Capitolo 11.1 - Niente sarà più lo stesso

Giovanni

Smisi di conversare con la mia ex alunna Angelina e il rosso, quando il signor Paolo Svevi, impettito e con gli occhiali da sole, ci passò accanto ma tirò dritto senza rivolgerci neppure uno sguardo o un saluto. Dopo di lui, anche il padre seguì lo stesso copione. Era strano che non avessero salutato il loro socio che, a differenza mia, sembrava non ci avesse dato peso. Ma io sì, non mi era parso normale il loro atteggiamento glaciale.

Tirai mio padre un po' in disparte per riferirgli quel dubbio che avevo in testa, sperando di trovare delle risposte.

«Papà.»

«Mhm?»

«È successo qualcosa tra te e il signor Enrico?»

Si guardò attorno e scrollò le spalle. «Niente, ragazzo...»

«Non vi siete rivolti parola in un giorno del genere, neppure un saluto.»

Eppure si conoscevano da tempi immemori e avevano stabilito di avviare insieme il progetto dell'ospedale che poi era stato costruito nel cuore della capitale.

Perché si comportavano da perfetti sconosciuti?

«Questo è quanto sta accadendo: la nostra amicizia e collaborazione ormai è ai ferri corti. Qualcosa si è rotto.»

«Che stai dicendo, papà?»

«Da oggi tutto cambierà.»

Inarcai un sopracciglio, dubbioso. «Papà. Mi spieghi cosa sta succedendo, per favore?»

«Non è il momento. Resta al fianco di Federica. Non lasciarla sola.»

Aspetta, perché nominava Federica?

«Cosa c'entra Federica con quello che ti ho chiesto?»

«In ospedale accadranno cose che la riguarderanno da vicino. È probabile che sarà la più colpita.»

Fissai i dintorni cercando la ragazza con lo sguardo, ma non trovai alcuna traccia.

Poggiai la mano sul braccio di mio padre lasciandolo in quel punto e fermai Angelina in procinto di andarsene, accompagnata da Gianmarco, Matteo e Tommaso diretti verso l'auto di quest'ultimo.


«Angelina.» La castana si bloccò per aspettarmi con l'aria stravolta, reduce dal pianto di prima. «Sai dov'è Federica?»

«Sarà rimasta dentro. Mi aveva detto di dover fare una cosa.»

«Cosa?»

«Credo volesse far visita alla madre.» ipotizzò. «Vedrà che tornerà presto. Come mai sembra preoccupato?»

«Non l'ho vista uscire.»

La castana annuì, reclinando in automatico lo sguardo a terra. «Credo abbia bisogno di tempo. Non sarà facile, professore.»

Quella perdita avrebbe segnato le nostre anime in modo indelebile e non l'avremmo dimenticato. Presi il cellulare dalla tasca e provai a rintracciarla, sperando che non avesse il silenzioso.
Ma squillò a vuoto, fino a che non partì la segreteria.

«Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La invitiamo a riprovare più tardi.» Riagganciai senza lasciarle messaggi come suggerito dalla voce metallica. «Merda.»

Guardai indietro e mio padre mi stava aspettando, così salutai Angelina e ritornai. Salimmo in macchina e mi accomodai al posto di guida. Dopo aver varcato l'entrata dell'ospedale, continuai imperterrito a tempestarla di chiamate ma il risultato fu sempre lo stesso.

Telefono spento o non raggiungibile.

«Non risponde.»

«Vorrà stare un po' da sola. È stata una giornata difficile.»

Mi fermai su due piedi vedendo le immagini delle due donne davanti al banco accettazioni, ricordate per essere state state le vittime della terribile sparatoria avvenuta ieri. Mi avvicinai a quella di Maddalena che sfoggiava un sorriso ampio sulle labbra e indosso il camice.

Non avrebbe dovuto morire in quella maniera. Non lo meritava.

Era sempre stata una brava ragazza oltre che studentessa modello, in fondo.

«Erano così giovani. Com'è potuto capitare una simile tragedia? Come?» Mi tolse le parole di bocca mio padre, esprimendo lo stesso sdegno che provavo io.

Non lo avevamo previsto purtroppo, ma non ci sarebbe stata un'altra occasione. Lo avrei evitato.

Nessuno avrebbe perso la vita...

«Non preoccuparti, papà. Non perderemo nessun altro. Staremo più attenti stavolta.»

Una voce rabbiosa destò la nostra attenzione e il signor Enrico scaraventare a terra il distintivo di un poliziotto e inveirgli contro di non aver svolto bene il lavoro per il quale li stava pagando profumatamente. Girai lo sguardo su mio padre, stupito quando me, che mi fece cenno di andare. L'uomo ammonì gli agenti uno per uno e abbassarono la testa.

«Chi non vorrà fare il suo lavoro, può andare in strada e rimanere. Non verrete assunti da nessuna parte in questa città, me ne assicurerò di persona. Intesi? Non sono accettate perdite di tempo. Datevi una regolata!»

«Enrico, okay...» Si voltò di scatto con l'espressione di un iceberg dirigendola su mio padre. «Basta. Calmati.»

«Restane fuori tu! Non ho chiesto la tua opinione.»

Fissai in contemporanea i due e allungai la mano per appoggiarla sulla spalla dell'altro.

«Signor Enrico, dovrebbe andare a casa e riposare. Ci penso io.»

Con rudezza, se la strappò di dosso seccato, facendomi capire di non voler essere toccato.

«È quello che hai sempre voluto, non è vero?»

«Come, prego?»

«Che ci facciamo da parte e ti lasciamo amministrare l'ospedale.»

«Basta, Enrico! Smettila! Vedi fantasmi dove non ci sono. Senti, capisco che stai soffrendo...»

«Non puoi capire!» Obiettò avanzando di un passo. «Non sai cosa significa perdere qualcuno...» Rivolse uno sguardo al sottoscritto. «Che è sangue del tuo stesso sangue. Quindi non venirmi a dire certe cose» Stava per voltargli le spalle, quando ebbe un ripensamento e gli puntò il dito. «E la nostra amicizia si conclude qua, Giorgio Rinaldi. Siamo soli soci.» Quest'ultimo alzò la testa incrociando lo sguardo arcigno di colui che a tutti gli effetti sembrava sul piede di guerra. «Per ora.» Mio padre strabuzzò gli occhi. «In quest'ospedale ci sarà sempre un solo capo. Non dimenticarlo.»

Dopodiché girò i tacchi e si allontanò spedito dall'atrio. Osservai mio padre rimasto pietrificato sul posto, non aspettandosi una simile dichiarazione e gli sfiorai il braccio per tentare di rassicurarlo. Dopo pensai a congedare i poliziotti e raccolsi il distintivo per consegnarlo a quello anziano, che aveva subìto la sgridata. Gli diedi una pacca al braccio e ripresero le loro mansioni. Serviva un po' di normalità e tranquillità soprattutto in questo periodo, dove non avevamo avuto altro che tragedie. Trovai il modo di far schiodare mio padre e mi seguì senza controbattere.

Federica

Le mostruose illazioni di quel bastardo mi circolavano nella testa. Mi sentivo imbambolata, confusa, con la testa proiettata in quella marea soffocante di ricordi. Guidavo, ma non abbastanza concentrata da fare attenzione a ciò che mi circondava, mentre stringevo il volante e le nocche sbiancarono. Mi tornò alla mente quel momento, il più orribile che avessi mai vissuto: quando Svevi con tutta la calma e compostezza del mondo mi aveva buttato addosso come una granata che mia nonna era morta quel maledetto giorno. Fu una doccia fredda, mi crollò tutto addosso, fu come ricevere una pugnalata a tradimento, le mie ultime speranze che avevo riposto in un nuovo inizio erano svanite in un attimo. Non mi arresi a quella fatalità e accusai mio padre e quella strega della moglie di aver montato quel complotto per ricevere i soldi dall'ospedale e tutto perché non c'era umanità nelle loro vene, ma solo veleno.
E ipocrisia. Tanta... ipocrisia.

Accelerai, schiacciando fino in fondo il pedale, sorpassando una vettura che procedeva sui cinquanta chilometri orari, dopodiché rientrai nella carreggiata, mantenendo a stento l'equilibrio con la musica a palla dallo stereo che invadeva l'abitacolo. Avrei voluto non pensare. Avrei voluto cancellare, fare tabula rasa di tutto il resto.

Giovanni voleva convincermi a perdonare l'uomo che mi aveva messa al mondo, non gli serbassi rancore, libertà di spiegarsi senza scappare, ma non poteva chiedermelo. La risposta che stava cercando da tempo era sgusciata fuori dalle mie labbra: sì, ero innamorata. Lo amavo. Nella mia vita non c'era mai stata una certezza a cui appellarmi per non finire nel baratro. Eppure mi fidavo ad occhi chiusi, se mi avesse chiesto di andare in mare aperto, l'avrei seguito.

Sai davvero chi è Giovanni?

Quelle parole.

Quelle semplici parole avevano spento qualcosa dentro di me.

Lui...è il figlio dell'uomo che ha modificato il rapporto di tua nonna. È il tuo caro suocero ad averti rovinato la vita...

Non potevo smettere di rimuginare sull'accaduto da quando ero fuggita dal cimitero, senza farmi vedere da nessuno.

«Non è vero.» bisbigliai più a me stessa. «Sei un bugiardo. Si è inventato tutto, per ferirmi.»

Ripresi a schiacciare l'acceleratore, tanto che la strada sterrata dell'entroterra si deformò e dovetti sterzare per non impattare con un tir che stava arrivando dalla direzione opposta. Le ruote stridettero sull'asfalto bruscamente, ma riuscì ad evitarlo per un soffio... riprendendo faticosamente il controllo. Emisi un lieve sospiro. Di sicuro, il tizio alla guida stava tirando giù tutti i santi del Paradiso, ma lo ignorai andando avanti per la mia strada. Non me ne fregava. Volevo solo che sparisse tutto quanto e che la velocità resettasse il cervello.

Imboccai un'altra strada. Il cellulare aveva squillato. Prima o poi, non mi avrebbe più cercato se lo avessi fatto sfiancare. Gettai una rapida occhiata al display, lanciandogli un'occhiataccia inquisitrice per farlo smettere. Mi stava facendo sanguinare le orecchie e poi inquadrai una palla rotolare in mezzo alla strada. La sagoma di una bambina entrò nel mio campo visivo e frenai stridendo di nuovo le ruote. Per lo spavento inciampò, colpendo le ginocchia, e dei ragazzini l'additarono sghignazzando. Tirai il freno a mano e spalancai la portiera di getto. La vidi raggomitolata su se stessa e la testa china all'asfalto.

«Guardatela, sta piangendo come una poppante! Gne, gne, gne.» la schernì un bambino che, a quanto pare, trovava divertente prendere in giro qualcuno. «Lo dicevo che giocare a calcio non è per le femmine. Che schiappa!»

«Ehi!» Esclamai con l'intenzione di attirare dei teppistelli. «Non vi vergognate, eh? È meglio che torniate a casa. Coraggio!»

«Oh, ma che paura. La signora si è arrabbiata.»

Risero mentre la bambina continuava a singhiozzare con i pugni stretti sugli occhi. Li guardai in malo modo, lanciandogli un avvertimento per poi raccogliere la palla e scaraventandogliela contro, riuscendo a colpirlo sul naso.
Urlò e scoppiò in lacrime, correndo via e trascinandosi dietro anche la banda di sciocchi.

«Che roba, oh...»

La piccolina non aveva smesso un secondo di frignare e mi abbassai alla sua altezza.

«Fa' vedere, ti sei fatta qualcosa?»

«No, no...»

Sorrisi avvicinandomi. Si era nascosta il viso con le braccia e gliele spostai leggermente, costringendola ad aprire i suoi occhioni lucidi e fissarmi.

«Dai, non piangere. Quei bambini cattivi se ne sono andati. Ti fa male?»

«Un po'.» rispose singhiozzando.

«Un po', come? Tanto?»

«Sì...»

Mi rialzai, porgendole la mano per aiutarla a rimettersi in piedi. Inquadrai il ginocchio, si era graffiato. «È una piccola escoriazione. Guarirà presto.»

«Come fai a saperlo?» Domandò con una vocina sottile.

«Semplice, sono un medico.»

«Curi tanti bambini?»

«Sì, tantissimi, proprio come te.»
Per non rimanere lì in mezzo, l'accompagnai verso una panchina e si sedette. Bagnai il fazzoletto sotto una fontanella e le disinfettai la ferita: «Direi che manca solo una cosa.»

«Cosa?»

«Dovrei avere dei cerotti per le situazioni di emergenza. Aspettami qui.»

A quel punto, mi diressi verso la macchina. Aprii lo sportello dal lato del passeggero e controllai il cruscotto. Trovai un paio di cerotti con delle fragoline. «Eccoli!» Esclamai per poi tornare dalla piccola "paziente". «Direi che abbiamo finito.»

Glielo applicai e piegò leggermente il ginocchio.

«Una fragolina?»

«Ti piace?»

«Sì!» Esclamò mostrandomi un sorriso radioso. «Grazie, signorina dottoressa.»

«Non c'è di che. Come mai eri in mezzo alla strada?»

La bambina aveva dei tratti somatici delicati, il nasino a punta, una spruzzatina di lentiggini sul naso e degli occhioni enormi.

«Volevo giocare con i bambini, ma la palla è finita in mezzo alla strada e hanno mandato me a prenderla. Dicono sempre che le bambine non dovrebbero giocare agli sport dei maschi. Se non fosse arrivata lei... avrebbero continuato a prendermi in giro.»

«E tu non far caso a quello che ti dicono. Nessuno potrà mai dirti cosa devi fare.»

«Sì, ha ragione...»

Abbassò il capo sulle gambe che continuò a far dondolare su e giù.

Sembrò un deja-vu, strano...

Un tuffo imprevisto nel passato.

«Quante volte ti ho detto di non andare nel bosco? È pericoloso... fragolina!»

«Volevo nascondermi così non mi avresti vista! Uffa! Stavo per batterti a nascondino la prima volta!» Le cinsi le spalle col braccio per sostenerla, dato che zoppicava. Se non fosse stata così testarda da inoltrarsi in quel posto. «Saranno in pensiero.»


Purtroppo non ebbe ragione, dato che quella megera mi accusò di averle causato quella ferita di proposito... e che ero un mostro, un demonio di cui voleva sbarazzarsi. A nulla valsero le deboli proteste della diretta interessata: «Non ha fatto niente mia sorella, è stata colpa mia!»

«Taci! Ti proibisco di difenderla. Non è tua sorella!» mi puntò contro l'indice, mentre assottigliò gli occhi. La fissai in tralice. «Non osare guardarmi con quella faccia indemoniata! Ti darò una bella lezione!» Mi afferrò per il lembo della maglia trascinandomi a mentre la figlia le urlò di lasciarmi andare. «Sei un flagello e mi auguro che te ne vada il più presto possibile, appena tuo padre capirà che bestia sei! Per colpa tua, mia figlia potrebbe non tornare più camminare. Questo a te fa piacere, no?» Percorse il corridoio fino a raggiungere quella che avevo ribattezzato col passare del tempo la stanza delle "torture". «Entra, forza!» Mi spinse dentro e crollai sul pavimento. «Se provi ad urlare o dici una sola parola a tuo padre, rinchiuderò tutte e due qui.»

Successivamente chiuse la porta e ogni spiraglio di luce venne avvolto da una tetra oscurità...

Per molte settimane, non vidi altro che le pareti di quella camera e me restai seduta con la testa sprofondata nelle ginocchia...

«Devo andare.» dissi, tornando coi piedi per terra. La piccola era ormai tranquilla e aveva smesso di piangere. Mi alzai. Non so perché avessi rievocato quel ricordo e mi diressi alla macchina.

«Aspetti! Ci rivedremo?» domandò la piccolina.

Feci un respiro profondo. «Fa' attenzione la prossima volta. È pericoloso non guardare la strada quando la attraversi.»

Annuì, scuotendo la testa.
Sorrise di rimando e salì, ripartendo a tutto spiano.
La lasciai indietro e guardai dal retrovisore se fosse tutto apposto. Chissà che ci faceva in questo quartiere, dov'erano i suoi genitori o dove viveva. Non le avevo chiesto nulla e mi ero occupata solo di curarle quel graffio superficiale. Ma in quel momento, il mio pensiero era focalizzato su altre cose e continuai il tragitto.

[...]

Arrivata alla pensione, accostai nel largo piazzale e slacciai la cintura per scendere. Accelerai il passo, oltrepassando e ignorando lo sguardo di una ragazza per raggiungere l'ingresso.

«Siamo chiusi!»

Mi bloccai su due piedi e voltai. Stava fraintendendo.

«Non sono una cliente. Mio pa...» Mi interruppi. «Sto cercando il signor Lorenzo, dove sta?»

«Oggi non c'è.»

Nessun problema, pensai. Rovesciai una sedia e la calai a terra per accomodarmi ad un tavolino. Gli avrei parlato quando sarebbe arrivato, tanto questo era il posto in cui lavorava. Doveva per forza tornare. «Be', aspetterò.»

«Le ho detto che può sedersi?»

Socchiusi le palpebre. «Non oggi. Non sono dell'umore.»

Non poteva ignorarmi?

La disturbatrice della mia quiete alzò gli occhi al cielo e distolsi la faccia, inumidendomi le labbra.

«Ah...» Ciondolò sui piedi, allacciò le braccia dietro la schiena e la fissai: capelli acconciati in una crocchia disordinata, rossicci, alta più o meno quanto me... e una grandissima faccia di bronzo. «E quando lo sarà?»

«Che vuole? Mi lasci in pace!» Scandii. «Torni a fare le cose per cui la pagano, daje. Se ne vada!»

Le feci lo spelling, così avrebbe capito che tirava una brutta aria e che giocare con la mia pazienza non era un'idea brillante.

Aggirò il tavolo, rovesciò l'altra sedia e si sedette dalla parte opposta in barba a quanto le avessi detto. Ma in che lingua stavo parlando? Arabo? Mandarino? Cinese?

No, glielo avevo detto in italiano che non mi andava di attaccare bottone con nessuno.

«Sei esattamente come ti ricordavo, Federica


La osservai per parecchi istante, lo stesso fece anche la tipa.

Inarcai un sopracciglio. «Federica? Ci conosciamo?»

Appoggiò la guancia sul palmo e nel frattempo un altro che aveva la mania di rompere le uova nel paniere stava telefonando. Vidi il nome Giovanni lampeggiare sullo schermo. Abbassai il volume premendo il tasto laterale, rivoltando il cellulare. «L'ho vista in televisione nei giorni scorsi. il suo ospedale è famoso.» Portai la mano sulla fronte avvertendo del disagio. «Peccato per quella ragazza» Guardò avanti e poi ruotò il collo verso di me. «Dicono che l'aggressore era in ospedale, ma il medico non l'ha voluto curare» Deglutii con lo sguardo assente. Non c'era bisogno che mi ricordasse che gran sbaglio avessi commesso: mi ero già condannata da sola. Sapevo di aver sbagliato. Si posizionò dritta sulla sedia e incrociò le braccia, sporgendosi. «Vede, l'errore di una persona ha messo fine a una vita innocente. Io avrei appeso il camice al chiodo, smettendo di fare il medico» suggerì. E forse non aveva tutti i torti. Avrei dovuto dimettermi. Schiusi le labbra, incrociando di tanto in tanto il suo sguardo. Poi saltai in piedi. «Aspetti, ho detto qualcosa di sbagliato?» Mi affrettai ad afferrare la maniglia quando la mi chiamò. «Federica!» Mi guardò per interminabili minuti con il sorriso stampato sulle labbra. «Mi dispiace per la tua perdita...»


Senza risponderle, entrai nuovamente e feci velocemente la retromarcia, andando via alla velocità della luce. E da quella tipa. Non sapevo chi fosse, perché mi parlava con confidenza ma mi diede fastidio che volesse giudicare la mia vita con leggerezza.

[...]

La strada sembrava bloccata e notai tre vetture parcheggiate in fila indiana, così incuriosita accostai al lato e spensi il motore. Aprii lo sportello e iniziai a camminare facendomi spazio tra la gente, che si era fermata a vedere.

Un giovane poliziotto si parò davanti con le braccia divaricate. «Non si può andare oltre, signorina. Torni indietro.»


«Voglio vedere. Mi faccia passare.»

«C'è stato un incidente. Che vuole vedere?» insisté seccato.

«Sono un medico. Voglio solo vedere se ci sono feriti.» spiegai e, scusandosi dell'atteggiamento scontroso, alzò il nastro segnaletico e mi permise di passare. Mentre mi avviavo verso il luogo dov'era avvenuto l'impatto, un gruppo di paramedici trasportò una donna incinta sulla barella fino all'ambulanza. «Ciao, ragazzi.»

«Salve...»

«Sono la dottoressa Andreani, cos'è successo?»

«Quando hanno girato all'incrocio, hanno tamponato il camion. Il rimorchio del camion è caduto sopra l'auto. Abbiamo estratto la donna, l'uomo è ancora dentro.»

Annuii. «È vivo?»

«Resiste, dottoressa. Venga con me.» Si offrì di accompagnarmi verso la vettura - o ciò che ne rimaneva - dato che lo schianto aveva finito per danneggiare il tetto schiacciandolo come fosse una lattina. Intimò gli altri colleghi di farsi da parte. Sull'asfalto giaceva una tutina rosa per neonati e mi affacciai scrutando i sedili posteriori, dove vi era un orsacchiotto di peluche e varie buste regalo. Passai a ispezionare quelli anteriori, incrociando il volto di un giovane dai capelli scuri brizzolati, a cui avevano collegato già l'ossigeno.

«Come si chiama?»


«Luigi.»

Mi sollevai con il busto, cedendo il cellulare all'altro paramedico, che era dietro di me. Senza perdere tempo, indossai i guanti.


«Non si preoccupi, la tireremo fuori.»

Accennò un lieve sorriso. «Speriamo.»

«Dottoressa, abbiamo prestato il primo soccorso. Non possiamo fare molto altro.» Ripresi a chinarmi nel finestrino ormai distrutto e controllai le pupille. «Dottoressa, il suo telefono...»

«Può rispondere e dirgli che sono impegnata?»

Non staccai gli occhi dal paziente e intanto spiegò in breve ch'ero impegnata e di richiamare più tardi. Immaginavo chi fosse il mittente dall'altro lato.
Poi replicò ancora dicendo che stavo solamente aiutando.

Sollevai le palpebre del giovane che mi fissava, era cosciente, anche se aveva un pezzo di metallo conficcato nello stomaco che lo teneva incatenato al sedile. Dannazione. Era impossibile muoverlo. Chiesi altre garze. «Riesce a seguire la luce con gli occhi, signore?» Slittai la torcia lentamente da una parte all'altra.

«Carola... mia moglie... non ha notizie di lei?»

«Starà bene, tranquillo.»

«Salvate la bambina. Non mi interessa quello che mi succederà. La cosa importante è mia figlia. D'accordo, dottoressa? Me lo promette?»

Guardai i suoi occhi cioccolato, pieni di speranza. «Glielo prometto, non si agiti. Non parli, ok?»

Drizzai di nuovo la schiena, chiedendo anche lo stetoscopio.

«Ascolti.» riprese, nonostante gli avessi detto di non sprecare fiato.

«Ok, ok...» Sibilai.

«Non è una coincidenza.»

Venne interrotto da una violenta tosse e gli asciugai un rivolo di sangue che gli stava colando lungo il mento con il pollice.
Mi rivolse un sorriso.

«Ha una contusione polmonare e l'addome pieno di sangue. Sento malapena il respiro. Darò un'occhiata. Posso avere un paio di forbici?»

Il paramedico le cercò nel borsone e me le diede.
Mi apprestai a recidere la camicia per valutare se ci fossero altri danni nel resto del corpo.

«Dottoressa... ha mai sentito parlare del destino? L'ha portata qui... per salvarmi.»

«Dammi altre garze.» ordinai al giovane.

«Mi darà la possibilità di vivere per vedere la mia bambina...»

Lo fissai con la coda dell'occhio e in un attimo il mio cervello si ricollegò a ieri, a quello che avevo vissuto con il poliziotto, a cui avevo promesso che non sarebbe morto lì. Ma non ero successo. Gli avevo detto che non mi sarei arresa e, alla fine, non avevo rispettato quel patto. Distolsi lo sguardo non sentendomi di promettergli qualcosa di cui non ero certa nemmeno io.

«La barra di metallo rende il nostro lavoro molto più difficile.» mi rivolsi agli operatori ma anche il giovane poté udirlo.

«Suona brutto...»

Mi voltai e piegai in avanti appoggiando i palmi sulla portiera. «Temo di sì.» Nonostante la situazione disperata, increspò un sorriso. «Ma ho visto di peggio. Cerchi di rilassarsi ed essere forte, va bene? Resista il più possibile.» Annuì. Dovevamo entrambi mantenere la calma.

«Fede!» gridò una voce familiare che mi portò a sollevare il busto e guardare il moro togliersi gli occhiali e arrivare di corsa, come un maratoneta che stava per tagliare il traguardo.

«Che stai facendo qua?»

«Sono qui per aiutarti...»

«Grazie, ma non serve.»

«Non sono d'accordo.»

E quando mai? Doveva sempre avere l'ultima parola lui.


«Mi avrebbe sorpreso il contrario...» Alzò un sopracciglio e puntai gli occhi dritto nei suoi, per chiarire il concetto che a quanto pare non aveva afferrato. «Ho tutto sotto controllo, ok?»

E discutere davanti al paziente non era il massimo.

«Okay, hai tutto sotto controllo, ma datti una calmata.»

«Sono calma!» ringhiai a denti stretti con un tono di voce tutt'altro che tranquillo, ma mi stava facendo incavolare. «Vorrei che non mi cercassi come una bambina ogni volta che sparisco. Non fai altro l che perseguitarmi! Si trovi un altro passatempo divertente, dottor Rinaldi!»

Spostai immediatamente lo sguardo per concentrarmi sul paziente, che era più importante.


«È cosciente?»

Sospirai, inumidendo le labbra. «Sì, ma è intrappolato e non riusciamo a tirarlo fuori.»

Si chinò per raccogliere altri guanti. «Con il suo permesso... potrei esaminare il suo paziente, dottoressa Andreani?» Ci pensai su e dopo acconsentii. Mi spostai leggermente a braccia conserte e lo lasciai fare. «Signore... piacere. Sono Giovanni, un medico. L'aiuterò.»

«Un altro medico. Ora ce ne sono due. Mi sto preoccupando. Mi... riprenderò?»

Giovanni mi guardò e abbassai d'istinto gli occhi, rimanendo in silenzio e in disparte.

«Che le ha detto?»

«Ha detto che mi salverà.»

«Bene, manterrà la parola data. Nel nostro ospedale è conosciuta come la dottoressa dei "casi impossibili". Gliel'ho visto fare molte volte, in passato. Se dice che la salverà, lo farà.»

Forse riponeva troppa fiducia in me, ma la verità era che non sempre si aveva un epilogo felice, purtroppo esisteva una percentuale di insuccesso. Restai distante, alzando a malapena gli occhi chiedendomi se quell'uomo sarebbe sopravvissuto davvero.

[...]

Gli operai erano a lavoro per scardinare le portiere e riuscirono a staccare quella posteriore dal lato guida. Giovanni si adoperò per controllare la respirazione, avendo più spazio per muoversi.

«Come respira?» chiesi tamponando la ferita.

«Bene... ma ha un accumulo di sangue nel petto. Servono altre garze.»

«Non possiamo continuare così. Servono garze di cellulosa. Più premo sullo stomaco, più esce sangue.»

«Federica...» Il suo tono serio mi fece rialzare e farmi più vicina. «L'asta metallica lo protegge dall'emorragia, ma non durerà a lungo.»

«Dobbiamo portarlo in ospedale»

«Dobbiamo prima fargli una toracostomia o annegherà nel suo sangue.»

«Come la facciamo qui?»

Ci pensò un istante. Senza strumenti in un ambiente non sterilizzato era un rischio alto. «Si farà...» dichiarò e ci scambiammo di posto. Mi infilai nell'abitacolo accomodandomi sul sedile posteriore per sostenere la testa del ragazzo, mentre fece un incisione al fianco per mettere il tubo. Faceva male, sì, ma era necessario, poiché il sangue poteva chiudere le vie aeree e farlo soffocare. Il giovane iniziò a sentire dolore, gemendo e intanto gli tenni immobile la testa. Per fortuna il procedimento funzionò e tornò a respirare liberamente.

«H-Ha figli, dottoressa?»

La domanda mi lasciò un po' sbigottita. «No...»

«E allora dovrebbe...»

«Come dice?»

«Dovrebbero esserci più persone come lei, in questo mondo. Forti. Intraprendenti, qualcuno che non si arrende. Sono certo che sarebbe un'ottimo... esempio per i suoi figli, dottoressa.» Dichiarò, poi fissò il moro. «E anche lei...»

«Cosa?» Chiese Giovanni.

«Dovrebbe avere dei figli.»

«Sicuramente. Lo terrò a mente, un giorno.» Sogghignò sotto i suoi baffi e guardò direttamente la sottoscritta. Abbassai così tanto il capo fino a far sprofondare la faccia nel braccio per nascondere l'imbarazzo che mi aveva imporporato le guance.
Poi tornò con espressione seria a fare il suo lavoro.

«I miei tesori mi aspettano. Quando sarò salvo, tornerò da loro. Me lo prometta, dottoressa. Tornerò dalla mia famiglia.»

Non gli risposi e un altro attacco di tosse lo colse. Iniziò a vomitare sangue e Giovanni gli ordinò di aprire la bocca per tirare fuori la lingua. Guardai di sottecchi il moro e ricambiò.

Cosa potevamo fare?

[...]

«Non c'è più tempo. Dobbiamo raggiungere l'ospedale il prima possibile.» annunciò Giovanni quando ci riunimmo in cerchio, per decidere il da farsi.

«Per tirarlo fuori dall'auto, abbiamo bisogno di un gancio.» suggerì il paramedico.

«Non si può fare. Il corpo potrebbe disintegrarsi.»

«Che mi dici di una laparotomia? Estraiamo le parti bloccate» azzardai.

«E la sterilizzazione? Perderà molto sangue quando rimuoveremo il tubo. Non possiamo fare trasfusioni. Non siamo in una sala operatoria.»

Lasciai scivolare le braccia lungo i fianchi e guardai in direzione dell'auto maciullata. Mi si accese una lampadina. «Inseriamo un catetere a palloncino nell'aorta addominale, ci farà guadagnare tempo.»

«È una buona idea. Ma ci darà cinque o dieci minuti al massimo.» Osservò i presenti. «Siamo a mezz'ora dall'ospedale. Non ce la farà»

«Dottore, tagliamo la macchina. Almeno avrà una possibilità.»

«Dobbiamo fare qualcosa, Gio.» lo pregai a voce melliflua.

«Lo vorrei fare, credimi. Ma abbiamo provato di tutto.»

Il silenzio che ne seguì fu una risposta, ma non quella che avrei voluto sentire. Mi allontanai dal gruppo per tornare dal paziente.


«Allora? Quando mi tireranno fuori?»

Ero combattuta. Non volevo spegnere le sue ultime speranze ma avevamo le mani legate. Non c'era una soluzione migliore... purtroppo dovevano agire tempestivamente e rievocai il momento straziante in cui il poliziotto era morto, lasciandomi in balia della disperazione. Non poteva succedere, ma che altro restava da fare?

Ogni ipotesi studiata risultava infattibile.

Strizzai le palpebre per trattenere le lacrime che premevano. «Taglieranno il veicolo e la tireranno fuori»

«La prego mi aiuti a vedere la mia bambina, almeno una volta. Per favore... Solo altre due settimane.» Distolsi la faccia altrove. «Potete lasciarmi qui.»


Seppur avessi voluto concedergli quel desiderio sarebbe stato comunque tardi, gli operatori erano pronti a tagliare le lamiere.

«Aspettate!» Gridò all'improvviso Giovanni e lo guardai intristita. «Un momento, un momento, un momento!» Bloccò l'operazione raggiungendo l'auto. Sembrava aver ritrovato lo spirito combattivo che finora gli era mancato. I suoi occhi brillarono di determinazione e mi affiancò subito. «C'è un modo per portarlo in sala operatoria.»

«Quale?» lo incitai.

Appoggiò la mano sulla mia spalla. «Fidati di me.»

Esortò anche gli altri a seguire le sue istruzioni. In un modo o nell'altro ci saremmo riusciti.

[...]

Non sapevo reputare l'idea di Giovanni brillante o totalmente stupida, ma era l'ultima spiaggia che ci era rimasta. Chiamò un carroattrezzi che poteva aiutarci a trasferirlo in breve tempo.

Sbuffai, gettando occhiate fuori dal finestrino.

«Sto coso non può andare più veloce?»

«No, dottoressa. È la velocità massima consentita. Sto facendo del mio meglio.»

«No, non faccia del suo meglio. Non abbiamo tempo! Acceleri! Spinga! Cavolo!» sbottai seccata contro il povero conducente, che a mio avviso non stava schiacciando il pedale a dovere.

Una tartaruga sarebbe stata più veloce di noi...

«D'accordo...»

Il moro mi prese la mano.
«Fede, tranquilla. Ce la faremo.»

La tolsi bruscamente e mi focalizzai a guardare avanti. Non volevo guardarlo o che mi rivolgesse la parola. La sua mano mi sfiorò leggermente i capelli e mi ritrassi.

«Non toccarmi!»

Era così difficile per lui non invadere i miei spazi, così come io i suoi? Poteva starsene buono sul sedile.

«Cos'hai, Fe?» Non risposi. Solo silenzio. «Fede, che succede? Ti ho fatto una domanda» insisté per strapparmi da quello stato catatonico dove ero caduta. No, in realtà, non stavo bene. Le solite parole di Svevi mi rimbombavano nel cervello. Suo padre era l'uomo che mi aveva rovinato la vita, modificato il rapporto dell'intervento di mia nonna. Non riuscivo a smetterla di pensare e pensare. Guardarlo in faccia significava ammettere che potesse essere la verità. «Federica, puoi guardarmi in faccia e dirmi cosa sta succedendo, per favore?»

«No.»

«No? Ti è successo qualcosa, Fede?»

«Ho la nausea. Se parliamo, mi sentirò peggio. Ti basta, o vuoi farmi ancora l'interrogatorio?!» Alzai la voce di un'ottava adirata e poi mi rivolsi direttamente al conducente. «E lei, spinga di più su quel cavolo di pedale o mi metto io al volante!»

«D'accordo...»

Non gli restò che acconsentire e nell'abitacolo tornò il silenzio, che durò per tutto il tragitto fino a destinazione. Giovanni decise anche lui di non disturbarmi più con le sue sciocche domande.

Tanto non avrei risposto...

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