Capitolo 29: Zemer (Cuore)
"C'è un posto nel mondo dove il cuore batte forte, dove rimani senza fiato per quanta emozione provi; dove il tempo si ferma e non hai più l'età. Quel posto è tra le tue braccia in cui non invecchia il cuore, mentre la mente non smette mai di sognare." (Alda Merini)
«Zemer... zemra ime!» *
Le parole di mio padre sono sussurrate, timide, in quella lingua che è stata estranea a me per troppo tempo e che ora riconosco come familiare. Stretti in un abbraccio infinito che sa di amore, famiglia e di ricordi perduti; che nessuno dei due ha la voglia d'interrompere. Ci sarebbero tante cose da dire ma è come se questo abbraccio valesse anche più di mille parole. Sento che il cuore mi sta esplodendo per la potenza delle sensazioni che provo.
«Scusa, amore mio, scusa per tutto quello che ti ho fatto!» La sua voce è bassa, rotta dall'emozione quando pronuncia queste parole. Parla in italiano ora, con quel bellissimo accento dell'est che avevo quasi dimenticato. Dio, quanto mi è mancato!
Mi stringo ancora più a lui per respirare il suo odore che tante volte ho disperatamente cercato di ricordare. «Non ti devi scusare di nulla.» Le mie parole sono soffocate dai singhiozzi che non riesco a fermare e che mi scuotono tutta.
«Dashuria ime**, ti ho rovinato la vita! Niente e nessuno potrà mai cancellare quello che ho fatto a te e alla tua mamma! Nessun carcere, nessuna punizione potrà mai darmi pace per l'orrore che ho commesso. Ogni singolo giorno rivivo nella mia testa quei momenti e mai riuscirò a perdonarmi!»
Lentamente si scioglie dalla mia stretta e tenendomi per le mani fa un piccolo passo indietro per guardarmi meglio. «Sei uguale a lei» mi dice e stringendomi il viso tra i palmi tremanti si avvicina per baciare delicatamente le mie guance bagnate dalle lacrime. «Le somigli talmente tanto che per un attimo, quando ti ho vista entrare, ho creduto di essere impazzito...»
È straziante il dolore che sto provando, ma lo sapevo. Sapevo benissimo che rivederlo avrebbe significato per me riaprire vecchie ferite che nel mio cuore non si sono mai rimarginate e mai lo faranno, ma nello stesso tempo sentirgli dire che gli ricordo la mamma mi provoca una sensazione di orgoglio. Sono contenta di essere simile a lei. Per un attimo penso a cosa sarebbe stato se ora fossimo ancora tutti e tre insieme.
Siamo ancora qui, uno di fronte all'altra, le mani intrecciate. Com'è bello il mio 'papo', non smetterei mai di guardarlo. Capisco bene perché mamma abbia stravolto la sua vita per lui. L'unica cosa che abbiamo in comune è il colore degli occhi: un misto tra il grigio, verde e nocciola, che non saprei davvero definire. Per il resto null'altro corrisponde. I lineamenti del suo viso sono squadrati, la mascella è ben definita e così gli zigomi alti, il taglio degli occhi è a mandorla, sono sottili e allungati verso l'alto, retaggio sicuramente delle sue origini rom, così come il colore della sua carnagione più scura e olivastra rispetto alla mia. Le labbra ben disegnate che per me erano la rappresentazione ideale del sorriso ora però sono serie e tirate, e lateralmente ci sono delle piccole rughe che non ricordavo. I capelli nerissimi, leggermente mossi e un po' lunghi sulle spalle. Chissà se ogni tanto li lega ancora come faceva la mamma. Certo la vita non è stata facile neanche per lui. Aveva ventisei anni quando lei è morta, era praticamente ancora un ragazzo con la testa piena di cazzate. Ora è un giovane uomo di trentaquattro anni con il cuore pieno di dolore.
Mi lascia delicatamente le mani e lo vedo estrarre dalla tasca posteriore dei jeans una foto piegata in due. La apre come fosse una reliquia e me la mostra. Siamo noi tre. Lui e lei sono abbracciati e ridono e io sono aggrappata alla sua gamba che lo stringo forte. Avrò credo più o meno quattro anni. « È l'unica foto che ho di noi insieme. Vedi come siamo belli? La vedi come è splendida?» Una lacrima scivola lentamente sul suo viso. « Tu sei bella come lei, vedi zemer? Te lo ricordi come ti chiamava? Cokollatë e vogël!*** Eri pazza per la cioccolata e lei te la nascondeva sempre perché aveva paura che ne mangiassi tanta da star male, ricordi?»
Può un uomo amare una donna così alla follia ancora dopo tanti anni? Mi chiedo, mentre cerco la forza per rispondergli: «Me lo ricordo... Ricordo ogni singola cosa di lei». Mi incanto a guardare quella fotografia che ci ritrae belli e sorridenti, ignari del destino a cui saremmo andati incontro. Non vedevo il viso della mamma da quel terribile giorno. Quanto ho lottato e lotto ancora per cancellare l'espressione che aveva quella mattina disegnata sul volto. Per assurdo invece la ricordo perfettamente, e mi fa male che quello sia uno dei pochi ricordi fissi che ho di lei. «Io di lei non ho nulla, neanche una foto, un ricordo, un oggetto, nulla» dico accarezzando piano quel pezzo di vita ritratto in quell'immagine. «Tutte le nostre cose, che fine hanno fatto? La tua batteria, i miei giocattoli, i suoi vestiti? Dove sono ora? E soprattutto dov'è lei? Vorrei andare a trovarla!»
Resto lì a guardarlo aspettando una risposta, troppe domande si affollano nella mia testa, cose che mi sono chiesta per tutto questo tempo e che ancora non hanno una soluzione. La sto aspettando da lui.
«I tuoi nonni materni... Loro hanno portato via tutto. Anche lei. L'ho saputo attraverso il mio avvocato d'ufficio qualche giorno dopo il mio arresto. Ora è seppellita a Durazzo, vicino al mare mi hanno detto. Lo amava tanto e adorava la sua terra, forse è giusto così, lei amava l'Albania. Per colpa mia l'ha abbandonata e a causa mia vi ha fatto ritorno». Il suo tono di voce è sempre più affranto e sconsolato quando continua: «I tuoi nonni mi hanno sempre detestato, ma non avrei mai pensato che il loro odio nei miei confronti si riversasse su di te. Sono quasi impazzito quando ho saputo che non ti avevano presa con loro e che eri stata affidata a un istituto. Era un dolore che non riuscivo a sopportare. Il pensiero che avevo distrutto tutto quello che di bello avevo al mondo, non mi ha mai abbandonato. Per questo, quando mi sono reso conto che tu, anche crescendo, non venivi a trovarmi, ti ho capita. Io nei tuoi panni un padre così avrei finto che fosse morto, lo avrei cancellato per sempre. Era la giusta punizione per un fallito come me, restare solo!»
Lo abbraccio di nuovo, non riesco a stare lontana da lui. Ho realizzato in questo momento di non avere neanche una tomba dove andare a piangere mia madre. Nulla, di lei non mi resta nulla. Ho solo quest'uomo che per tutto questo tempo ha sofferto come me. Entrambi abbiamo tenuto vivo dentro di noi il ricordo bellissimo di quello che eravamo e il dolore che ora siamo diventati. Lo stringo più forte, voglio che capisca che per me lui c'è sempre stato e che ci sarà sempre. Anche se saremo lontani e le nostre vite prenderanno strade diverse, lui sarà sempre la mia forza e il mio punto di riferimento.
«Parlami di te ora! Ti ho lasciata che eri uno scricciolo e ora sei una donna... Quanta strada hai fatto da sola, deve essere stato terribile anche per te!»
Solo in quel momento realizzo che nella stanza con noi c'è anche Teresa che si è tenuta in disparte per tutto questo tempo. Mi giro e la trovo in piedi in un angolo, ha gli occhi vistosamente lucidi. «Ecco, lei è Teresa, fa parte della mia nuova famiglia» dico indicandola e sorridendole. Lei sentendosi chiamata in causa si avvicina piano. Mio padre le porge la mano e lei gliela stringe con entrambe le sue. «Signor Viiperi, sono davvero felice di conoscerla e mi scuso per non avervi lasciati soli in questo momento così delicato e intimo, ma sono la tutrice legale di Eleonora e quindi... »
« Lei non deve scusarsi di nulla, capisco perfettamente, ci mancherebbe! Non posso fare altro che ringraziarla per avermi portato questa meraviglia che è diventata la mia bambina!»
Intanto ci siamo seduti tutti intorno al tavolo che si trova al centro della stanza. E io e il mio 'papo' ci teniamo per mano. Sono sempre bellissime le sue mani, le dita lunghe e sottili, all'anulare sinistro ha una specie di fede in argento e sotto si intravede quel tatuaggio che non ho mai dimenticato: una piccola chiave di sol! Per un attimo impercettibile mi tornano alla mente altre mani con lo stesso tatuaggio, quelle di Emanuele! Scuoto lievemente la testa, non è questo il momento di pensare a queste stronzate. Riprendo a raccontare a mio padre quella che è ora la mia vita, cercando di evitare qualcosa che sicuramente potrebbe procurargli altre sofferenze oltre a quelle che ha già. Il tempo passa veloce e le tre ore di permesso sono terminate. La guardia carceraria che è con noi si avvicina al tavolo: «Viiperi, mi dispiace interrompere, ma l'orario di visita è terminato!» Poverino, lo dice con un tono di scusa rendendosi conto di troncare un momento bellissimo.
«So che hai fatto tanta strada per arrivare fin qui, chissà ora quando potremo rivederci...» Il suo tono di voce è ritornato quasi un sussurro.
Mordo con forza l'interno della guancia, non voglio piangere, non devo. Voglio lasciarlo con il sorriso. Abbiamo entrambi versato troppe lacrime e sicuramente il nostro futuro riserverà per noi momenti ancora molto difficili. Almeno per oggi voglio lasciargli negli occhi il ricordo del mio viso sorridente. « Mi sono informata e so che dovresti avere diritto almeno a una telefonata di dieci minuti ogni settimana a un parente. È giusto?» Mi rivolgo verso la guardia carceraria che asserisce con il capo e aggiunge: «Certo signorina, suo padre deve solo chiedere il permesso al direttore, e non credo ci saranno problemi in merito!» Mi porge un foglietto e una penna «Tenga, lo scriva qui il suo numero, così il suo papà potrà conservarlo per poi chiamarla».
Con lenta precisione lo scrivo, vicino disegno due piccoli cuori. Lo porgo a mio padre che sorride e lo conserva in tasca. «Appena mi danno il permesso ti chiamo zemer, ora che ti ho ritrovata sarà difficile per me starti lontano!» Mi abbraccia forte, è così difficile salutarsi senza sapere quando potremo vederci nuovamente. Affondo la mia testa sul suo petto e mi riempio le narici del suo profumo, un misto di muschio e legno, non so definirlo bene. Questa volta non voglio dimenticarlo.
L'agente si avvicina e siamo costretti a sciogliere il nostro abbraccio. Mio padre gli porge i polsi per indossare le manette «Le mettiamo dopo Viiperi, tranquillo, lo so che non scappi, non voglio che tua figlia ti veda così.» Sorride mentre lo dice e lo sguardo che mio padre gli rivolge è di vera gratitudine.
Si avviano verso l'uscita e arrivati vicino alla porta mio papà si ferma e si gira verso me per l'ultima volta «Te dua shume zemer »**** e mi manda un bacio «La ascolto sempre e vi penso ogni volta e sono felice che tu la ricordi ancora». Dice indicando la mia maglietta dei Guns.
«Te dua shume, zemra ime»***** gli rispondo ricordando perfettamente la mia lingua natale «Anche io quando la ascolto penso a te e alla mamma!» E porto il palmo della mano sul mio cuore che batte all'impazzata.
Note:
Traduzione dall'albanese
*cuore, cuore mio
**amore mio
***cioccolatino
**** ti amo tanto cuore *****ti amo tanto cuore mio
Che fatica scrivere questo capitolo! Avevo tante idee e volevo rendere perfette le sensazioni provate da Eleonora e dal suo papà. Spero solo di essere riuscita a trasmettervi qualcosa!
Fatemelo sapere con i vostri commenti e le vostre stelline. Grazie di cuore a tutti.
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