la mia voce, si girò verso di me ma ignorò la domanda come se non avessi proprio parlato.

«L'ha trovato Mattia, dottoressa. Dev'essersi trattato una rissa finita male.» spiegò il rosso.

Squadrai il biondino accanto a lui e poi abbassai lo sguardo fino a soffermarmi sulla mano, — più precisamente le sue nocche, — che nonostante i guanti, erano scorticate e sanguinanti, come se avesse colpito duramente contro qualcosa. Oppure, qualcuno. Alzai la testa d'impeto, vedendo il suo aspetto trasandato, gli occhi arrossati, la puzza di alcol che trasudava dai vestiti e la barba incolta che gli ricopriva il mento. Si era spinto oltre quel limite? Era pazzo?

Giovanni rassicurò il paziente che mugulò quando gli mise posto il setto nasale. Osservai quel particolare che aveva catturato la mia attenzione e anche Mattia mi riservò una rapida occhiata.

«Possiamo portarlo via.»

«Vado a controllare che la sala per la TAC sia libera.» affermò e mi mossi imitandolo per chiarire quel dubbio, ma più che altro era un'evidente constatazione.

«Mattia.» Si fermò. «Possiamo parlare un momento?»

«No, non adesso.»

«Mattia.» Giovanni intervenne. «Resta qui e ascolta ciò che ha da dirti la dottoressa.»

«Che c'è che non va?!» sbottò divaricando le braccia nervoso.

«Hai bevuto. La polizia scoprirà cos'hai fatto.»

«Cosa avrei fatto di sbagliato? Ho soccorso un uomo ferito in mezzo alla strada.»

«Le tue mani.» Abbassò lo sguardo. «Si nota anche dai guanti. Perché l'hai fatto?»

«Non sono affari suoi.» ringhiò.

«Senti, sto solo cercando di aiutarti. In caso contrario, dovrò fare rapporto al dottor Rinaldi.»

Mi fissò di sottecchi, sfoderando un ghigno a tratti compiaciuto. «Ma che gentile. Cerca di aiutarmi? Vada pure a fare rapporto a chi vuole! Poi la polizia mi sbatterà in prigione. Mi toglieranno la laurea in medicina. Oh... ho tanta paura!» Finse di tremare e alzò le mani. «E voi continuerete a vivere felici come quello psicopatico che sta di sopra! Come l'assassino di Maddalena. Vive tranquillamente senza avere la minima idea dell'atrocità che ha fatto!»

«Le cose non sono semplici. Tutti prima o poi pagheranno per quello che hanno fatto.»

Accennò un altro sorrisetto, torreggiando sulla mia figura minuscola. «Ne è sicura lei? Non sembra che stia pagando...»

«Non sei lucido.»

Avanzò di un altro passo.
«Ha parlato la "donna perfetta". Mi lasci dirle una cosa, dottoressa... Andreani.» Fece una pausa e lo guardai negli occhi. «Nessuno è perfetto in questa vita.» Mi puntò contro l'indice. «Neanche lei.»

Feci un cenno affermativo con un capo. «Lo so. Non ho mai detto di essere perfetta. Sono un essere umano.»

«Grandioso...» Un sorriso inquietante gli si disegnò sulle labbra. «Siamo d'accordo.» Poi mi piantò lì e si fiondò fuori al pronto soccorso.

Non sembrava lo stesso ragazzino voglioso di imparare e di assistere agli interventi, ma un uomo frustrato che non aveva nulla da perdere. Gli stretti alle costole e appena lo vidi dirigersi agli ascensori, corsi per prendergli il braccio. Non mi piaceva il suo atteggiamento. «Dove stai andando?»

«Mi lasci in pace. Non mi tocchi!»

Si divincolò ed entrò nella cabina che poco dopo si serrò. Cercai di fare un passo quando mi sentii chiamare. Giovanni mi raggiunse e mi voltai.

«Ho capito che qualcosa non va. Il paziente è stabile e gli stanno facendo una Tac.»

«Lo ha colpito lui. E ha detto altre cose strane. È ubriaco.»

«Lo so, è ubriaco marcio.»

«Si metterà nei guai. Credo che stia andando da Marco.»

Premetti il pulsante per richiamare quell'ascensore un'altra volta, ma era tardi.

«Tranquilla, calmati. Mi occupo io di quel ragazzino sconsiderato, ok?» Appoggiò la mano sul mio braccio. In realtà, non mi risultava facile starmene con le mani in mano e lasciarlo fare a qualcun altro. Giovanni mi prese per le spalle quando tentai di superarlo. Mi scrutò di sottecchi. «Fede, ti ho detto che me ne occupo io, punto e basta. Per favore, ascoltami una buona volta. Tieniti fuori da questa faccenda. Me ne occupo io, tranquilla.» Tentò di pigiare il pulsante, ma non serviva. Mi guardai in giro e sfrecciò via.

Un'infermiera venne nel mio ufficio per informarmi che la polizia chiedeva di Mattia per rilasciare delle dichiarazioni in merito all'aggressione, ma non rispondeva alle chiamate. Le dissi che me ne sarei occupata subito, senza allarmare i piani alti. Lasciai la postazione e, nel frattempo, vidi il ricciolino transitare come se niente fosse nel corridoio.

«Enne?»

Era evaso dall'ospedale qualche giorno fa, nonostante non avesse terminato a dovere tutte le cure, e ora che faceva qui? Che altro stava combinando quel cretino?

Non si era degnato di mandarmi un messaggio, telefonarmi o avvisare che stesse bene...

Mi era scattato in testa un campanello d'allarme e decisi di tallonarlo. Ormai non facevo altro. Perché era ritornato dopo aver avuto la sfacciataggine di andarsene senza nemmeno una spiegazione decente. Ero incazzata.

«Nicolò De Girolamo! Mi devi una spiegazione.» Lo fermai.

«Dottoressa, ci si rivede...» rispose con tono da sbruffone e avrei voluto mollargli un ceffone.

«La smetti di fare lo scemo e dimmi perché sei qua».

[...]

Saputo - dopo averlo messo con le spalle al muro - mi catapultai in una sala della terapia intensiva e lì trovai il dottor Gentile in procinto di operare un ragazzo con alcuni colleghi.

«Dottor Riccardo!» Esclamai. Si voltò perplesso, intento ad indossare i guanti. Lo guardai di sbieco. Spostai gli occhi sul giovane sedato, a cui avrebbe dovuto rimuovere un diamante nascosto nello stomaco, e tornai sul mio mentore con in sottofondo il fischio del macchinario cardiaco. A quel punto, raccolse il bisturi e si accinse ad incidere. «Riccardo, si fermi!» Mi accostai per afferrargli il braccio e invitarlo a non farlo per il suo bene, oltre che per la sua carriera. «Non glielo lascerò fare!»

«Fede, esci da qui!» mi intimò con tono autoriato.

«Interrompete l'operazione. Non si farà, mi avete capito?»

«Parleremo quando avrò finito.»

«Parlaremo? Non c'è niente di cui parlare. Nicolò mi ha spiegato tutto. So cosa sta facendo.»

«Non è quello che pensi tu.» Si rivolse poi alla squadra che aspettava i suoi ordini. «Continuiamo.»

Tornai ad agguantargli il braccio. «Riccardo, si fermi.»

Tirò giù la mascherina. «Fede, è in gioco la vita di un ragazzo. Se non lo aiutiamo subito, morirà. Non credo che tu voglia che ciò accada.»

«Si metterà nei casini.»

«Ti sbagli. La polizia sa tutto.»

«Cosa?»

«L'ho detto alla polizia. Mi hanno informato che stavano aspettando fuori, forse sono già arrivati qui. Quindi lasciami lavorare ed esci, per favore.»

Si mise all'opera e me ne stetti in disparte.

«Nicolò, lo sa che ha avvisato le autorità?»

«No, non lo sa.»

Continuò a chiedere garze e mi lanciò un'occhiata sbrigativa, mentre eseguiva un taglio netto all'addome. L'osservai con faccia contrita e braccia conserte.

Era una pazzia. Com'era finito ad assecondare un giro illegale?!







Giovanni

Accelerai il passo rendendolo una vera e propria corsa all'ultimo respiro nei corridoi. Scansai per un soffio un collega, per arrivare in fretta e furia nella camera. Spalancai di getto la porta inoltrandomi dentro, dove aleggiava una calma del tutto innaturale... e inquadrai il letto che era vuoto. La vista raccapricciante di Mattia che teneva in ostaggio il paziente, puntandogli un bisturi alla giugulare mi fece bloccare.

«Mattia!» Gridai tendendo il braccio verso di lui.

«Non si avvicini dottore o lo ammazzo!»

«Mattia, non fare niente di avventato. Lascialo andare. Ti prego, Mattia.»

Sfogare la rabbia su un ragazzo che a stento si reggeva in equilibrio sulle gambe e che mi guardava con gli occhi sbarrati chiedendosi il motivo, non era il modo giusto per metabolizzare la perdita di Maddalena.

«Il mondo è un posto molto ingiusto. La gente fa delle cose e poi nessuno glielo fa pagare. Per questo dobbiamo farci giustizia da soli. Non c'è altra scelta.»

Il terrore dilagava negli occhi del malcapitato che era immobile.

«No...»

Lo teneva braccato e non aveva alcuna intenzione di darmi retta. L'alcol in circolo non lo faceva ragionare, gli aveva fuso i neuroni. Rischiava di finire il resto dei suoi giorni in galera.

Ne valeva la pena?

Davvero, voleva rovinarsi la vita per così poco?

~ fine undicesimo capitolo ~


Non commentiamo la furia omicida di Mattia...*

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