Capitolo 1.3 - Una ragazza ribelle

Tornai a casa al colmo dell'euforia. Non vedevo l'ora di comunicare a mia nonna quella splendida notizia: non solo avevo superato l'esame, ma addirittura ottenendo il punteggio più alto dell'intero istituto.
Era una grande soddisfazione dopo aver cominciato a studiare qualche giorno fa.

«Nonna! Nonna!» Corsi da lei e l'abbracciai da dietro, lasciandole una scia di baci sulla guancia.

«Ohi, che succede?»

Mi spostai, passando di fronte, sfoggiando un'espressione soddisfatta. «Ho preso il voto migliore all'esame!»

«Non mi dire! Davvero?» Posò l'innaffiatoio a terra e mi buttai fra le sue braccia.

«Lo giuro, lo giuro!»

Saltellai e mi strinse forte. Non ricordavo un giorno nella mia vita più bello di questo.

«Figlia mia, mi hai reso così felice.» confessò e mi staccai per guardarla, il suo volto era percorso dalle lacrime. Afferrò il mio tra le sue mani nodose. «Questa vecchietta è molto orgogliosa di te.»

Mi rannichiai di nuovo fra le sue braccia, sentendomi al sicuro e avvolta in quel calore che ricordava quello di mia madre. Per la prima volta, non ero sola, c'era lei al mio fianco che mi sosteneva attraverso quel percorso difficile. «Come sono felice! Come sono felice!» esclamai singhiozzando al contempo.

«Mia cara…»

Mi separai un'altra volta asciugando il bordo degli occhi con i polpastrelli. «Dio, non so perché sto piangendo. Mi sento stupida.»

Mi scostò i capelli con materna dolcezza e dichiarò. «Mia cara, le persone non piangono di felicità, dovrebbero ridere.»

«E tu perché piangi?» le feci notare trattenendo una risata.

«Hai ragione.» Mi sorrise, scuotendo il capo. «Ho imparato a piangere di felicità grazie a te.»

Tornai ad abbracciarla e mi diede un bacio sulla guancia, affondando la faccia tra i miei capelli e continuammo a stringerci per un altro po'. Forse le cose potevano migliorare, bastava solo volerlo e impegnarsi affinché questo potesse accadere.
Ero così contenta che le lacrime non accennavano a smettere.
Stavo facendo la cosa giusta e dando importanza al mio futuro.

[...]

Quella sera, raggiunsi la casa della biondina per ringraziarla dell'aiuto. Dopotutto non ce l'avrei fatta a dimostrare il mio valore senza i suoi consigli.
Vidi Maddalena intenta a buttare un sacchetto nella pattumiera fuori dall'abitazione e la chiamai.

Si voltò per poi avvicinarsi. «Grazie, professoressa. Sono venuta per restituirti i libri e mia nonna ti manda anche il miele per ringraziarti.»

«Non ne ho più bisogno. Puoi tenerteli.» rispose e abbassai il braccio e aprii la busta.

«Nemmeno io. Non dimenticherò mai quello che hai fatto. Grazie.»

Quasi distolse lo sguardo, roteando gli occhi. Il suo sguardo brillò di una strana scintilla: «Ti piace il professore?» Quella domanda a bruciapelo mi strappò quasi una risata, oltre che farmi alzare un cipiglio. «Perchè non rispondi? Se vuoi, ti ripeto la domanda.» "Era seria? Mi stava chiedendo se provassi dei sentimenti per l'insegnante Rinaldi? Era impazzita?" Sbattei le palpebre svariate volte, confusa. «Ti piace il professore? Sei innamorata?»

«Maddalena, non dire cose stupide. È il nostro insegnante.»

«E allora?» replicò. La guardai con le labbra schiuse e deglutii un fiotto di saliva. «È un valido motivo per non innamorarsi? Si può controllare il proprio cuore?»

«Cosa stai cercando di dirmi?»

«Mi hai mentito, vero? Quando mi hai detto che non avevi mai studiato. Qualcuno che non ha toccato un libro prima d'ora non ottiene i voti migliori della classe.»

«No, non ti ho mai mentito.» obiettai prontamente.

«Allora, sei super dotata?»

Non capivo cosa volesse dire con quel discorso. Mi guardò arcigna e senza darmi diritto di replica, si diresse a grandi falcate verso il grosso portone, sbattendomelo in faccia con una tale violenza da farmi sussultare sul posto.
Restai immobile in mezzo ad una strada deserta, continuando a osservare la lussureggiante villa della ragazza che si ergeva di fronte a me, ancora interdetta dal discorso che aveva tirato in ballo.
Da dove proveniva quella rabbia che mi aveva vomitato addosso? Sembrava che le avessi fatto un torto ma, leggendo sopra le righe, c'entrava il nostro professore. Quel sospetto mi accompagnò per il resto della serata e buona parte della notte, ma non rivelai alla nonna l'alterco con Maddalena.

Giovanni


La mattina successiva, vidi la mia alunna uscire dalla pensione e piegarsi per aggiustare i lacci delle scarpe e, a quel punto, feci trillare vivamente la campanella della bici catturando la sua attenzione. "Bene, missione compiuta".

La brunetta incrociò il mio sguardo e si mise in piedi salutandomi. «Buongiorno, prof.»

«Buongiorno. Spero che tu sappia andare in bicicletta.»

Osservò stupita e poi puntò l'indice verso quest'ultima. «Come? È per me?» domandò e annuii. Si avvicinò e impugnò saldamente il manubrio. «Hai passato l'esame, è tua.»

Abbassò lo sguardo, facendo trillare la campanella a sua volta, e appena mi guardò le rivolsi un sorriso. Montò in sella e ci mettemmo a pedalare, prendendo una piccola scorciatoia che di solito utilizzavo per non trovare traffico. Inoltre, era bello stare a contatto con la natura. Le nostre bici erano l'una accanto all'altra sul sentiero, quando le proposi una sfida. Le piacevano le competizioni, era ambiziosa e non si lasciò scappare l'opportunità di battere il suo insegnante. Al mio tre, iniziai a spingere sui pedali, aumentando la velocità e rimasi in testa. Ma le cose cambiarono e riuscì a sorpassarmi, girandosi emettendo un urletto. Poi allargò le braccia, staccandole dal manubrio, e si lasciò cullare dal vento. Percorremmo l'ultimo tratto di strada, fianco a fianco, quando iniziò a piovere.
Ci fermammo sotto un riparo di fortuna per aspettare che il temporale estivo si acquietasse. Federica si allontanò per allungare il braccio e raccogliere le gocce che stavano precipitando giù dal cielo plumbeo. «Ho letto che alcune persone guardano la pioggia e altre si bagnano...» citò.
Poi avanzò di qualche passo, esponendosi totalmente all'acquazzone che man mano si stava intensificando.
L'uniforme le si attaccò addosso alla pelle, come del resto i capelli, ma non sembrava curarsene tanto. Inspirò a pieni polmoni l'aria che profumava di rugiada, quando la tirai per il braccio.

«Vieni o ti prenderai un raffreddore!» Ridemmo, la ragazzina perché si era fatta una vera e propria doccia e io per la stranezza del momento. «Quelle persone non devono studiare tanto per l'esame all'università.»

«Ha molto senso.» rispose. Dopodiché parve ricordarsi e rovistò nella tasca dello zainetto, estraendo un dischetto. «Per te…» Me lo porse e sulla copertina c'era l'immagine di un artista che apprezzavo molto per la sua carriera discografica e i pezzi che interpretava, ovvero “Battisti”.

«Per me?» le sorrisi prendendolo. «Dove l'hai preso? Amo moltissimo quest'artista.»

«Lo so. Sono diventata amica del tipo del mercatino e me l'ha detto.»

«Bene!» esclamai e fece un cenno d'assenso. «Molte grazie. È stato gentile da parte tua.»

«Voglio essere medico.» confessò dopo qualche secondo di silenzio coperto dal ticchettio sull'asfalto della pioggia, mentre mettevo al sicuro il regalo e alzai la testa per scrutarla. In effetti, la mia espressione era alquanto stupita e aggiunse. «Non guardarmi così, so che devo studiare molto.»

«Vero. Ma studiare non garantisce il successo. Sei stata fortunata questa volta. Ma se continuerai a farlo, sarò sempre al tuo fianco. Lo prometto.»

«Quando mia madre è morta… io ero al suo fianco e non mi sono resa che non stava respirando...» raccontò con lo sguardo perso nel vuoto, stava rievocando quel momento e i suoi occhi marroni si incupirono. «A volte penso a...» si bloccò. «Cosa sarebbe successo se fossi stata medico. Sarebbe stato bello. Forse mia madre sarebbe sopravvissuta com'è capitato alla donna incinta.» ipotizzò facendo spallucce. Successivamente, mi fissò. «E se tu fossi stato lì, l'avresti salvata.»

Non era semplice e non funzionava in quella maniera, ma ciò si imparava quando ci si trovava faccia a faccia con la morte e con le decisioni importanti. I medici purtroppo non facevano miracoli.

«Le persone muoiono anche se i medici sono con loro. Non dimenticarlo.»

Federica assentì e spostò lo sguardo altrove. «Hai ragione... Che ragionamento sciocco.» sussurrò. Poi non parlammo, lei preferì rifugiarsi nei suoi pensieri. Il breve acquazzone nel frattempo cessò, lasciando il posto ad un timido sole che stava facendo capolino. «Ha smesso...» La feci tornare alla realtà e guardò attorno. «Andiamo o arriveremo tardi a lezione.»
Riprendemmo le nostre bici, togliemmo il cavalletto e concludemmo quella passeggiata, giungendo al liceo in perfetto orario. Smontai per posizionare la bici nella rastrelliera, ma per errore, Federica la fece cadere. Voleva raccoglierla, ma non potevo farlo fare a lei — in fondo, ero pur sempre un gentiluomo — e la feci spostare da un lato per rialzarla. Mi ringraziò sbrigativa e ci avviammo verso l'entrata dell'istituto.

[...]

Regolai la messa a fuoco del microscopio, gettando sporadiche occhiate al libro lì di fianco.
Stavo preparando la lezione di oggi e mi stavo concentrando su alcune formule chimiche, quando qualcuno bussò leggermente alla porta del laboratorio di scienze. Guardai di sfuggita Maddalena, che si era avvicinata al banco.

«Oggi non ci saranno ripetizioni. Avvisa i tuoi compagni.»

«Non sono venuta per le ripetizioni, signore. Ho sentito qualcosa e sono venuto a chiedertelo di persona.»

«Che hai sentito?» domandai con gli occhi incollati agli oculari.

«Voci. Voci molto strane.»

Trassi un sospiro. «Su cosa?»

«Sul fatto che ci sia qualcosa tra te e Federica. È quello che dicono le ragazze a scuola.»

Drizzai la schiena e mi voltai totalmente nella sua direzione.
«Non le avrai diffuse tu?»

Maddalena scosse il capo sbalordita. «Che cosa?»

«Guarda, Maddalena — mi sedetti sullo sgabello senza perderla di vista —  confessa che sei gelosa di lei e lo capirò.»

«Perché dovrei essere gelosa di una ragazza come lei? Ho tutto quello che lei può solo sognarsi.»

«È vero. Hai tutto, non ti manca nulla. Hai una vita perfetta, mentre tutto ciò che ha lei è la sola speranza.» Maddalena aggrottò la fronte. «Ed è quello che vuoi tu. Sei troppo ambiziosa.»

«Da che parte stai?»

«Attenta. Non farmi sembrare un insegnante che deve schierarsi dalla parte di uno studente. Sono sempre obiettivo. Dì ai tuoi compagni di andare a casa. E tu, vai a casa e studia. Entra nell'università che desideri e sii felice. Smettila di dare retta a stupide voci. Fammi il favore, ok?» rimbrottai in modo che fosse palese quel concetto.

Non poteva mettere in dubbio la mia etica professionale. Non ero così. Non lo sarei mai stato.

«Ho dei sentimenti.» continuò con voce tremante e alzai il capo per guardarla. «Ho un cuore che si sta spezzando... - mi rimisi all'impiedi - perché non sono solo un robot che si sforza di studiare e fa quello che vogliono i genitori!»

Congiunsi i palmi. «Tutti abbiamo un cuore, incluso me.»

Poi sollevai il braccio, indicando l'uscita, come per chiederle di lasciarmi solo e di non disturbarmi oltre con quella storia ridicola, e tornai a fissare il microscopio.

«Sa qual'è il problema, professore?» la biondina tornò a reiterare e drizzai con la schiena. «Che sei sempre freddo con me, ma a lei sorridi sempre!»

L'evidente sofferenza traspariva dai suoi occhioni azzurri, mentre cercava di trattenere le lacrime.
Non le diedi risposta e distolsi lo sguardo, prestando maggiore attenzione a ciò che stavo facendo in quel frangente piuttosto che alla sua scenata di gelosia. Dopotutto, non ero obbligato a giustificarmi con lei e trovavo ridicolo il suo comportamento nei confronti di Federica. Alla fine, andò via, senza che glielo avessi chiesto. Mi girai di nuovo mentre appuntavo altri appunti sulla lezione e di lei non vi era traccia.

Federica

Altro giorno, altra mattinata che avrei passato a studiare, ormai ero un'allieva modello. Varcai i cancelli assieme ad altri ragazzi. Ormai ci avevo fatto l’abitudine. Oltrepassai la calca nel patio principale e continuai il tragitto, percorrendo i corridoi dove intercettai alcuni studenti, che continuavano ad osservarmi e a parlottare sottovoce fra di loro, nemmeno se avessi scritto qualcosa in faccia.
Captai qualche frase su Maddalena e una macchina fotografica non restituita.
Svoltai l'angolo e vidi in lontananza un altro gruppetto fermo davanti ad bacheca scolastica. Mormoravano mentre proseguivo ad avvicinarmi.
Mi bloccai ad una certa distanza, quando lessi delle scritte orribili sui cartelloni.

“Parlavano di me e di Giovanni soprattutto… di una presunta relazione.”

Il cuore mi balzò nel petto, rischiando di interrompere la sua attività, e mi feci più vicino, con gli occhi puntati sul cartellone che occupava tutta la parete. Gli studenti mormoravano, poi vedendomi arrivare si divisero in due lati.
“Non ha vergogna! Che faccia tosta! Cosa ti aspettavi da quelle come lei?”

Sul cartoncino erano presenti delle foto scattate a tradimento, dove sembravamo in sintonia, mentre mi aiutava a tirare su la bici che avevo sbadatamente fatto cadere ieri mattina. Osservai tutto sconvolta.
Quelle frasi mi facevano passare per un'indecente che stava filtrando con l'insegnante. Feci scorrere attentamente lo sguardo su ogni fotografia e lessi mentalmente "scandalo", che si univa alle tante frecce a forma di cuoricini rosa.

“Chi aveva potuto fare una cosa del genere? Perché? Perché fare questo al professore?”

Ruotai il collo verso il diretto interessato, che era appena sopraggiunto e anche lui osservò scosso il cartellone. Guardai di nuovo quest'ultimo per poi di dare le spalle e allontanarmi a testa alta. Accelerai il passo per uscire, gli occhi di quasi tutto l'istituto mi seguivano. Quella persona che aveva creato tutto ciò stava giocando col fuoco e rischiava di bruciarsi. Non le avrei permesso di rovinare le nostre vite.

[...]

Sapevo chi fosse stata la persona che voleva metterci in cattive luce.

Con la complicità di Angelina, avevo escogitato un piano e l'attirai presso un luogo appartato, dove poter discutere con tranquillità. Angelina l'avrebbe condotta lì e io avrei aspettato dentro, altrimenti la bionda non avrebbe mai accettato un confronto. Sentii i loro passi rimbombare nelle stanze vuote, quella era una villa in disuso, dove nessuno più abitava da tanto. Nina andò ad azionare l'interruttore per illuminare quello che avrebbe dovuto ricordare un salone.
Maddalena immediatamente domandò il motivo per cui erano venute e, a quel punto, avanzai dal fondo della stanza, rivelando la mia presenza.

La biondina sbatté le braccia sui fianchi, roteando gli occhi. «Giustamente… pensavo che questa fosse una discarica.» mi squadrò dall'alto in basso con disprezzo. «Basta guardare la spazzatura che c'è in giro.»

Abbassai lentamente lo sguardo e lanciò un'occhiataccia in tralice alla mia amica, prima di darci le spalle.

«Maddalena aspetta, dobbiamo parlare!» esclamò la castana, afferrandole il braccio.

«Non ho niente di cui parlare.» sputò guardando anche nella mia direzione.

«Ok. Non dire nulla, ma almeno ascolta Federica, per favore.»

Trasse un sospiro e feci un altro passo avanti, mentre incrociava le braccia al petto. «Dimmi. Sbrigati.»

Nina informò che sarebbe andata ad accendere il fuoco per riscaldare l'ambiente dato che si congelava. In quella casa non c'era il riscaldamento e gli spifferi penetravano dalle finestre rotte.

«Farò quello che vuoi, Maddalena, quello che vuoi. Dimmi che è tutto un enorme malinteso. È tutto quello che ti chiedo.»

«Perché dovrei? No, perché dovrei pentirmene? Mi piacerebbe fare molto di più.»

«Quello che dici sono bugie e lo sai.»

«Ti ho visto, Federica!» mi interruppe, sporgendosi in avanti. «Stai facendo tutto il possibile per conquistarlo.»

«Non ho fatto niente di male, credimi.»

«Veramente? Hai due facce. Mi hai usata solo per segnare punti di fronte all'insegnante!» sbottò.

«Basta!» intervenne Nina che finora era rimasta ad ascoltare l'alterco. «Federica non è come te. Sei tu quella che usa gli altri perché pensi di essere superiore.»

Maddalena riprese il contatto visivo con me e poi spostò gli occhi sull'altra, mostrandosi ferita. «Questo è quello che ottengo dopo essermi fidata di te ed essere venuta qui.»
Di nuovo girò le spalle, poi si fermò all'improvviso e tornò ad avvicinarsi, determinata a sfogare il suo risentimento.  «E sai cosa? La colpa di tutto questo è tua! Parli sempre male di me, alle mie spalle.»

Girò i tacchi e fui io ad agguantarle forzatamente il braccio. «Maddalena, devi ascoltarmi.» Mi spintonò, ordinandomi di lasciarla e caddi per terra. Nina allungò le mani per aiutarmi a mettermi in piedi. Sbattei le mani per scuoterle dalla polvere e portai alcune ciocche dietro le orecchie. Il mio intento non era quello di litigare, cercavo un confronto pacifico, ma la sua rabbia le aveva annebbiato il cervello. «Voglio solo parlare.»

«Cosa succede se non parliamo? Mi colpirai?» insinuò. «Avanti. Colpiscimi. Fallo!» Vedendo che non reagivo alle provocazioni, mi diede uno spintone per istigarmi. Ma non volevo soddisfarla. «Colpiscimi ora!» ripeté.

Indietreggiai per porre distanza.
«Non esagerare.»

«Colpiscimi!» insistè dandomi un'altra spinta contro la spalla e serrai le palpebre per non perdere il controllo. Accennò un mezzo sorrisetto di scherno, rivolgendo lo sguardo a Nina. «Colpiscimi, e il tuo cucciolo vedrà che feccia sei! Non trattenerti! Colpiscimi!»

«Basta!» La mia pazienza arrivò al limite, aveva tirato troppo la corda… e le diedi una spinta piuttosto violenta, tanto da farle perdere l'equilibrio e cadere all'indietro. Andò però a sbattere la testa contro il pilastro e perse i sensi.

Un silenzio tombale avvolse il posto, tanto che potei avvertire il cuore pulsare nel petto, mentre osservavo la ragazza. Iniziai ad indieteggiare. "Che avevo fatto?!"

«Maddalena.» Dopo un iniziale sbigottimento, Nina si accovacció al suo fianco e la chiamò più volte, dandole dei buffetti. Il sangue correva lungo le mattonelle e le tinse di rosso vivo. «Non si sveglia! Federica! Non si sveglia. Maddalena! Che facciamo?» Ad un certo punto, il fuoco divampò e divorò mobili e altre cianfrusaglie vecchie. Lo guardai con espressione assente, senza muovere un muscolo. «Sta prendendo fuoco!»
Mi guardai in giro mentre Nina tentava con ogni mezzo di far rinsavire la biondina. Quella voce diventò di colpo un eco nel cervello, destinato a sbiadire per lasciare il posto ai pensieri.
Nina era impaurita, mi supplicava di fare qualcosa ma sembravo un fantasma.

Ero arrivata a credere stupidamente che da una piccola vittoria, avrei ricavato qualcosa di positivo e sarebbe cambiato tutto. Invece avrei dovuto capire che nulla potesse essere cambiato.
Che il mio destino era già segnato e rimandare l'inevitabile non serviva a nulla. Mi ero sbagliata.
Nina supplicava, singhiozzava, e le sue suppliche mi tirarono fuori da quello stato di trance.
Mi riportò alla realtà, al calore del fuoco che stava per radere completamente il posto.
Mi avvicinai anch'io alla ragazza e dato che non era in sé, le ordinai di metterla sulla mia schiena. Uscire da un posto avvolto dalle fiamme non era un'impresa facile, ma non mi sarei arresa, senza prima combattere. Camminai a piccoli passi in un corridoio stretto, dove imperversavano fiamme ad altezza d'uomo, facendo attenzione a dove mettevo i piedi. Ad un certo punto, dal soffitto precipitò una trave infuocata, che stava per finirci addosso, e sollevai il braccio per fare da scudo alle due.
Si infranse sul mio arto e ignorando il dolore devastante che stavo avvertendo, lo lasciai cadere con un tonfo secco. Sistemai Maddalena sopra le mie spalle e continuai il tragitto, fino a che non uscimmo all'esterno.
I vigili del fuoco giunsero dopo qualche minuto e spensero le fiamme e ad essi si aggiunse anche la polizia per far luce sulla dinamica. Decisi di non mettere in mezzo Angelina, non aveva responsabilità sull'accaduto e di confessare che ero stata io ad appiccare l'incendio. Non volevo che altri pagassero, e andava bene così. Mi condussero di peso in centrale e ordinarono lo stato di fermo, fino a che la situazione non fosse stata chiarita.

[...]

Il dolore al braccio non si era affievolito e l'ustione probabilmente era più grave di quanto pensassi. Solo che non l'avevo detto, preferivo sopportare in silenzio.

La guardia mi chiamò. «Ehi, ragazzina! Hai una visita.»

Spalancò la porta della cella e nonostante il dolore che mi tagliava in due il respiro, mi alzai dalla panca. Aspettai che chiudesse il lucchetto e prendendomi il braccio mi accompagnò verso sala colloqui, dove i detenuti ricevevano visite. Io avevo solo mia nonna e nessun'altro, ma non era stata avvisata. Sbirciai dal vetro e notai il moretto che aspettava seduto al tavolo. “Che ci faceva qui? Sicuramente era stata Nina ad avvertirlo, anche se le avevo espressamente chiesto che non volevo parlare con nessuno.”
Entrai e mi andai ad accomodare, senza alzare lo sguardo dall'altra parte del tavolo, nascondendo le mani.

Giovanni si limitò a fissarmi, poi allungò la sua. «Fammi controllare il braccio.»

Lo guardai a malapena due secondi prima di piegare la testa.
«Non è nulla.»

«Mostramelo.» insistè.

«Non ho nulla, ti ho detto che sto bene.» ribadii e non sarebbe stato quel dolore a scalfire il mio orgoglio.

«Non mentire, voglio vedere che ti sei fatta. Andiamo.»

Gli tesi il braccio destro e lasciai che facesse la parte che gli riusciva meglio: occuparsi di una paziente. Fece salire più su la manica della camicia bucata in più, scoprendo l'avambraccio che aveva un aspetto orripilante, la pelle era diventata rossastra e si era ricoperta di bolle. Lo guardò con aria seria e poi vi applicò una crema. Trasalii e dovetti mordere il labbro inferiore per non increspare una smorfia e dargli una soddisfazione. Lo scrutai mentre era attento a quello che stava facendo.

«Che stupido, vero? Tu ed io…»
Giovanni stavolta sollevò il suo sguardo per incrociare il mio. I nostri occhi per un po' non si schiodarono e restò immobile sulla sedia con il mio braccio fra le sue mani. Non rispose e ritornò ad applicare la crema. «Ti espelleranno dalla scuola per colpa mia.»

«Non preoccuparti per questo. Dobbiamo pensare a te. Ti sei messa in un grosso pasticcio.»

Tolsi velocemente il braccio tirando giù anche la manica e mi adagiai contro lo schienale.

"Dovevo tenere conto dei miei casini esistenziali a lui? Non era niente per me che un insegnante impiccione che aveva incrociato per caso la mia strada."

«Sono cose a cui sono abituata. Non ho bisogno di nessuno.»

«Federica. Senti, questa non è una questione semplice.» tentò di dire.

«Sì, ma è un mio problema.» "Come glielo dovevo spiegare che non avevo bisogno del suo aiuto? Doveva lasciar stare e non perdere tempo a correggere la mia condotta sgretolata." Abbassai gli occhi e puntellai i palmi sul tavolo rimettendomi poi in piedi. «Grazie di tutto.» Giovanni avrebbe voluto dire qualcosa, ma non lo lasciai parlare. «Credo che questa sarà l'ultima volta che ci incontreremo.» E sarebbe stato meglio. Meglio per lui e per me.

«Ci stiamo dicendo addio?» Mi scrutò di sottecchi come se cercasse conferme.

Abbassai lo sguardo contro il pavimento e deglutii per poi tornare a guardarlo.

«Non voglio che ritorni più. Non sarebbe giusto che ci vedessero insieme.»

Giovanni mi osservò per qualche secondo e sapevo che in fondo lui era d'accordo con me. Gli avrei rovinato la carriera scolastica se avesse preservato.

«Hai ragione.» Sollevai lo sguardo e avvitò il tappo, per poi prendermi la mano e darmelo. «Quando ricomincia a bruciare, applicala di nuovo.» Feci un cenno d'assenso. «Il dolore non andrà via subito…» Accennai un sorriso. «Ma con il tempo si attenuerà, tranquilla.» Mi specchiai nei suoi occhi verdi per l'ultima volta, prima di andare verso la porta e appoggiai la mano sulla maniglia. Per qualche istante, restai immobile e indecisa se abbandonare o meno la sala. Mi sarei lasciata quel professore alle spalle e una cosa, che sembrava così semplice, in realtà non lo era.

Alla fine, era una decisione intelligente e ponderata. Non volevo distruggere la sua vita, trascinandolo nel baratro.
Ci avevo riflettuto e chiamai la guardia affinché mi riportasse in cella.

[...]

Era già trascorsa una notte dal mio arresto e la nonna si era presentata in sala colloqui, portando con sé un po' di cibo, che avrebbe sfamato un esercito romano. Si era impegnata e non sembrava neanche arrabbiata con me per essere stata imprigionata, ma non avevo voglia di assaggiare quelle pietanze e le guardai impassibile, con le braccia congiunte sugli avambracci. La donna sfoggiava un sorriso smagliante e mi esortò a mangiare.

«Non merito di mangiare, nonna.»

Allungò la mano e spostò il piatto più vicino. «Mangiare non è un diritto da guadagnare. Senti, ti ho preparato qualcosa di speciale per recuperare le forze molto presto. Non farmi pentire di essere venuta.»

«Non venire! È quello che ti chiedo, nonna.» Il sorriso le si affievolì e tornò seria. Era già una vergogna per lei dover stare a sentire la gente in città rinfacciarle di avere una nipote criminale. «Venire qui ti farà solo sentire male!»

«Apri bene le orecchie e ascoltami attentamente.» Il suo tono si alzò di un'ottava e mi puntò il suo indice. «Non te lo ripeterò.» Sospirai. «Fin dall'inizio, volevo che tu fossi con me. Non ho avuto mai paura di niente in vita mia e non sono mai scappata, anche quando il medico ha detto che avevo il cancro!» La sua confessione improvvisa fu paragonabile a una secchiata d'acqua gelida, che qualcuno mi buttò addosso. Dilatò le iridi marroni e ammutolì, quando si rese conto di averlo detto.

«Cosa? Non è vero...» Abbozzò un sorriso. «Hai il cancro, nonna?»

«Allo stomaco.» specificò. Non sembrava preoccupata, anzi per lei era quasi una banale cosa e sbattei le palpebre. «Non guardarmi con quella faccia, figliola. È come avere l'influenza. Succede a molte persone. Dovrò essere operata.»

Non era mica una stronzata? Perché stava minimizzando?

«Questa è una cosa molto seria. Nonna, che dici?»

«Non avevo intenzione di dirtelo, ma ci ho pensato e mi son detta — alzò gli occhi al cielo, portando la mano al livello della sua tempia — questa ragazza dev'essere lì sola e annoiata. Se ha qualcosa a cui pensare, non si annoierà.»

«Cosa dicono i dottori?» chiesi.

«Be', che non si è esteso da nessun'altra parte e questa è una cosa buona.» Distolse lo sguardo e parve rattristarsi. «Anche se non si sa cosa può accadere quando entri in una sala operatoria.»

Poggiai la mano sul suo dorso e fu il mio turno di rassicurarla. «Ti riprenderai e vivrai, d'accordo? Ne uscirai fuori. Ce la farai.»

Mi guardò a sua volta negli occhi. «Non continuare. Non puoi rimanere chiusa qui dentro e dirmi di lottare per vivere.» Si sporse in avanti, tenendo stretta la mia mano nella sua. «Puoi dirmi tutto. Sono dalla tua parte. Non hai appiccato tu l'incendio, vero?» Feci scivolare via la mano, schivando il suo sguardo e rimasi in silenzio. «Non so cosa sia successo. Ma io ti conosco. Non sei il tipo di persona che farebbe una cosa del genere. Andiamo, dimmi la verità. Smettila di punirti in questo modo!»

«Voglio che te ne vada.» tagliai corto, ignorando le sue accorate suppliche. Poi mi sporsi in avanti. «Fai l'intervento chirurgico il prima possibile e guarisci.»

Mi misi in piedi lentamente per terminare quell'incontro e fece altrettanto, prendendomi il polso. «Fede!» Mi strinse il braccio e lo toccò per controllare che non avessi nulla di rotto. «Non sei ferita da nessuna parte, vero?»

«No.» risposi per poi nascondere l'altro braccio dietro la schiena.

«Dimmi la verità.»

«Ti ho detto la verità. Sto bene.»
Tirai via il braccio dalla sua presa e le diedi le spalle raggiungendo la porta, sentendo le lacrime salire agli occhi. Strattonai la maniglia più volte finché non riuscii ad aprirla e potei allontanarmi da lei. Non meritava tutti quei dispiaceri. Non meritava di avermi in mezzo ai piedi. Meritava di stare bene ed essere contenta.

Una volta arrivata alla mia cella, la guardia mi aprì la porta ed entrai, sentendo la terra sotto i miei piedi sbriciolarsi del tutto. Ritornai seduta sulla cara panca, con l'anima lacerata, al pensiero che tutto stava andando bene, che stavo cercando di essere una persona migliore e di realizzare il sogno di mia nonna. Il pensiero che avessi fallito in quel tentativo mi portò ad inondare il viso di lacrime. Il mio cuore era a pezzi e non c'era una cura per quello.

Giovanni

La decisione era ormai presa, non sarei più rimasto in quel posto col rischio di peggiorare la situazione di Federica. Feci i bagagli e li portai di sotto, incontrando lo sguardo teso della padrona di casa. Probabilmente tornava dalla prigione, aveva fatto visita alla nipote, e la sua rabbia era più che giustificata nei miei confronti.
Mi avvicinai per poterle restituire le chiavi e ringraziarla per quei mesi trascorsi.

La donna le prese immediatamente.
«È la cosa giusta da fare nella tua situazione, giovanotto? Sarà meglio che tu te ne vada.»

Annuii. «Grazie mille per tutto. Mi sono trovato bene qui e—»

«Odio quello che è successo, ma hai fatto tanto per mia nipote. Grazie.»

Dopodiché rientrò senza farmi replicare e si chiuse dietro la porta. So che non era quanto si aspettasse dall'insegnante a cui l'aveva affidata e mi dispiaceva per come fosse andata a finire. Ma se avessi potuto fare un'ultima cosa, l'avrei fatto.
Avrei pagato chiunque per farle continuare il percorso scolastico, sarebbe stato un peccato sprecare il suo enorme potenziale.

[...]

Mi ritrovai nell'ufficio del preside, a cui avevo chiesto una convocazione straordinaria e inoltre dovevo comunicare la mia decisione definitiva. L'uomo continuava a pensare allo scandalo che si sarebbe abbattuto sull'istituto. «Sono un po' preoccupato. Signor Rinaldi… questo è uno scandalo! — tirai un sospiro, guardando in basso — e se la stampa lo scopre, il ministero, un'indagine... avremo un grosso problema.» Distolse il volto per qualche secondo. «Come lo risolveremo?»

«Mi assumo la responsabilità. Se è stato commesso un errore, è colpa mia. Io sono l'insegnante, ma non lascerò che tocchino i miei alunni.»

«Come?» chiese.

«Federica resterà a scuola e finirà qui i suoi studi.»

«Questo è impossibile. I genitori non lo accetteranno e il signor Paolo mi ha pressato tutta la mattina. Ha molti contatti e ci farà saltare in aria.»

«Non si preoccupi. Ho parlato con il signor Paolo, Maddalena ritirerà la denuncia.» Appoggiai la lettera bianca sulla scrivania proprio davanti ai suoi occhi.

«Cos’è questo?»

«La mia lettera di dimissioni.» L'uomo slittò lo sguardo dalla carta che stringeva fra le mani al sottoscritto. «Me ne vado, signore. Non sarò più un problema. Grazie per tutto.»
Mi sollevai dalla poltrona, non dandogli modo di ribattere, e uscii dall'ufficio. Ormai la mia avventura era terminata.
Non avevo più nulla a che vedere con quel liceo.







Federica

Pensavo che avrei trascorso altre giornate e altre notti in quella cella a tracciare segni invisibili sulla panchina e a veder scorrere lentamente il tempo, come se fosse passato un mese, ma l'arrivo della solita guardia che aprì la cella, mi fece distogliere lo sguardo. Mi alzai, credendo che si trattasse di una visita, anche se la nonna non me ne avrebbe fatte visto come l'avevo trattata la scorsa volta, ma il giovane mi comunicò che la mia detenzione era finita. La cosa mi stupì ma ugualmente mi trascinai fuori.

[...]

Era notte inoltrata quando feci ritorno alla pensione e mi affacciai dalla soglia della stanza, scoprendo che la nonna stava dormendo. Ero contenta di rivederla, mi era mancata e inoltre sarei stata al suo fianco domani. Mi sedetti silenziosamente al suo fianco e le posai un bacio sulla fronte per poi appoggiarvi la guancia.

«Non ti lascerò sola, nonna. Sarò con te mentre ti operano.» bisbigliai posando la mano sulle sue unite sul grembo. Non avrei lasciato il suo capezzale per niente al mondo. Volevo essere lì per darle forza e consentirle di affrontare e vincere la battaglia.

[...]

L'intervento era stato programmato per oggi, il dottore non aveva voluto perdere tempo e la nonna fu ricoverata e messa in una stanza in attesa che venissero a prenderla.

«Non preoccuparti per me, cara.»

In realtà, lo ero, ma sdrammatizzai tenendole la mano. «Perché dovrei preoccuparmi per te? Se hai tenuto testa a me, sono sicura che batterai anche il cancro.»

Ridacchiò. «Questo è vero. E ti assicuro che non intendo morire fin quando non ti vedrò laureata.»

«C'è ancora molto tempo. Mi metterò in altri guai, soprattutto prima di quel giorno.»
Appoggiai la guancia contro il suo dorso, rivolgendole un sorriso.

«Guarda, bambina, il medico ha detto che sarà un'operazione facile e che presto potrò alzarmi.» Feci di sì e sollevò leggermente la testa dal cuscino. «Non aver paura, piccolina. Tornerò da te.»

«Non lo so...» Mi alzai per sdraiarmi al suo fianco e le abbracciai il corpo. «Se non ti alzi, resterò al tuo fianco.»

Mi lasciò un bacio sulla testa e mi circondò con le braccia.
«Oh, bambina mia. Ti voglio un bene.» Mi accarezzò le braccia e chiusi le palpebre, per poter ascoltare il battito del suo cuore attraverso la camicia da notte.

Desideravo che quel calore e quell'abbraccio potessero durare per sempre, congelare il tempo lì e permettermi di stare con lei. Dopo poco gli infermieri la vennero a prelevare per portarla di sotto e la seguii, non lasciandole la mano. Condussero la barella fino all'ascensore e, per tutto il tragitto, non smise di sorridere e di dirmi che sarebbe andata bene e sarebbe tornata in un lampo.

«Non sono brava a stare da sola. Riprenditi presto.» le rammentai.

«Lo dirò al dottore.» Le baciai la mano e la barella si fermò, davanti all'ascensore. «Ah, a proposito, il mio dottore è il padre della tua amica Maddalena. Mi salverà la vita. Mi pare che saremo in debito con lui.» Evitai di dirle che io e Maddalena non potevamo definirci "amiche", ma sorvolai e le baciai un'altra volta la mano. Il personale sanitario fece scivolare la barella nella cabina e mi salutò, sventolando la mano. «Dio ti benedica, figliola.» Le mandai un bacio volante e vidi il sorriso illuminare il suo viso, prima che le porte si chiudessero. Ora ch'era sparita dal mio campo visivo, l'angoscia iniziò a stringermi le viscere in una morsa.

Sperai che tutto finisse. Mia nonna ce l'avrebbe fatta. Sarebbe sopravvissuta. Avrebbe sconfitto la sua malattia e mi avrebbe visto realizzare il mio progetto.

[...]

Attendevo impaziente sue notizie sella sedia nella sala d'aspetto, in prossimità del blocco operatorio. Non sapevo quante ore fossero passate da quando l'intervento era iniziato, eppure nessuno era uscito. "Possibile che fosse lungo? La nonna non avrebbe dovuto metterci troppo."

Il chirurgo spuntò fuori dalle porte, chiamando un infermiere. Balzai in piedi e mi catapultai di fronte a lui.

«Dottore! Cos'è successo?» Guardai oltre le sue grandi spalle nella speranza di vedere la barella uscire, ma il medico abbassò la testa.

«Sono emerse alcune... complicanze.»

«Che intende dire con questo?»

«Non hai parenti nelle vicinanze? Faresti meglio a farglielo sapere» "Non capivo dove volesse arrivare con tutti quei giri di parole. Parlava come se lei non ci fosse più. Non poteva essere. Distolse lo sguardo, non guardandomi, quando sussurrò con un filo di voce. «Perché dovranno organizzare la sepoltura.»

«Che cosa?» mi limitai a dire con gli occhi incollati a quelli del chirurgo e sbattei le ciglia, confusa. «Cosa mi stai dicendo?»

«Quando arriverà un membro della tua famiglia digli di cercarmi. Gli darò tutte le spiegazioni. Tu sei minorenne.»

Fece l'atto di allontanarsi da me e glielo impedii, ponendole la mano sul braccio. «Che sciocchezza è questa?» L'uomo mi fissò con espressione impassibile, mentre gli occhi mi pizzicarono. «Io sono la sua famiglia e lei è la mia. Non c'è nessun altro. Dove sta?» mi tremò la voce.

«Quando arriverà un adulto, avvisami. Gli spiegherò tutto.» Mi oltrepassò, con al seguito l'infermiera che gli corse dietro, lasciandomi nel bel mezzo del corridoio. La mia mente era piena di domande, di sospetti e paure, pronte a concretizzarsi.
In quel frangente, l'unica immagine che mi stava passando davanti fu lei che mi salutava con la mano, sorridendo. Cercai di respirare profondamente, mi sembrava di star per crollare e di sfracellarmi al suolo senza paracadute. Altre immagini mi tornarono come flash momentanei. Mi aveva accolto, fatto sentire per la prima volta amata, mi aveva dato un obiettivo, mi aveva fatto stare bene. E adesso? Se n'era andata. Mia nonna non c'era più. Chiusi le palpebre con le lacrime che stavano scendendo senza sosta, piegandomi in avanti e tappando la bocca con la mano per non urlare. Le gambe non mi ressero più e mi ritrovai in ginocchio, mentre piangevo a dirotto, schiacciata da un dolore, che si aggiungeva ad altri. Pezzo dopo pezzo, la mia anima era in frantumi, risucchiata in un vortice senza via d'uscita. Quasi non riuscii a trovare un freno mentre piangevo con la mano premuta sul petto. Il cuore batteva ad un ritmo velocissimo, fin quasi a schiantarsi nello sterno. Alcune lacrime mi caddero lungo le guance e poi gocciolarono sul pavimento. Una parte di me se n'era andata. La perdita di mia nonna mandò tutto in subbuglio e spense la speranza che avevo da pochissimo ritrovato.

[...]

La nonna venne seppellita il giorno successivo, e fu una cerimonia molto intima e con pochi presenti, ma oltre a lei, avevo seppellito anche la mia felicità nel fondo a quel fosso.
Di lei non restava che un pezzo di carta scritto giorni addietro, che avevo trovato sul comodino in camera. La raccolsi e scartai, spiegando quel foglio immacolato che portava impresso le sue volontà e mi sedetti sul ciglio del letto, dalla sua parte. Lessi con il cuore gonfio di tristezza e gli occhi rossi. Le mani tremavano, mentre seguivo con gli occhi quelle righe.

“Mia cara Federica. Voglio operarmi per vedere il tuo successo e il futuro meraviglioso che ti aspetterà. Non dimenticarlo mai. Se non dovessi farcela, non metterti a piangere e non essere triste per me.” Asciugai gli occhi ma non smisi di piangere. La ferita inferta al cuore non si poteva curare. “Studia molto, impegnati più che puoi, e conquista riconoscimenti. Mettiti quel camice bianco, sennò gli sforzi che abbiamo fatti non saranno serviti a niente. So che puoi farlo e non lascerai che nulla ti abbatta. Hai fatto una promessa importante, figliola. Il poco denaro che ho in banca è tuo, sperando che sia sufficiente. Chiederò al Creatore che si prenda cura di te, ti dia la felicità che meriti e ti metta sul cammino delle persone buone. Ti amerò per sempre, ovunque sarò.»
Terminò la lettera con "tua nonna" e ripresi a piangere.
Una parte di me non esisteva più. Avevo perso il mio rifugio, avevo seppellito la persona che mi aveva sostenuto quando altri mi avevano lasciato a me stessa.

Angelina si affacciò dalla soglia e mi vide distrutta con la lettera in mano, anche lei e il padre avevano preso parte alle esequie e quest'ultimo aveva aiutato a ricoprire la sua bara di terreno. Si posizionò accanto a me e appoggiò il capo sulla mia spalla, tirando su con il naso e la sua presenza un po' allegerí quel macigno.

«Fe…» sussurrò mentre m'inumidivo le labbra e inclinavo la testa da un lato per poterla unire alla sua. «Lo so che le parole non servono, ma tua nonna è orgogliosa di te e ti guarderà dal cielo. Non lasciarti andare perché hai tante persone su cui contare, me compresa.»

«Nina…» biascicai tra le lacrime, e mi si strinse addosso.

«Non sentirti sola e abbandonata, Fe. Tua nonna non c'è più, ma ci sono io. E non ti lascerò mai. Sarò sempre dalla tua parte e al tuo fianco, qualunque cosa accada.» Si mise dritta e mi massaggiò la schiena, mentre le lacrime mi correvano lungo le guance.

«Ti va di prendere un po' d'aria? Ti farebbe bene.» propose, aspettando un mio cenno affermativo e mi lasciai guidare fuori dalla camera.
Le sue cose erano rimaste, esattamente come il suo ricordo, che avrei custodito dentro di me.

Nina mi fece sedere ad uno dei tavoli in giardino, mi prese la mano e la strinse fra le sue più piccole, ma non riuscivo a guardarla negli occhi e fingere di non essere stata investita da un tram e di aver riportato fratture tali da non poterle contare. Il mio umore intanto peggiorò quando incrociai lo sguardo di quella dannata strega, che non nascondeva la sua soddisfazione.

«Sembra che la sfortuna ti accompagni ovunque tu vada. Chissà cosa le hai fatto per farle venire un cancro per il dolore.»

Sollevai immediatamente lo sguardo e balzai in piedi, per avventarmi su di lei, ma mio padre mi trattenne per le spalle e così Angelina che corse al mio fianco. «Che stai dicendo? Ma cosa dici?»

«Solo la verità. Qualunque cosa tu le abbia fatto, ora stai piangendo per la vergogna.»

Diedi un colpo alla spalla di mio padre, che era lì davanti, facendolo voltare nella mia direzione. «Perché resti in silenzio? Dì qualcosa! Cosa sei, un padre, un figlio, o cosa? Perché glielo permetti? Comportati da uomo con tua moglie e falla tacere, lei non conta nulla qui.»

«Sei una maleducata! Perché non te ne vai?»

«Me ne andrò, sì.» Nina che intanto fortificò la presa sul mio braccio. «Spero che Dio non punisca tua figlia per i tuoi peccati.»

La donna oltraggiata si rivolse a mio padre, gridandogli: «Guarda che dice! Lorenzo, dì qualcosa a tua figlia o non riuscirò a controllarmi.»

Alzai l'indice, puntandolo contro di loro guardandoli. «Lo so che avete ricevuto i soldi dall'ospedale.» La donna fece una faccia perplessa. «Questa storia non finisce qui.»

«Che dici? Era per il funerale.» intervenne fingendo di essere all'oscuro della faccenda.

«Non credo ad una sola parola di gente senza scrupoli come voi due! E mi vendicherò di tutti, vedrete.» Dopo aver lanciato quell'avvertimento, volsi le spalle a entrambi scansando anche Nina che cercò di trattenermi.
Mi allontanai per cercare risposte.

Qualsiasi cosa fosse accaduta in quella maledetta sala operatoria… la verità la conosceva quel medico.
Non avrei lasciato quel caso in sospeso e avrei combattuto con le unghie e con i denti per scoprire la realtà dei fatti, anche a costo di impiegare anni.

[...]

Varcai le porte della clinica e mi avvicinai al bancone per chiedere informazioni su dove trovare il dottor Paolo Svevi, colui che aveva eseguito l'intervento di mia nonna e mi doveva delle spiegazioni. Mentre l'infermiera mi chiese un momento per controllare sul database, ruotai il collo e lo vidi spuntare nel corridoio, intrattenendosi a parlare con un infermiere.

Mi avvicinai con grandi falcate e lo afferrai per il lembo del camice strattonandolo. «L'ha uccisa.» ringhiai, stringendo i denti. «So ch'è stato lei. Lei è l'assassino!» L'infermiere mi tirò indietro per il braccio, ponendo una certa distanza e allungai il braccio. «Ha detto ch'era un intervento semplice, è un assassino, mi ha sentito bene?» urlai ai quattro venti e l'uomo a stento mosse un muscolo facciale.

«Lasciala. Fallo.» Mi liberai dalla presa del giovane con uno strattone. «Non sa cosa sta dicendo per la tristezza.»

Sapevo cosa affermavo, così come non credevo affatto alla sua versione. Qualcosa non mi quadrava.

«Mia nonna sorrideva quando è entrata. Dev'essere successo qualcosa.» Appoggiai la mano sul petto dell'uomo ormai fuori di me. «Qualcosa che è andato storto.»

«Ho fatto quello che ho potuto. Ho anche parlato con la tua famiglia. Ho dato anche un compenso per rimediare...»

Strattonai il braccio di nuovo dalla presa dell'altra. «Non può rimediare ad un cazzo. È morta, capisce? Può rimediare?»

«Sono desolato. Ma non posso fare altro. Non era la mia unica paziente.»

Non poteva cavarsela facilmente e provai di afferrargli il braccio prima che scappasse come un coniglio. «È stato lei! Lei è il responsabile, ha sentito bene?! E intendo dimostrarlo!» L'uomo scosse il capo più volte, prima di abbandonare il corridoio, come se fossi io ad avere un problema e non lui, che aveva appena provocato la morte di una persona innocente. «Lasciami!» sbottai facendo mollare il braccio dal ragazzo, che m'indicò l'uscita. «Lasciami in pace!» ripetei andando più avanti e indietro nervosa, sotto gli occhi dei presenti atterriti, dopo aver sentito le mie accuse gravissime. Li ignorai e uscii dalla clinica a passi svelti, percorrendo la rampa esterna. Continuai a camminare sul marciapiede e il cellulare vibrò nella tasca della mia giacca. Lo estrassi e guardai il nome, che lampeggiava sul display, e lo riposi lì. Non volevo parlare con lui, né con nessun altro.
In quel momento l'unica cosa che volevo era rimanere sola.

«Federica!» mi sentii chiamare e voltandomi vidi Giovanni arrivare, correndo come un forsennato. "Cosa ci faceva qui? Chi lo aveva avvisato? Sicuramente era stata Nina. Quella ragazza non poteva farsi gli affari suoi." «Perché non me l'hai detto?»

Buona questa… dovevo pensare di dirgli che mia nonna era malata e che avrebbe dovuto operarsi per un cancro allo stomaco? E lui che c'entrava? Erano fatti miei quelli.

«Avrei dovuto?»

«Ti ho detto che sarei stato sempre al tuo fianco, però avrei dovuto sapere per poterlo fare.»

«Non voglio.» affermai. Giovanni mi guardò negli occhi e ressi quel confronto. Volevo che capisse che non avrei cambiato opinione.

«Ok. Ascolta, non è il momento migliore per parlarne. Non devi parlare se non te la senti.» Poi il giovane piegò la testa. «Aspetteremo quando sarai pronta.» Si specchiò nei miei occhi ed io nei suoi. «Ma permettimi di rimanere al tuo fianco, non lo affronterai da sola.» Mi guardò in silenzio e il vento mi soffiò tra i capelli. «Per favore.»

"Che pretendeva da me? Restare, e dopo? Che sarebbe accaduto? Ora non avevo la forza di sopportare.

Restammo altri secondi interminabili con gli occhi incollati, l'uno di fronte all'altra.
«Si intromette sempre in questo modo nella vita di tutti i suoi studenti, professore?»

Giovanni non rispose e allora voltai le spalle, allontanandomi di qualche passo.

«Non mi vuoi al tuo fianco, Federica?» La sua domanda mi bloccò su due piedi e serrai le palpebre, lasciando cadere una lacrima sul viso che però asciugai con il pollice.

Dovevo farlo... altrimenti avrei condannato anche lui. Dovevo farlo, non solo per me stessa.
Le nostre strade non potevano più incrociarsi. Mai più.

Restai girata di spalle, senza guardare indietro, per non rischiare di mandare i miei piani all'aria. Presi un respiro, anche se era difficile. «Voglio che tu vada via. Per favore, non voglio più vederti.»

Dopodiché ripresi il cammino a testa alta. Avevo preso quella decisione, cosciente di avere il cuore devastato, ma ero determinata a non lasciarmi impietosire da quelle emozioni o quei pensieri. Giovanni era un capitolo chiuso, ormai.

Una moto all'improvviso frenò bruscamente affianco a me e mi fermai. Guardai Nicolò che mi stava indicando col mento di saltare su e accettai. Salii dietro al ragazzo e diede gas, sgommando via. Non solo ero scappata dal mio ex insegnante, ma anche da quello che sarebbe potuto essere.

Era finita.








Roma — 2022

Avevo appena terminato il giro delle visite ai pazienti e stava percorrendo i vari corridoi dell'ospedale fianco a fianco con un tirocinante del quarto anno.
Per il primo giorno avevo dovuto affrontare quell'uomo scorbutico e i suoi uomini tutto d'un pezzo. Bell’esordio, direi.

«Somministra ansiolitico e falle un esame emocromocitometrico.»

«Sì, dottoressa.» rispose svelto il ragazzo, stando al mio passo.

«Se è necessario, esegui un check up.» continuai e ottenni un altro sì da parte del giovane. «E tenete la sala operatoria, pronta per ogni evenienza.»

«Va bene, dottoressa.»

Lo guardai di rimando, gesticolando con la mano.
«Dì alle guardie di fare attenzione con quegli uomini. Sembrano mafiosi.»

«Sì, come vuole.»

Tornai ad infilare le mani nelle tasche del camice. «Voglio vedere i risultati appena saranno pronti. Vieni nel mio ufficio e tienimi aggiornata.»

«Dottoressa!» Ad un certo punto, un'altro infermiere arrivò dalla parte opposta e mi fermai. Mi superava di qualche spamma in altezza e alzai la testa. «Un elicottero sta atterrando sul tetto, con un paziente in codice rosso.»

Non lo lasciai finire di parlare e mi diressi spedita verso l'ascensore, fiondandomi nella cabina per poi premere il bottone dell'ultimo piano. «Dov'è andato il medico di turno?»

«Non lo so.» rispose sbattendo le braccia lungo i fianchi mentre le porte si chiudevano. Non importava in quel momento, ciò che avevo imparato con anni di studio era che nel nostro lavoro era fondamentale dare priorità ai pazienti. Una volta fuori, percorremmo la rampa esterna che ci avrebbe condotto sul posto e il giovane infermiere si impegnò ad elencare tutti i dettagli di quel nuovo caso. «Donna, 21 anni. In stato di incoscienza. Dilatazione delle pupille di tre, quattro millimetri. Non mostra segni vitali.»

«Qual è la tua diagnosi?» lo interruppi.

«Emorragia cerebrale.»

«Quando sono iniziati i primi sintomi?»

«Cosa?» balbettò.

«Bene, cosa?» Mi girai a guardarlo. «Rispondi. Quanto tempo è passato?»

«Forse non lo sa perché è nuova, ma Maddalena e io siamo buoni amici.»

"E cosa c'entrava quel discorso con il suo operato? Dove voleva arrivare?"

Questo non toglieva il fatto che fosse impreparato su delle nozioni così facili. Conoscere la dinamica dei fatti era importante per stabilire una diagnosi e avere un quadro della situazione più chiaro possibile.

Arrivammo sul tetto e ripresi quel discorso che aveva aperto, durante il tragitto. «E allora? Vuoi essere anche un mio amico o che ti copra le spalle?»

«No, non intendevo questo.»

Lo fissai ancora. «Pensi di avere qualche privilegio?»

Il ragazzo rispose. «No.»

«Sai, ti insegno una cosa.» Girai il cartellino di riconoscimento attaccato al suo camice e lessi. «Dottor Zenzola.»

Sorrise. «Sono qui per questo!»

«Sbagliato. Sei qui per essere il mio schiavo.» Al giovane il sorriso morì sulle labbra, tramutandosi in una smorfia. «E se provi di nuovo ad usare i tuoi contatti, farai solo esami rettali in pronto soccorso. Hai sentito bene?» Annuì leggermente e distolsi lo sguardo, mentre l'aereo stava iniziando la manovra di atterraggio dopo aver sorvolato i cieli della capitale. Sollevò un po' di vento, ma non mi scompigliò la chioma corta e non ne risentivano di quelle potenti folate di vento.
Le ruote intanto si erano appoggiate al suolo e il pilota fece segno di avvicinarsi. Il personale sanitario portò la barella e restai ad osservare in disparte. Successivamente posizionarono la paziente sopra la barella. Nel frattempo, un uomo era appena balzato giù con un rapido scatto dall'aereo.
Come se qualcuno mi avesse tirato addosso dell'acqua ghiacciata, un brivido corse lungo la spina dorsale.
Mi paralizzai alla vista di lui e il respiro si mozzò in gola.
Non poteva essere. Era uno scherzo...
Stava dando indicazioni con l'indice all'equipe con maestria per far condurre via la barella, mentre ero rimasta imbambolata. Neanche in un sogno remoto avrei immaginato questo. Il ragazzo controllò l'ora sul suo orologio al polso e poi alzò lo sguardo, sfoggiando dagli occhiali da sole, che lo stavano rendendo quasi da modello in passerella. Mi vide a qualche metro da sé e li tolse, mentre cercai di distogliere lo sguardo ma invano. I suoi occhi mi guardavano intensamente e, in seguito lentamente, quasi come se la scena fosse a rallentatore, si avvicinò e si fermò di fronte a me. Non potevo fare la figura imbambolata. Non era il luogo adatto quello. Non dovevo farmi distrarre dal suo sguardo.
Mi ripresi dalla trance e tornai a occuparmi del caso.

«Da quanto tempo è priva di sensi?»

«Quattro ore e quarantacinque minuti.» Feci cenno di aver capito. Si guardò attorno per poi sollevare il mento. «Sei sposata?»

Lo guardai come se fossi sotto incantesimo e scossi il capo. «No.»

«Hai un fidanzato allora?»

«No.» ripetei.

«Bene. Sono contento.»
Mi oltrepassò per scendere la rampa con nonchalance e restai nello stesso punto, ancora con la testa altrove. Feci qualche passo con la bocca leggermente aperta per lo sbalordimento e, a momenti, non ricordavo più di essere sul tetto. Il ritorno inaspettato di Giovanni Rinaldi mi aveva scombussolata, non sapevo come reagire o cosa pensare, mentre l'aereo stava prendendo quota di nuovo...

~ Fine primo capitolo ~

Si chiude così il primo capitolo della storia “Vite Incrociate”.
Ma la storia continua...


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