Capitolo 1.2 - Una ragazza ribelle

«La sua nuova studentessa, Federica.» Rettificavo:
— la vita non mi aveva mai dato ciò che volevo e quella era direttamente la ciliegina sulla torta. Quel tipo che mi aveva infastidita dal primissimo momento si scopriva adesso essere il mio insegnante.
“Bene, ma non benissimo, certo.”
Era una spina nel fianco. Roteai gli occhi, distogliendoli da quelli dell'uomo. «Sarà il tutor di quest'alunna. È la nipote di Elena.»

Non era entusiasta di vedermi, infatti i suoi tratti si irrigidirono e distolse lo sguardo.

«Non posso prendere questa alunna nella mia classe.»

Roteai il viso. Cos'era ciò che vedevo baluginare sul suo viso? Paura? Incertezza? Paura di avere a che fare con la sottoscritta?

«Non ha altra scelta. Non abbiamo altre opzioni. Le altre sono tutte al completo.»

«Anche la mia classe è piena signore, e ho altri studenti problematici che necessitano di particolare attenzione. Ne ho abbastanza.» Riportò gli occhi su di me, quando notò ch'ero lì e potevo ascoltare con le mie orecchie che si stesse tirando indietro. «Va' fuori e aspettaci.»

Senza controbattere all'ordine, uscii mettendomi seduta sullo scalino, aspettando che la discussione tra quei due finisse. Ero stanca di stare in quel posto e di essere osservata da quei ragazzini che passavano. La pazienza non era il mio forte. Di cosa aveva tanto da discutere? Forse da una parte ero felice che non volesse sobbarcarsi una tale responsabilità. Anche lui aveva capito che non ero semplice da gestire e che coloro che avevano sperato di riuscirci, si erano arresi ancor prima di provarci.

Dopo quasi un quarto d'ora, quell'insegnante di piccola statura uscì della presidenza.

«Vieni con me.» ordinò, continuando a camminare per conto suo, e mi rimisi in piedi standogli prontamente alle costole. Alcuni ragazzi mi fissavano e bisbigliavano, ma li ignorai. Qualsiasi cosa stessero dicendo, non mi interessava.

Arrivati di fronte all'aula, spalancò la porta ed entrò. In aula, stava succedendo un casino, i ragazzi facevano confusione e si lanciavano palline di carte a vicenda tanto da indurlo ad alzare la voce. «Ok! La ricreazione è finita, smettetela di fare confusione. Dai, dai! Non fatemelo ripetere, seduti.» Mi posizionai davanti alla lavagna, priva di voglia. «Quando si entra in una classe, la regola è: chiudere la porta, giusto?» La indicò con il braccio e andò lui stesso a chiuderla. Tornò accanto alla cattedra e incrociò le braccia. «Bene… oggi abbiamo una nuova alunna con noi, che sta per presentarsi.» Guardai i miei nuovi compagni, trovando ben presto una faccia "conosciuta", quando la ragazza del portafoglio, mi salutò con la manina. Ma non era la sola… c'erano anche quelle tre tipe del bagno pubblico.
Mi voltai nella direzione di quel prof che aspettava solo che mi decidessi a spiccicare una degna presentazione.

«Federica.»

La classe continuò a guardarmi in silenzio, come se fossi un alieno venuto da chissà quale spazio.

«È tutto?» mi incalzò.

«Vengo da Roma.»

«Qualcos'altro?» insistè. "Che altro avrei dovuto dire? Il mio codice fiscale?" Sbattei le braccia contro i fianchi. «Bene, breve e coinciso. Va' a sederti.»

«Qui c'è spazio.» bisbigliò la castana, spostando lo zaino, e mi indicò la sedia accanto.

Mi andai ad accomodare, mettendo lo zaino sulle gambe, e lanciai un'occhiata fugace alla compagna che mi era capitata, quella tipa che mi aveva dato dei soldi e chiamato Xena, perché l'avevo salvata.

Un ragazzo mi fece l'occhiolino e poi sentii qualcuno parlare alle spalle.

«Ci vediamo dopo.»

«E a proposito…» iniziò il professore, portando le mani dietro la schiena. «Prima di iniziare: Chiara, Marta e Giorgia… il preside mi ha raccontato dove siete finite ieri. Andrete nel laboratorio di scienze e mi aspetterete lì. Ne parleremo un po', ok?»

«Non è giusto!» esclamò la bionda ossigenata, scattando in piedi.

«Perché?»

«Lei era lì!» puntò il dito su di me. «È stata lei ad iniziare la rissa. Perché non la punisce?» Spostai gli occhi sul professore che, a sua volta, li aveva su di me, mentre i ricordi della sera precedente mi tornarono in mente. Dopo che avevano iniziato ad attaccarmi, nel bel mezzo della sala, anch'io le ripagai con la stessa moneta, qualcosa mi sfuggì di mano quando un ragazzo che avevo spintonato, crollò in ginocchio toccando per sbaglio il seno ad una ragazza, ricevendo un bel pugno da presumibilmente dal suo accompagnatore. All'improvviso, i presenti iniziarono a picchiarsi, dando il via ad una mega scazzottata a cui non si riuscì più a dare un freno.

Quando mi guardai in giro, mi resi conto che la situazione era diventata insostenibile. Era una confusione spaventosa di pugni, calci, pezzi di bottiglie che volavano in aria, e mi spostai i capelli dalla faccia. Gli agenti della polizia fecero irruzione, tentando di farsi sentire invano, la gente continuava a fare razzie e qualcuno mi lanciò lo zaino.

Guardai con sospetto il ricciolino. Era stato lui a trovarmi, Nicolò. «Andiamo? Vieni con me, avanti!»

Mi prese per mano trascinandomi via, passando attraverso quel marasma di gente impazzita.

«Ma non starmi appiccicato!»

«Va bene.»

L'intervento di quel ragazzo mi aveva impedito di finire in una brutta situazione con la polizia, ma non certamente mi avrebbe salvato dalla strigliata di quel professore insopportabile.

«Andrai anche tu.» Le tre erano già dirette all'uscita, al contrario mio, che non mi ero schiodata e non intendevo farlo. «Ti ho detto di andare. Cosa aspetti? Un invito ufficiale?» Non rivolsi parola a quel nano malefico.

Mi alzai per dirigermi alla porta, con i suoi occhi addosso e la richiusi, sbattendola violentemente.

Quando entrai nel laboratorio, le tre arpie erano sedute composte come angioletti. Peccato che non lo fossero, ma a differenza loro, non mi nascondevo dietro una maschera di finto buonismo e non mi fingevo chi non ero per far piacere a qualcuno. Mi accomodai sul bancone e la mora parlò.


«Come sei uscita dalla discoteca?» Non risposi alla provocazione e, per la cronaca, quell'espressione da cane pronto a ringhiare non mi spaventava. «Sei un idiota.» La guardai di rimando. «Non importa. Pagherai per questo. Quando usciremo da qui, io e te parleremo.»

«Questo non finirà mai, lo sai?»

L'arrivo del professore la fece ammutolire. Si alzarono tutte in piedi come per fargli una riverenza, dal mio canto rimasi seduta e annoiata. Ovviamente riportò il suo sguardo serio sulla sottoscritta e incrociò le braccia, in una posa autoritaria. Scesi dal bancone controvoglia e ci diede il permesso di metterci sedute:

«Sulla sedia, non sul tavolo.»


Afferrai la sedia da sotto il banco e la strisciai sul pavimento, provocando un frastuono allucinante, che però lo lasciò del tutto indifferente e infine mi sedetti, abbracciando lo zaino. «Questa settimana dovrete pulire il laboratorio e l'aula. Non ho bisogno di dire anche le finestre, mi pare scontato. Mi sono spiegato bene?» Alzò la voce di un'ottava e le tre risposero di sì. «Inoltre, scriverete un tema in cui parlerete dei vostri errori, e poi lo leggerete ad alta voce davanti ai vostri compagni.»

«Vuoi che stiamo su una gamba sola?» intervenni.

«Come dici?»

Lo fissai a mia volta. «Te lo farò capire: non ho intenzione di pulire l'aula, né il laboratorio, né ho intenzione di scusarmi. Non ho cinque anni.» Riabbassai lo sguardo per qualche secondo, per poi sollevarlo. «Non hai il diritto di punirmi.»

«Perché?»

«Innanzitutto, non mi hanno catturato, se non avessero fatto la spia, non lo avresti saputo. In secondo luogo, ieri sera non ero una tua studentessa e tu non eri il mio insegnante.»

«E che proponi?»

«Propongo di non essere punita perché sarebbe ingiusto.»

Il silenzio si impadronì dei presenti per alcuni secondi e dopodiché fece uscire le tre.

«Hai cercato di farmi incazzare fin dal primo giorno, vero?» chiese con le mani posate sui suoi fianchi non appena fummo soli.

«No, ho solo detto la verità.» sentenziai per poi distogliere lo sguardo. Se non accettava di aver fatto un errore di calcolo, non era colpa mia.


Ad un certo punto, afferrò un righello da sopra il banco e si rivoltò totalmente nella mia direzione, picchiettandolo sul palmo della mano.

«Avrai modo di conoscermi. Odio usare la violenza. Ma immagino che, con casi disperati come il tuo, sia necessario.»

Inarcai un sopracciglio, indicando l'oggetto con un cenno del mento.
«Mi colpirai con quel righello? È curioso… pensavo che gli insegnanti come te, brillanti, popolari e amati dalle ragazze, avessero una certa etica sull'utilizzo della violenza.»

«E ce l'ho. Ti ho già detto che odio la violenza.»

«E farai qualcosa che odi?»

«Esatto.» affermò, agitando il righello. «E controllerai quanto sono bravo. In piedi!» Mi alzai disponendomi di fronte al giovane, che era alla mia stessa altezza. Occhi negli occhi. «La mano.»

Allungai il palmo aperto, tenendolo in orizzontale, e poi piegai le dita. «Preferisci che le metta così? Mi farà più male.»

Alzò gli occhi sul mio volto, notando la mia espressione indifferente, — tanto ero abituata a quel trattamento.

«Come ti pare.» Sollevò il braccio pronto a schiantarlo sulla mia pelle, lasciandovi un segno — anzi uno dei tanti, perché ce n'erano troppi — e mentre pensavo che le persone arrivavano nella tua vita per un motivo preciso, ma nessuno sapeva ancora come l'avrebbero cambiata, gli occhi del giovane erano incatenati ai miei. Era sul punto di colpirmi… ma si fermò a mezzo centimetro, impugnando fermamente l'oggetto tanto da far sbiancare. Intercettai anch'io il suo sguardo, così come fece lui, prima di appoggiare il righello sulla scrivania con un tonfo secco.
All'ultimo aveva preferito tirarsi indietro e abbassai il braccio.

«Ciò che vuoi non accadrà. Anche se non mi piaci, non mi costringerai a fare qualcosa che detesto così tanto.» Accennai un leggero sorriso. La perfezione, prima di tutto. Che avrebbero detto in giro di lui se avesse picchiato una studentessa? Avrebbe perso il fascino e rovinato la sua reputazione. «Non ti darò questo piacere.»

«Vorrei che l'avessi fatto. Mi sento in debito con te adesso.»

Scosse la testa in segno di disapprovazione. «No, no. Tu… non vuoi studiare. Mi dispiace per tua nonna. Cosa ne sarà di quella povera donna?» Scrollò le spalle.

«Che ti importa? Che c’entri tu?»

«Ti ha affidato a me perché ti vuole bene e vuole che tu sia una donna migliore. Sebbene non sia possibile con una mentalità del genere.»

«Non parlarle alle spalle, diglielo in faccia.»

Accennò un sorrisino che gli avrei volentieri cancellato con un pugno. «Stai proteggendo una persona, che non hai chiamato una sola volta in dieci anni?»

«Sì, proprio così. Lei è la mia famiglia e la proteggerò sempre.» Dichiarai con determinazione.

«Davvero?» Parve stupito. «Bene, molto bene. Hai fatto una cosa giusta per una volta.»

Tirai un sospiro e inclinai il capo.
«Se hai finito con le tue lezioni di vita, posso andare?»

Mi indicò la direzione con il braccio. «Puoi fare ciò che vuoi.» Mi voltai per andare e afferrai saldamente la maniglia. «A proposito…» Mi girai a mezzo busto e mi puntò il dito contro. «Quando dico questo, non intendo il senso letterale della frase. Non dimenticare che sei una studentessa, altrimenti non avrai posto in questa scuola.»

"Come dimenticare".

Uscii fuori, camminando per il corridoio ch'era affollato, dato che si supponeva che fosse appena suonata la campanella.

«Era molto arrabbiato?» Vidi la castana affiancarmi. Di nuovo. "Non dovevo vederla più." «Iniziamo dallo zero?» propose, allungando la mano: «Mi chiamo Angelina.» continuò prendendomi a braccetto. «Mia madre mi ha avuto a quarantacinque anni. Pensavo che mi stessero aspettando.»

Feci scivolare via il braccio dalla sua presa, tendendo il palmo della mano per bloccare la sua parlantina irritante, e mi fermai.

«A me che importa?»

«Ti piacerei se mi conoscessi.» Alzò gli occhi al cielo, riflettendo, e poi sorrise con dolcezza. «Ma nessuno si è mai preoccupato di comprendermi a pieno.»

«Non hai autostima?»

«Mia madre… be' ecco, i miei genitori mi hanno avuto da vecchi, per questo ho ereditato tutti i loro difetti. A proposito, mio padre è il preside della scuola, ma non stavamo parlando di quello.» I miei tratti si ammorbirono. Sembrava una ragazza ingenua, decisamente non il tipo che avrei frequentato. «Non fraintendermi, rispetto me stessa e anche te.» Rise e anche un lieve sorriso increspò le mie labbra. «Tu sei la mia eroina e la mia salvatrice. Il nostro destino è stato scritto. Invecchieremo insieme!»

«Parli troppo.»

«Sì, l'ho ereditato da mia madre.»

«Sei divertente e anche molto carina.» commentai, riprendendo a camminare e mi corse dietro, prendendomi di nuovo il braccio e accostandosi il più possibile.

«Davvero? Ti piaccio?»

«Lasciami il braccio.»

«Oh… okay.» Che le avessi detto quelle cose non voleva dire che avesse già conquistato la mia fiducia e mentre stavo per aprir bocca, riprese. «Sapevo che ti sarei piaciuta. Te l'avevo detto che saremmo state amiche. In fondo, siamo compatibili.»

«Dove posso comprare un'uniforme di seconda mano?» Sviai il discorso.

La castana ci pensò sopra. «Semplice… vieni con me.»

[...]

Mi condusse a casa sua e mi fece provare un'uniforme bianca con il logo della scuola, compresa di gonnellino a righe verdi e nere, e dinanzi allo specchio, osservai restia il mio nuovo aspetto. Preferivo mille volte vestirmi con i miei soliti abiti sportivi, ma c'era un'etichetta da rispettare. Stirai la gonnellina a quadri con le mani e controllai l'orlo della maglietta, quando comparve alle spalle Angelina, che appoggiò il mento sulla mia spalla, studiando il mio riflesso anche lei. Non mi convinceva chissà quanto, mi toccai le punte dei capelli, girando qualche ciocca dietro le orecchie, e ruotai il collo nella sua direzione per un parere.

«Super bello! Ti sta bene!»

«Ma non è di seconda mano. Perché me l'hai fatta provare?»

«Sto cercando di accontentarti.» Voltai il capo, con un cipiglio alzato. «Ok… sto scherzando. Ne ho due, questa è per te.»

Mi diede una leggera spinta con il fianco e sorrisi per la seconda volta in un giorno, mentre anche la sua risata eccheggiava nella cameretta. In qualche modo, avrebbe potuto funzionare. No?













Giovanni


Un bambino che stava correndo mi venne addosso e riuscii ad evitargli una brutta caduta.
Scompigliai i suoi capelli e gli intimai di fare attenzione la prossima volta.

Quando vidi chi stesse arrivando dalla direzione opposta, rallentai il passo e la squadrai. Era diversa con un'uniforme addosso e dovevo ammettere che le calzava a pennello.

«Che bello… ti sta bene. Ma gli stivali non sono adatti.» Girò la faccia dall'altra parte e mi superò, decisa a non attaccare bottone. «Non vuoi parlare con il tuo professore?»

Si voltò, rivolgendomi uno sguardo glaciale, un palese invito a lasciarla in pace, ma mi intrigava parecchio quell'aria da intoccabile che dimostrava.

All'improvviso delle urla femminili le fecero distogliere l'attenzione e anch'io mi voltai indietro, notando un gruppo di persone che stavano accerchiando un corpo riverso sull'asfalto.
Corsi, — seguendo la mia alunna che le stava già schiaffeggiando le guance, — e sgomitai tra la folla per passare. Mi inginocchiai al fianco della donna.

«Signora, mi sente?» Avvicinai l'orecchio alla bocca di quest'ultima, ma non sembrava respirare. «Chiama il 118!» mi rivolsi alla moretta e voltai la paziente su un fianco, aprendole la bocca affinché non soffocasse. Tirai fuori l'astuccio e afferrai tra le cianfrusaglie la penna con la torcia che avevo a portata di mano.

Federica intanto era a telefono con un operatore, stava spiegando la dinamica in fretta, poi riagganciò.

«Professore! Professore!» gridò per richiamare la mia attenzione, indicando il liquido che stava fuoriuscendo da sotto la veste. «Che faremo?» poi si rivolse al bambino che tremava spaventato, dicendogli che la madre si sarebbe ripresa e di non aver paura.

Dovevo avere un consiglio e composi il numero di mio padre. Sicuramente avrebbe saputo darmi le indicazioni migliori per quel caso.

«Ho una paziente urgente, papà.»

«Non riesco a sentirti, figliolo.»

«Potete stare zitti!» Sbraitai. «Sui trent'anni. Incinta. Non risponde allo stimolo della luce. La pupilla destra è più grande, paralizzata sul lato sinistro. Potrebbe essere un'emorragia o un attacco di cuore nella corteccia cerebrale destra.»

«Potrebbe anche trattarsi di aneurisma.»

«Come faccio a notare la differenza?»

«Non puoi. Chiama il 118.»

«L'abbiamo chiamato, ma le si sono rotte le acque tre minuti fa.»

Federica urlò alla gente di farsi indietro per darle modo di respirare con più libertà, poi mi richiamò allarmata, quando la donna vomitò, e la riposizionai sul fianco destro, aprendole la bocca e allargandola con le dita, in modo che il vomito non le finisse di traverso. Le soffiai più volte in bocca, per poi ascoltare se ci fossero flussi d'aria.

Non c'era nulla.

«Pronto, Giovanni? Figliolo, mi senti?»

«Ti sento, papà. Ti ho messo in vivavoce!»

«Figliolo, che sta succedendo lì?»

«Ha vomitato. Ha smesso di respirare. Dev'essere intubata. Se l'ambulanza è in ritardo, dovrò eseguire una tracheotomia d'emergenza.»

«Non osare! Non intervenire senza l'attrezzatura necessaria. Se commetti un errore, non potrai più praticare la professione medica. Se si rompe l'arteria, causerà una grave perdita di sangue. Si rischia anche di danneggiare la ghiandola tiroidea.»

Sentivo la pressione farsi sempre più forte in me e quasi mi mancò il fiato, poi guardai il piccolo.

«Ascoltami, stringi la mano della mamma. Dille di rimanere viva ed essere forte, ok?»

«A cosa servirà questo?» protestò la mia alunna. «Quello che ci serve qui è un dottore!»

«Tienilo in mente anche tu. Sentire le emozioni non è una questione del cuore, come tutti credono, ma del cervello. Una piccola regione chiamata ‘amigdala’ svolge il lavoro. Il cervello della madre, sentendo l'ansia del bambino, sopravviverà grazie all'istinto di sopravvivenza e autoconservazione.» Ascoltò tutte le spiegazioni con attenzione. «Hai capito? Avanti!» Fece intrecciare le loro mani, mentre il bambino continuava a supplicarla di svegliarsi: «Ho bisogno di un coltello.» aggiunsi, guardandola negli occhi.

«Le taglierai la gola?» biascicò sgomenta.

Inclinai il capo. «Impari alla svelta, sbrigati.»

«Lo porto subito.»

La ragazza scattò in piedi, senza perdere un solo istante, ma il rumore delle sirene di un'ambulanza in avvicinamento, risuonò e la bloccò su due piedi. Erano arrivati e feci segno di accostare. I paramedici scesero, aprendo le porte per prendere la barella e dovevano sbrigarsi perché la vita di questa donna era appesa ad un filo.

Un’infermiera si avvicinò a me. «Cos’è successo? Qual è la situazione?»

«Incinta. Le si sono rotte le acque, ha circa trent'anni. Ha bisogno di essere intubata.»

«Collare?»

«Non c'è bisogno.» risposi per poi incentivare il lavoro dei paramedici, che portarono la barella. La presero per le spalle e al mio “tre” l'appoggiarono con cautela. «Prepara immediatamente la sonda e chiama l'ospedale affinché possano preparare subito la sala operatoria. Ho prestato i primi soccorsi, verrò con voi.»

«Sei un dottore?»

Era da tanto tempo che non mi classificavo con quel termine, per me la medicina doveva essere un argomento archiviato, ma invece eccomi a rivestire quei panni.

«Sì…» affermai dopo un po' di titubanza. Salirono la barella in ambulanza e li seguii. Il mezzo ripartì a tutto spiano per raggiungere l'ospedale e intanto preparai il necessario per l'intubazione, montando il videolaringoscopio.

«Quello da sette millimetri, dottore?»

«Sì, andrà bene.» Spinsi il mento della donna per adattare la misura, inserendo la lama al livello dell’epiglottide, di seguito inserii il tubo endotracheale, mentre l'infermiera le iniettava un lubrificante solubile con una siringa e rimossi il mandrino. «Ambu, presto!» Mi passò il pallone, iniziai a premerlo e sgonfiarlo. L'avrebbe aiutata.

«La vena è pronta.» dichiarò il paramedico.

«Una fiala di adrenalina.»

L'infermiera le controllò il polso.
Il battito stava recuperando e infilai i tubi auricolari nelle orecchie, appoggiando il diaframma sul petto avvertendo distintamente il battito cardiaco. Era un buon segno.

Me lo tolsi e tirai un sospiro di sollievo. La donna era viva. Non restava che fare il cesareo.

«Ha fatto un ottimo lavoro, dottore. Le ha salvato la vita. Madre e bambino sono stati fortunati ad averla incontrata.»

Annuii ai complimenti che mi stava rivolgendo il paramedico sorridente, e mi fissai le mani, ricordando la sensazione che mi attraversava il corpo quando ero in sala operatoria, a lottare per la sopravvivenza di una vita, e ciò a cui avevo rinunciato anni fa.
Non per una mia scelta.












Federica

Dopo un'esperienza del genere vissuta qualche ora fa, non riuscivo a non pensare a cosa ne fosse stato di quella donna. Speravo che si fosse salvata e che il suo bambino fosse nato senza problemi. La vita a volte ci metteva di fronte a sfide difficili e ci portava a riflettere.
Quella tremenda immagine mi era rimasta impressa, mentre seduta su una panchina osservavo il mondo che mi circondava.
La vita era così effimera, alle volte. Bisognava godere di ogni momento come se fosse stato l'ultimo, e non sprecare la minima opportunità.

«La signora Elena mi ha detto che eri qui.» La sua voce mi sorprese alle spalle e mi alzai di scatto, rischiando d'inciampare.

«Sta bene?» Fu il primo pensiero che mi balenò. Il ragazzo annuì e tirai un sospiro di sollievo, togliendomi un macigno di dosso. «Oh, menomale. E il bambino?»

«Sì…» Lo guardai rassenerata. Tutto bene quel che finiva bene. «È una bambina.» aggiunse. «Sai? Mi hanno chiesto il tuo nome.»

«Perché?» accompagnai la domanda con un'alzata di spalle.

«Le hai salvato la vita. Ha voluto chiamare la bambina come te. “Federica”.»

Non sapevo come esprimere la mia contentezza a parole, non ero mai stata brava in quello, e restai in silenzio, ma probabilmente dai miei occhi si poteva notare tutto. Abbassai lo sguardo a terra e poi incrociai il suo. Scrollai le spalle. «Non l'ho salvata io, l'hai fatto tu con la tua prontezza e il tuo coraggio. Sei stato in gamba.»
La sua espressione diventò d'un tratto malinconica. I suoi occhi si incupirono un po'. Dopo avermi rivolto un mezzo sorriso, mi diede le spalle. «Non capisco.» Lo feci bloccare. «Se sei un medico, perché insegni qui?»

Mi mostrò il suo volto non appena si girò nuovamente e un lampo di tristezza glielo attraversò.
Mi contemplò per svariati secondi e schiuse le labbra per proferire qualcosa con sguardo schivo.
Poi nulla, se ne andò, lasciando la domanda senza risposta.

Era venuto a vivere in questa piccola cittadina della provincia di Roma… e la cosa sembrava che lo angosciasse, soprattutto perché a quanto pare non era solamente un “consulente scolastico”. Abbozzai un piccolo sorriso e mi rimisi seduta. In ogni caso, avrei scoperto cosa celasse quello sguardo magnetico.

[...]

Tornai alla pensione abbastanza tardi, — non perché avessi combinato qualche casino dei miei stavolta — e la nonna stava dormendo. Avevo ancora in mente le parole dell'insegnante che risuonavano come un eco, sulla questione “cervello e cuore”.
Era insolita come teoria.
Pensai poi a quella donna che aveva voluto dare il mio nome a sua figlia e abbracciai la nonna, addormentandomi.

[...]

Ci avevo riflettuto e raccolsi tutto il mio coraggio quella mattina per bussare alla sua porta.
Sperai che non fosse mattiniero da essere già uscito, e riprovai. Attesi, battendo leggermente il piede a terra, ma non ricevetti risposta. "Forse era ancora a letto dato che era il fine settimana? Rischiavo di disturbarlo, presentandomi senza preavviso?" Mentre stavo per picchiettare alla porta per l'ennesima volta, si spalancò di colpo e per poco non caddi in avanti. Per fortuna, avevo un buon equilibrio, erano serviti quegli allenamenti.

«Salve, professore!» Avanzò di un passo e a braccia conserte mi scrutò con sospetto, facendo un cenno con la testa. «Volevo parlare di una cosa, posso entrare?»

«Non puoi.» Feci una faccia dispiaciuta e si rese conto di essere stato duro. «La stanza è…» Si girò ed ebbi la possibilità di vedere l'interno. «In disordine.»

Sgranai gli occhi alla vista di tutti i libri sparsi sul pavimento, tanto che non si riusciva a distinguere il colore del parquet. Era esplosa letteralmente una bomba nell'appartamento.

«Cos’è successo? È entrato un ladro qui?!» lo sorpassai senza troppe cerimonie e mi piegai per raccoglierne uno.

«Ehi! Ehi! Che stai facendo?!» esclamò con le mani avanti.

«Metto in ordine?»

«Aspetta, non spostare nulla. Lasciali dove sono. Se ne muovi anche uno solo, non troverò più niente.» Quindi, oltre ad essere un impiccione, era anche un maniaco compulsivo. «Lasciali.»

«Va bene? Non arrabbiarti.» Li sistemai esattamente nella stessa posizione e alzai le mani in segno di resa. «Non toccherò niente.»

Mi fece l'ok con il pollice e camminai sulle punte dei piedi per scansare gli libri, arrivando incolume vicino al divano.

«Siediti.» Mi guardai attorno per individuare uno spazietto libero e alla fine mi accovacciai a gambe incrociate sul pavimento, mentre spostò due libri e si accomodò sulla sedia vicino ad un antico scrittoio. Si mise comodo con le gambe accavallate. «Be', dimmi, perché sei qui? Immagino che tu non possa vivere senza vedermi.»

“Gli piacerebbe… Ma non ero la tipa che sbavava per un ragazzo.”

«Ti sopravvaluti. Perché sei diventato insegnante?»

«Che ne pensi?»

«Se lo sapessi non te lo chiederei. Sei stato licenziato?»

«No, me ne sono andato io.»

«Perché?» lo interrogai.

«Non essere troppo curiosa. La curiosità uccise il gatto.»

Presi una penna appoggiata su uno dei libri e iniziai a giocarci. «Voglio farti una domanda. Quello che hai detto sul cervello, cioè che prova emozioni. Dove l'avresti sentito?»

Si puntò un dito, indicando la tempia. «È una mia idea.»

«Una tua idea...» ripetei, meravigliata.

Continuò a scuotere la testa, con un sorriso stampato sulle labbra.
«Vedo che sei molto interessata a me.» Chiusi in automatico la bocca, che era rimasta spalancata per qualche secondo. «Se vuoi scrivere la mia biografia, sarò felice di aiutarti.» Alla sua battuta, riabbassai la testa, notando un guizzo di divertimento nei suoi occhi.

Mi persi nei miei pensieri.

«Mia nonna… voglio renderla felice. Quando sarò grande, voglio che si goda la vita come una rana nello stagno!»

Sghignazzò. «“Come una rana nello stagno?” Bello. Da dove hai preso questa strana similitudine?»

«Non prendermi in giro. Sono seria. Ho preso la decisione più importante della mia vita ora. Cambierò.» sottolineai la parola con un tono determinato.

«Per me, va bene. Ma mi chiedo: perché lo stai dicendo a me?»

«Perché non so da dove cominciare.»

«È semplice. Devi studiare molto, devi ottenere voti alti agli esami e avrai successo. È facile.» elencò, tenne il conto sulle dita.

«Sì, però non ho mai studiato. Mi è bastato frequentare le lezioni.»

«Dovrai fare uno sforzo perché questa sarà una corsa contro il tempo e dovrai imparare molte cose velocemente.»

«Qualcuno dovrà insegnarmi a studiare, no?»

Prese un respiro e guardò il soffitto. «Sono sicuro che troverai il modo di riuscirci.» Abbassai gli occhi. «Dai, vai.» mi esortò facendomi sollevare la testa di colpo. «Ho delle cose da fare, basta chiacchiere.» Mi rimisi di nuovo in piedi e come prima, scansai i libri, fermandomi a pochi passi dall'uscio. C'era una cosa che avevo già imparato.

Mi girai. «Grazie, professore.» Mi fece un cenno d'assenso con il capo e discesi frettolosamente le scale. Il cellulare squillò nella tasca dei jeans e lo tirai fuori, balzando giù per saltare l'ultimo scalino. «Ah! Nina, che tempismo… sai chi è la ragazza più preparata della nostra scuola?»

Mi propose un appuntamento in un bar della zona, avrebbe organizzato un incontro con una certa “Maddalena Svevi”.
Era conosciuta come la secchiona dell'istituto e mi fidavo dell'intuito di Nina. Secondo la sua opinione, era brava e sarebbe stata un'ottima risorsa per i miei studi.

[...]

Le feci un cenno col mento per indicarle alle spalle una ragazza che si era fermata alla soglia del locale. Nina si voltò in quella direzione e sventolò la mano per richiamare l'attenzione. «Maddalena?» La ragazza dai lunghi capelli biondi ondulati si diresse al tavolo con eleganza. «Ti ricordi di Federica, vero? La nuova ragazza.» Fece di sì e alzai il palmo per salutarla. «Maddalena Svevi.»

«Perché mi hai chiesto di venire qui?»

«Devi insegnare a Federica le tue famose tecniche di risoluzione dei problemi.»

«Perché?» domandò la diretta interessata.

«Perché ha bisogno di una buona insegnante come te.»

Maddalena spostò lo sguardo da me alla castana, poi prese posto, togliendosi lo zaino. «Non hai la lingua. Perché non me lo chiedi tu?»

Osservai Nina, che per un secondo guardò la biondina, e viceversa. Abbassai la testa, facendo un sospiro. Non ero abituata ad essere dolce e affabile, ma dovevo provarci e così rialzai la testa.

«Mi aiuterai a studiare?»

«Ci sono molti insegnanti, tu li paghi e loro ti insegnano. È così semplice.»

«Non ho soldi. Devo dimostrare al signor Giovanni che posso ottenere dei buoni voti all'esame.»

Maddalena mi osservò, perplessa. «Il signor Giovanni... è un consulente d'orientamento. Perché pensi di dovergli dimostrare qualcosa? Cosa gli importa dei tuoi voti?»

«Dimmi solo se puoi aiutarmi. Non ho intenzione di spiegarti le mie ragioni.»

«Questo non è l'atteggiamento per chiedere aiuto.» mi fece notare.

Guardai Nina che si trovava nel mezzo e lei mi suggerì con un filo di voce. «Chiedilo con gentilezza.» Nina era una persona con una gran quantità di buonismo che le scorreva nelle vene, ma io non ero esattamente così. A me non piaceva piegare la testa di fronte alle persone. Presi un altro sospiro e cercai di correggere il tiro errato, quando un gruppo di ragazzi passò davanti al locale.
Per mia sfortuna, entrarono e riconobbi anche una mia certa conoscenza. Chiusi le palpebre e strinsi la radice del naso, pregando che non mi vedesse. Lo vidi avvicinarsi con al seguito i suoi amici. “La mia straordinaria fortuna...” pensai, roteando gli occhi.


Senza che nessuno li avesse invitati, afferrò una sedia dall'altro tavolo, la girò al contrario e si sedette.

«Ciao, di nuovo bellezza.» Uno dei ragazzi rubò a Nina la bevanda e un altro scivolò accanto alla biondina. Fissai il ricciolino, impassibile. «Che faremo? Il destino ci fa sempre incontrare. Ama le coincidenze. Vuoi uscire con me?»

Gli amici esplosero in un boato di risate.

«Oh, abbiamo una ragazza nuova. Emana una buona energia, mi piace.» commentò un altro.

«Non sei Maddalena? La famosa regina del liceo. È molto intelligente e anche istruita.» disse quello seduto accanto a quest'ultima.

«Suo padre è un medico, non è come il nostro.» riprese un giovane seduto a cavalcioni su un tavolo alle sue spalle.

«Oh, quindi è un bel gioco, giusto?» Le accerchiò le spalle con un sorriso smagliante, riprendendo a ridacchiare.
Era uno di quei momenti in cui la mia pazienza vacillava. Non sopportavo quell'appiccicume e nemmeno la biondina che lo spintonò seccata. L'amico lo punzecchiò dicendogli che non le piaceva. Su questo eravamo d'accordo. Si stava prendendo molta confidenza.

«Perché non mi conosce. È solo molto timida.» Tornò a rimetterle il braccio intorno alle spalle, gesticolando con una margherita, portandola sotto al naso della ragazza. Maddalena fece l'atto di alzarsi, ma la tenne ferma. «Aspetta, dove stai andando con tanta fretta?» Rise e cercò di scrollarselo di dosso con ogni mezzo, digrignando i denti, eppure non capiva l'antifona. Stava continuando a tenerla avvinghiata — anche se lei era schifata — e in uno scatto rapido gli agguantai il polso storcendoglielo.

Se non lo capiva con le buone, allora servivano maniere drastiche.

Lo feci sollevare dalla sedia, mentre urlava e gemeva. Gli sferrai un calcio potente nelle natiche e cadde a terra sotto lo sguardo sgomento dei compagni o della gente dei tavoli vicini.

«Non metterle le mani addosso! Mi hai capito bene?» Si tenne la spalla con la mano, guardandomi e fece una smorfia. «E mettiti quel fiore nel—» mi fermai in tempo prima che scappasse una volgarità. «Nella tasca. Ragazze, alzatevi!» Acciuffai lo zaino, uscendo dal locale, e le due mi seguirono. Avevo messo in conto che quel gruppo di idioti ci avrebbe pedinato, ma continuai lo stesso a camminare a passo spedito. «Ci stanno seguendo?»

Si voltarono entrambe, esclamando all'unisono.
«Ci seguono!»

«Correte! Correte!»

A quel punto, dal passo celere… alla corsa forsennata bastò un secondo. Iniziammo a correre per tutta la città. Guardai indietro e decisi di prendere una scorciatoia, quando Nina si scontrò contro un cesto della spazzatura rovesciandolo, ma riuscii ad acchiapparla per il rotto della cuffia. Le tenni la mano e afferrai anche quella dell'altra, per poi svoltare in un vicoletto, senza smettere di correre. Poi un altro e ci intrufolammo, nascondendoci dietro il muro di un'abitazione. Mi sporsi per controllare e intravidi Nicolò, che si era fermato per prendere fiato. Mi notò a sua volta, rivolgendomi un ghigno, e sperai che non facesse la spia.
Gli amici infatti lo raggiunsero, chiedendo dove fossimo andate, ma indicò la direzione sbagliata. L'osservai confusa e mi fece l'occhiolino, prima di allontanarsi.

Quel ragazzo era un pazzo.

Potei tirare un sospiro e staccai la schiena dal muro, mentre le ragazze risero senza sosta.

«Sono senza fiato, miseriaccia!» confessò Nina appoggiando la mano contro il muro. «Come fai a correre così veloce? Quanta palestra fai al giorno?»

«Abbastanza.»

La castana rise. Forse pensava che fossi un po' pazza quanto lei e per questo fossimo compatibili.

«Va bene. Ti aiuterò a studiare.» annunciò Maddalena, rimasta in disparte.

Nina contenta, si lasciò scappare un urletto, e si buttò tra le mie braccia, abbracciandomi forte.

«Grazie.»

«E scoprirò qualcosa sul professore Rinaldi.»

Io e Nina battemmo un cinque.
Ce l'avevamo fatta e non potevo essere più contenta del risultato. Avevo iniziato a dare una svolta alla mia vita e non restava che mettere in pratica i consigli del mio insegnante.
Feci segno alle ragazze di uscire dal rifugio, dato che il pericolo sembrava essere passato.













Giovanni

Ero intento a studiare un capitolo dal libro di scienze, che avrei proposto per la prossima lezione, quando un lieve bussare alla porta mi distolse da quanto stessi facendo. Senza nemmeno guardare chi fosse, risposi che poteva entrare. Quando alzai lo sguardo, mi trovai davanti l'alunna più meritevole del corso: Maddalena. Era colei a cui chiedevo più risposte ed eccelleva in ogni mio test. Ruotai completamente il busto sullo sgabello e alzò timidamente lo sguardo, prima rivolto a terra.

«Dimmi...»

«Ho intenzione di aiutare Federica a studiare. È un caso impossibile, ma farò quello che posso.» Fece una breve pausa. «Per te.»

Inarcai un sopracciglio, dubbioso. «Per me?»

«Esatto. Lo farò...» si fermò come se stesse pensando. «Perché mi piaci molto.»

«Alt!» esclamai, tendendo le mani in avanti e la ragazza rimase a fissarmi, sorpresa. «Fermati. E calmati. Pensa un po' a quello che hai appena detto, d'accordo?»

Maddalena negò. «Non devi uscire con me adesso. Nemmeno io lo voglio in questa situazione. Ma aspettami qualche anno. Entrerò alla facoltà di medicina e ci fidanzeremo. E quando mi laureerò, ci sposeremo.»

«Maddalena? Stai esagerando. Fermati, non continuare.»

Non poteva auspicare che sarebbe accaduta una cosa simile, e volli riprendere la mia lettura.

«Perché dovrei fermarmi? Esprimo solo i miei sentimenti.» Riportai gli occhi sulla mia alunna. «Non sei stato tu a dire che confessare l'amore è meglio che tacere?» mi rammentò.

Quel discorso si stava ritorcendo contro di me e mi sentivo veramente a disagio.

«L'ho detto, ma lo ritiro. Mi scuso, non è piacevole sentire questa proposta.»

«Ma, signore—»

«Non dimenticare, Maddalena. Insegnare a Federica è una tua scelta. La tua decisione non mi riguarda, ok?»

«Volevo mostrarti che sono il tipo di donna di cui potresti innamorarti. Ecco perché ho detto a Federica che l'avrei aiutata a superare gli esami.»

«Non farti apprezzare dagli altri per ciò che non sei.» le consigliai e la bionda abbassò gli occhi. «Sii te stessa. Ah, non dimenticare di chiedermi di andare al cinema.» aggiunsi tornando al discorso precedente. «Che dichiarazione d'amore è questa? Avresti dovuto portare cioccolata o fiori almeno.»

Sorrisi per la battuta, ritornando con il naso sui libri, a leggere i paragrafi, non facendo più caso alla ragazza che, a quel punto, abbandonò il laboratorio.















Federica

Uscii in giardino svelta, dopo aver preso il materiale che serviva.
La nonna stava tornando da chissà dove e mi si avvicinò mentre ero intenta a riempire lo zaino. Non potevo dimenticare nulla, era fondamentale.

«Dove stai andando, Fede?»

«Ho fretta. Vado a studiare con un'amica.» risposi sbrigativa, rientrando di nuovo in casa per prendere le ultime cose.

«Chi hai intenzione di ingannare? Tornerai di nuovo nel cuore della notte e mi farai morire d'infarto!» mi ammonì e presi un altro libro che avevo lasciato su un mobile.

«Ti do la mia parola che studierò.» le dissi tornando da lei.

«Devo crederti?»

«Credimi, porterei tutti questi libri con me per niente?»

«Va bene.» Acconsentì dopo qualche secondo, poggiando la mano calda sulla mia guancia. «Ben fatto, tesoro. Mia nipote sarà una persona importante.» affermò e smisi di sistemare tutto.

«Che vuoi che sia?»

Ci pensò ed esclamo: «Medico! Vorrei che diventassi un dottore, che indossassi un camice bianco. Ti chiamerebbero: "dottoressa"» Il sorriso le si allargò di più a trentadue denti a quel pensiero. «Tutto il mondo ti rispetterebbe e faresti un sacco di soldi. Avresti una vita fantastica!»

Ci pensai anch'io. In fondo non era male l'appellativo.
«Va bene! Sarò un medico. Sei felice?»

«No… cioè… io sarei soddisfatta anche se fossi infermiera.» Mi carezzò la guancia con affetto.

«Non mi credi, vero?» Alzai l'indice verso la sua faccia. «Be', aspetta e vedrai… costi quel costi io lo sarò, quanto è vero che mi chiamo Federica!» Chiusi la cerniera dello zaino. »In effetti, inizierò a lavorarci ora. Voglio diventare uno dei medici più rinomati di Roma, e ci riuscirò.»

La nonna mi rivolse un sorriso gigantesco e le lasciai un bacio sulla guancia, prima di andare.

So che ci sarei riuscita, un giorno avrei indossato quel camice tanto desiderato dalla nonna. Non avrei disatteso le sue aspettative.
Il mio punto di partenza era lo studio. Maddalena cercò di mostrarmi un metodo efficace e portò anche due bicchieri di succo d'arancia per addolcire la sessione pomeridiana a casa sua, mentre Nina stava spendendo il suo tempo a messaggiare.
Lei non intendeva sfacchinare tra i libri a differenza nostra.

Avevo un obiettivo e volevo impegnarmi per raggiungerlo.
Iniziai a studiare di giorno e pure di notte, nonostante il russare della nonna a cui spesso ero costretta a tappare il naso.
A colazione ero talmente impegnata a fare gli esercizi di aritmetica che Giovanni si permetteva di rubarmi il cibo dal piatto e poi mi diceva di concentrarmi. La nonna sorrideva con quel siparietto comico che montava lui.

Arrivò quel giorno tanto atteso, — quello degli esami, — e lo svolsi nel migliore dei modi, tenendo in mente tutte le strategie acquisite. Non sapevo ancora come fosse andata, speravo in un discreto risultato, e poi volevo dare tante soddisfazioni alla nonna.

Lei stava credendo in me, come nessun altro aveva fatto mai.

Una settimana dopo, avremmo ricevuto i risultati, ed ero nervosa più che mai, tanto da non trovare il maglione da nessuna parte.
La nonna era già in giardino, ma prima che potesse rispondere, lo trovai e corsi a prendere una fetta biscottata. Non avevo molta fame, mi si era chiuso lo stomaco.

«Ti ho preparato la colazione. Mangia qualcosa prima di andare a scuola!» protestò, preoccupata che potesse venirmi un malore.

«Non posso!» Sbrigativa, le diedi un bacio e addentando la fetta biscottata, aggiunsi. «Oggi ci sono i risultati degli esami.»

La nonna mi urlò da dietro: "buona fortuna, tesoro!" e m'incamminai per raggiungere il liceo a piedi.

[...]

«A quanto pare, il test è stato molto duro...» esordì Giovanni, rivolgendosi all'intera classe che schiamazzò: "sì, è stato terribile!". Nina si unì al coro, aggiungendo che lo era stato sul serio. Se si fosse impegnata un minimo sui libri invece di finire i soldi della scheda telefonica magari lo avrebbe affrontato con decenza. «Ma i risultati sono stati buoni. Quando li ho ricevuti sono rimasto sorpreso.» La classe iniziò a bofonchiare. «Sono sicuro che quando lo scoprirete, anche voi reagirete allo stesso modo. Il voto più alto di tutta la scuola è proprio di uno studente di questa classe.»

I miei compagni gridarono tutti insieme il nome di Maddalena e Nina si sporse dal banco per congratularsi. Sorrisi anch'io alla notizia, era stata un'eccellente insegnante quindi meritava tutto quel prestigio.

«Federica!» Esclamò all'improvviso il professor Rinaldi e il silenzio piombò in classe.

La cosa mi sorprese.
«Sì, professore?»

«Hai fatto un ottimo esame. Il tuo punteggio è il più alto.»

Sgranai gli occhi, scatenando i commenti dei miei compagni, che si girarono a fissarmi.

«Ce l'hai fatta!» strillò Nina, abbracciandomi di slancio.
Guardai il professore, che mi stava guardando con il mento sollevato, mentre non mi sembrava vero che stesse capitando a me.

In un attimo, della me fannullona e scansafatiche arrivata per caso in città, non restava più traccia. Forse l'aveva sempre saputo lui e mi aveva dato uno strumento per vincere quella battaglia.

Chi era quel professore tanto magnetico che piaceva a tutte le ragazze? Non lo sapevo.

Gli dovevo quel successo.

Quando la lezione terminò, raggiunsi il laboratorio e lo trovai lì, impegnato nel lavoro.
Bussai alla porta e staccò gli occhi dal microscopio, che stava osservando con attenzione.
Quel piccolo professore era instancabile. Aveva sempre del lavoro da sbrigare. Mi fece passare e mi avvicinai, con le mani allacciate dietro la schiena.

«Grazie.» Era la seconda volta che ringraziavo la stessa persona nel giro di poco tempo. Stavo facendo dei progressi allucinanti.

«Perché mi ringrazi? Il merito è tuo. Ti sei impegnata.» Stavo per aggiungere altro ma alzò l'indice. «Ma non rilassarti troppo. Devi studiare duramente per entrare all'università. Non è facile.»

Annuii. «Lo so.» Gettai un'occhiata al tavolo disseminati di oggetti. «Che stai facendo?»

«Preparo la lezione. Qual è il tuo gruppo sanguigno?»

Mi mordicchiai il labbro. «Non sono sicura della risposta.»

«Non sei sicura?»

Giovanni schioccò la lingua sotto il palato e mi fece segno di accomodarmi sull'altro sgabello.
Poi prese una bottiglia di disinfettante, spiegando che doveva sterilizzare il dito. Strofinò l'ovatta sul polpastrello e lo punse con un ago, facendo fuoriuscire una piccolissima goccia di sangue. Guardai tutto con estrema curiosità. Poi adagiò il dito su un vetrino, lasciando tre impronte, e ci mischiò sopra dei liquidi giallo e blu. «Analizziamo la coagulazione.» Lo prese e iniziò a scuoterlo. «Guarda, il campione si è coagulato. È di tipo A.»

«Oh, è molto semplice.»

Si girò fulmineamente nella mia direzione e mi sorrise: «Vuoi vedere i tuoi globuli rossi?»

«Va bene...»

Mi stava piacendo scoprire cose nuove e appoggiò il vetrino sotto il microscopio, regolando gli oculari. «Pronto.» Cercai di farmi più vicina in modo da avere anch'io visione di ciò. Quando lo feci, fu una pessima iniziativa, dato che mi ritrovai con il suo viso a un palmo di distanza, e lo sgabello si sbilanciò. Portò la sua mano contro la mia schiena per evitare che cadessi. Lo guardai in quegli occhi scoprendo dalle striature verdi, più accese che mai, da sembrare che brillassero di luce propria, e mi ci persi, per quello che sembrò un'eternità.
Tenni la mano poggiata inconsapevolmente sulla spalla dell'insegnante e lui parve riscuotersi dalla trance. Mi rimisi dritta e guardai attraverso il microscopio per superare il momento di imbarazzo. «Avvicinati.» Lo esaminai. «Riesci a vedere?»

Staccai gli occhi e gli rivolsi un sorriso. «Li vedo.»

«Che ne dici? È bello imparare, no?»

Con lui, era stato tutto diverso. All'inizio sembrava il classico prepotente, i soliti insegnanti di vecchio stampo che predicavano bene ma razzolavano malissimo, e invece era piacevole la sua compagnia. Giovanni era un mistero, che volevo scoprire.

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