V.1 Nos Quoque Floruimus
Trigger Warning / Content Warning
Hate crime, depressione, pensieri suicidi. Se non ti senti sicurə non leggere. La salute mentale è importante!
*
Il ritorno a Londra fu meno traumatico del previsto, forse proprio a causa del finale infausto della loro vacanza, che era riuscito ad abbattere gli animi.
Gli agenti di Scotland Yard non li attendevano, rabbiosi e fumanti, all'arrivo al porto. Forse il marchese non aveva rivelato a nessuno ciò che aveva scoperto, o forse aveva solo messo in giro delle voci che avrebbero messo un po' ad arrivare a segno. Alexander non lo sapeva, e sperava di non doverlo scoprire.
Appena una settimana dopo lo sbarco a Londra, i coniugi Woods erano invitati al matrimonio di Hector e Margaret, per cui non ebbero molto tempo di riabituarsi alla solita routine.
Alexander dovette così andare all'addio al celibato di suo fratello – Harvey aveva mostrato indignazione riguardo al bordello, anche se Alexander gli aveva giurato che non avrebbe toccato signorina alcuna – e poi era tornato a casa un po’ brillo tra due braccia amate pronte ad accoglierlo.
Così, ebbro di vino dolce, Alexander si era infilato nel letto con il suo compagno e lasciato cullare dal suo respiro.
Quando la porta si spalancò la mattina seguente, strizzò gli occhi con irritazione.
«Buongiorno, milord. Milady...»
«Amore mio» gracchiò Sarah, accanto a lui nel letto. Con le coperte sin a coprire il volto, si intravedevano solo i ricci neri, sparsi sul cuscino candido come una macchia d'inchiostro.
«Tesoro» rispose, aprendo gli occhi controvoglia e sbattendo le palpebre nel tentativo di scacciare il sonno.
La osservò con attenzione, ancora sotto le lenzuola. Se i capelli fossero stati poco più corti avrebbe potuto fingere di essersi svegliato accanto alla persona che amava, ma non era così.
Faceva male. Non poterlo avere accanto al suo risveglio faceva male. Fingere faceva male. Dichiarare il proprio amore per qualcun altro faceva male.
«La colazione è servita» continuò la governante. «Vi consiglio di scendere il più in fretta possibile, se non volete arrivare in ritardo alla cerimonia.»
«Arriviamo» mormorò Alexander, e si issò seduto sul letto. Sfiorò Sarah con un dito per esortarla a muoversi, e lei mugugnò qualcosa di poco chiaro in risposta.
Quella notte si era sostituita a suo fratello molto tardi, appena prima dell'alba. Alexander l'aveva apprezzato allora, Harvey era rimasto accanto a lui più del solito, ma ora la stanchezza si faceva sentire.
Il ragazzo aiutò Sarah con il corsetto - ormai era diventato un esperto in biancheria da donna - e così furono pronti per il matrimonio.
Raccattarono Harvey e Lisbeth, entrambi già pronti e svegli, e si recarono in gran carriera alla cerimonia.
Hector quel giorno aveva l'aria di un uomo davvero felice.
Nonostante la notte prima avesse disquisito del dramma del matrimonio come fine della libertà maschile, Alexander sospettava che avesse tenuto quel discorso solo per compiacere i suoi orripilanti amici.
Il suo sguardo in quel momento, in abito e pronto al grande passo, era luminoso, pieno di gioia, inequivocabile.
Hector Diomedes Woods era innamorato, non c'erano dubbi, e guardando Lady Lovett – a breve Lady Woods, contessa di Dorset – avvicinarsi all'altare sembrava a due passi dallo sciogliersi in una dolcissima pozzanghera.
La cerimonia – in chiesa, perché la loro madre avrebbe voluto così – la tirò per le lunghe, ma quando finì il sole era quasi allo zenit, e Londra di rado aveva visto giornate più calde a metà marzo.
Ci fu il lancio di riso fuori dal portone e le carrozze si diressero verso la dimora dei Lovett, dove Hector alloggiava in attesa di tornare a Parigi.
Alexander suonò il piano, perché Hector gliel'aveva chiesto, e gli sposi danzorno sulle note del valzer di Tchaikovsky, La Bella Addormentata.
Quando il primo ballo terminò, lui continuò a suonare.
Sarah era impegnata a chiacchierare con una nuova amica, la signorina Vermouth, seduta accanto al tavolo del rinfresco; Lisbeth stava intrecciando alcuni fiori di pesco seduta per terra rischiando di far inciampare i camerieri; e anche Harvey spuntò all'improvviso, appoggiandosi coi gomiti al pianoforte.
Si chinò verso di lui con un sorriso largo, splendente, osservandolo mentre suonava.
La cravatta sfiorò il pianoforte per com'era chinato, e Alexander desiderò sporgersi a sua volta per sistemarla.
«Scusa» disse. «Lo so, ti ho trascurato. Ora arrivo, giuro, solo una canzone, sta finendo–»
«Oh, no» sospirò Harvey. «Non smettere. Sono venuto qui per ascoltarti meglio.»
Alexander mancò la nota e il piano emise un suono acuto. Fece una smorfia colpevole ma si riprese, non avrebbe perso il ritmo per una nota stonata.
Le parole di sua madre e suo fratello gli turbinarono in mente, vorticose e distruttive.
Smettila con quel pianoforte, mi farai venire l’emicrania!
Ancora suonare? Lo facevamo quando eravamo bambini! Cresci un po’, Alex!
Perché non la smetti con quel coso e vieni a darmi una mano?
Alexander Ulysses Woods! Ti sento perdere tempo al pianoforte! Piantala e di strimpellare e renditi utile, una buona volta!
«No, credimi, ho suonato a sufficienza» rispose, perché l'idea di dover smettere di perdere tempo ormai gli si era infilata nelle ossa. «Tra poco ti raggiungo, promesso.»
«Come vuoi. Ma è tanto bello ascoltarti... starei qui per ore a sentirti suonare senza stancarmi.»
L’idea che il suo compagno davvero fosse felice di ascoltarlo, felice di vederlo felice, si fece strada sotto gli strati di ruggine che il suo cuore aveva accumulato negli anni.
Gli sembrò vero, in quel momento. Gli sembrò vero che qualcuno potesse riuscire a non trovarlo irritante, a trovarlo gradevole, persino.
«Harvey» lo chiamò, in un sospiro. Sollevò ancora gli occhi dal pianoforte e lo guardò.
In un momento di estrema follia, si rese conto che anche Harvey lo guardava come Alexander guardava lui, anche se non era stato accanto a lui alla cerimonia per perdere tempo al pianoforte.
A Harvey non importava, non sinché sapeva che Alexander stava facendo qualcosa che amava, perché voleva che lui fosse felice e nient'altro. «Harvey...»
Il sorriso del ragazzo si allargò. «Lo so.»
Non esisteva nulla di più importante.
«Voglio–»
Sentirono un rumore di vetro infranto e il grido di una signora.
Alexander sobbalzò e rivolse lo sguardo al centro della sala, attratto dal rumore.
Hector aveva lasciato cadere il suo calice di champagne che si era sbriciolato sull'orlo della gonna di una duchessa che Alexander aveva sempre trovato irritante.
Nonostante ciò, non sembrava intenzionato a scusarsi, né stava considerando i suoi lamenti.
Invece lo fissava, gli occhi dardeggianti puntati su di lui. Hector lo fissava, sì, aveva lasciato cadere il bicchiere, e sapeva.
Labbra socchiuse, occhi sgranati, si portò la mano al petto. Alexander trattenne il respiro, senza sapere cosa aspettarsi.
Poi vide lampeggiare il disgusto.
Ritirò le mani dal piano e si alzò, arretrando di qualche passo. Diversi commensali si voltarono per controllare come mai il pianista aveva d'un tratto smesso di suonare.
«Che hai?» chiese Harvey, cercando con gli occhi cosa fosse accaduto.
«Andiamo via» mormorò. «Adesso.»
«Cosa? Perché? Che è successo?»
Alexander guardò ancora verso suo fratello. Lo stava ancora fissando, immobile e pallidissimo. Sua moglie si era avvicinata a lui, Margaret, anche lei gli chiedeva cosa ci fosse che non andava, ma lui non la stava ascoltando.
Aveva ancora la stessa espressione sul volto, sorpresa mista a terrore e disgusto, e lampeggiavano con una chiarezza dolorosa.
«Ti prego, andiamo via» mormorò di nuovo, e Harvey si mise in azione.
Acchiappò Lisbeth, sollevandola di peso, e andò a recuperare Sarah. Alexander si accorse appena delle proteste della ragazza, dei suoi “Ma siamo appena arrivati!” e degli sbuffi della signorina Vermouth accanto a lei che la esortava a restare un altro po’.
Si sentì afferrare per un braccio e trascinare fuori di casa. Il giardino di Villa Lovett non era lontano dal loro, si sarebbero potuti spostare anche senza la carrozza, lui stesso l'aveva fatto in passato.
Quel giorno fece eccezione.
Harvey chiamò Dennis con un cenno, attirando la sua attenzione. Salirono in carrozza in tutta fretta e in un silenzio teso, quasi elettrico.
Non riuscì neanche ad arrivare sino a casa, una volta che la carrozza partì vuotò il sacco. «Hector sa.»
Le tre reazioni esplosero una sull’altra nell’abitacolo, sovrapponendosi in una cacofonia disordinata.
«Che vuol dire?» chiese Lisbeth.
«Com'è possibile?» fece eco Sarah.
«Oh, Signore» gemette Harvey.
Alexander si strinse nelle spalle. «Tu mi stavi guardando, io ti stavo guardando, lui ci stava guardando... e ha capito. Mi conosce, ha capito. Gliel'ho letto negli occhi.»
«Cos’ha capito?» insistette Lisbeth, infastidita. Gli altri la ignorarono.
«Pensi che potrebbe denunciarvi?» domandò Sarah, in un sussurro.
«Non lo so. Non credo, lui... mi vuole ancora un po' di bene, penso. Ma non mi sentirei di escluderlo. Dovrò... dovrò parlarci.»
«No» interruppe Harvey. «Troppo pericoloso. Ci parlo io.»
Alexander chiuse gli occhi, stava tremando. Il cuore gli stava esplodendo nel petto, aveva i respiri affannosi e nonostante ciò sentiva che l'ossigeno non gli stava arrivando al cervello. Aveva la testa leggera, iniziò a vedere stelle rosse danzare davanti agli occhi.
«Mi sto sentendo male...» mormorò, abbandonandosi allo sportello della carrozza.
«Alex» sentì Harvey che lo afferrava e caricava tutto il suo peso su di sé. «Alex, respira, avanti. Respira.»
«Ma che sta succedendo?» chiese Lisbeth, imbronciata, a cui seguì un
«E sta’ un po’ zitta!» di Sarah, più brusco del dovuto. «Se avessimo voluto dirtelo l'avremmo già fatto!»
Due secondi dopo Lizzie era scoppiata in lacrime.
«Oh, maledizione, Sarah!» sbottò Harvey. «Ti sembra il modo di trattare la bambina?»
Alexander parve riprendersi dal mancamento per via del trambusto, mentre Sarah porgeva le sue scuse alla sorella.
Sentiva le mani sudate sotto ai guanti, ma il cuore si era di poco calmato.
Suo fratello l'aveva visto per ciò che era e lo odiava per questo.
«Ci sei? Sei con noi?» la voce di Harvey gli arrivò alle orecchie vellutata ma decisa. «Mi senti?»
Alexander annuì, e in quell'istante la carrozza si fermò.
«Harvey...» singhiozzò Lisbeth, ancora in lacrime, cercandolo con lo sguardo.
«Un attimo, tesoro, arrivo. Ora scendiamo tutti insieme.»
Alexander cercò di controllare il respiro. «Non sono sicuro di riuscire a stare in piedi» mormorò. «Scusa.»
«Tranquillo, piano piano facciamo tutto. Ci penso io.»
Lo osservò incredulo a quelle parole.
Sarah gli aveva detto moltissime volte che Harvey era una persona più autoritaria di quanto volesse fare credere, ma non ci aveva mai creduto sino in fondo.
Il suo Harvey, il suo dolce Harvey, non amava i conflitti e preferiva fuggire dai problemi piuttosto che affrontarli.
Lo sapeva bene perché ne aveva avuto diretta esperienza appena qualche mese prima, quando era scappato dal confronto e si era intrufolato a leggere il suo diario a tradimento piuttosto che parlare a viso aperto.
D'un tratto, però, si rese conto della verità.
Harvey era uno che fuggiva dai problemi, ma mai dalle responsabilità. Tutto ciò che riguardava la sua sfera personale lo faceva correre via a gambe levate, ma ciò che metteva a rischio le persone che amava gli piantava i piedi per terra come radici.
In quel momento non era più il ragazzo che non aveva voluto affrontare il suo amore sbagliato, era il giovane uomo che aveva seppellito i genitori da solo e appena l'ora successiva aveva attraversato Londra a piedi per andare a lavorare come un asino e guadagnare qualche spicciolo per cena.
Alexander scivolò giù dalla carrozza e lui lo sorresse, quando si rese conto che riusciva a reggersi in piedi si voltò verso Lisbeth e la prese in braccio, i singhiozzi si erano calmati.
«Non possiamo dirti il problema, Lizzie, ma non è nulla di grave. Stai tranquilla.»
Consolò la bambina, lo aiutò a entrare in casa, lanciò a Sarah uno sguardo di rimprovero, e una volta dentro ordinò a Candace di servire il tè a tutti per farli stare meglio.
Si accorsero presto che non c'era nessun bisogno di decidere chi sarebbe dovuto andare a casa di Hector. Fu lui a presentarsi, entrando in casa con le sue vecchie chiavi senza annunciarsi.
«Dov'è?» chiese, Alexander lo sentì entrare sin dalla sala del pianoforte. «Dov'è? Voglio vederlo.»
«Sarah, porta via Lisbeth» ordinò Harvey, e la ragazza obbedì dileguandosi più in fretta che poté, nonostante le proteste della bambina.
«Eccoti!» la porta si spalancò e Alexander sentì ancora un viscerale senso di panico montargli nello stomaco.
Era seduto sullo sgabello del piano e guardò verso la porta con le gambe molli.
«Tu!» Hector entrò come una furia, attraversando la sala e senza neanche togliersi il cappello dalla testa. «Vieni qui!»
Alexander fu pronto alla sfuriata della sua vita e forse a qualcosa di peggio.
Quando si accorse che Hector lo superava, passandogli accanto, restò per un attimo immobile dallo sbalordimento.
«Tu, me l'hai rovinato!»
Hector afferrò Harvey per il colletto della camicia. Anche lui, che non si aspettava quella carica, lo fissò con occhi sgranati.
«Io–»
«Cosa gli hai fatto? Lui non era così! Che cosa gli hai fatto?»
«Hector!» esclamò Alex, che al vedere la scena era stato ricaricato di tutte le energie. Saltò in piedi e andò loro incontro. «Per l'amor di Dio, lascialo subito!»
«Non ho rovinato proprio nulla» sibilò Harvey, che non sembrava affatto intimorito. «Era già così, e comunque lui non ha nulla che non–»
Non finì di pronunciare la frase, perché Hector gli aveva dato un pugno sulla mascella che l'aveva fatto saltare indietro, sbattendolo al muro.
Il luccicare rosso del sangue fu tutto quello che vide Alexander per un attimo, strappandogli via tutta l'aria dai polmoni.
Si inserì tra loro mentre caricava un altro colpo e lo vide disinnescarsi come un esplosivo, lasciando il pugno a mezz'aria. Lo guardò con occhi folli, e per un attimo fu sicuro che avrebbe colpito anche lui che si era messo in mezzo.
«Non farlo! Prenditela con me se devi prendertela con qualcuno. È con me che sei arrabbiato. Fratello...»
«Non chiamarmi più così. Tu non sei mio fratello. Lui non c'è più, quell'assassino me l'ha ucciso.»
Fu peggio che se gli avesse dato un pugno in faccia.
«Non ti permettere» sibilò una voce rotta dietro di lui, «di parlargli in quel modo.» Harvey lo spostò da un lato e tornò davanti a Hector con la schiena dritta, massaggiandosi il volto. «Alexander è fatto così. È sempre stato fatto così e sarà sempre fatto così. Se gli hai mai voluto bene, cosa di cui dubito, dovresti volergliene anche adesso. Ammazzami di botte se vuoi, questo non cambierà mai. Gli fai solo del male, così.»
«Non parlarmi di cos'è il male, invertito del cazzo. Sapevo dal primo giorno che ti ho visto che avresti rovinato questa famiglia.»
«Questa famiglia era già rovinata» sibilò Alexander. «Non te n'eri accorto solo perché in realtà non ti è mai importato di me. Ti piaceva raccontartelo e basta.»
«Ecco perché non sei mai andato a trovare mamma in prigione, questo qui ti ha plagiato. Ti ha portato–»
«Non è andato a trovare sua madre in prigione perché quella donna è un maledetto mostro! E se non fosse finita in galera ce l'avrei mandata io a calci comunque!»
Il secondo pugno fu più forte del precedente, riuscì a buttarlo per terra.
«Smettila!» Alexander gli si aggrappò al suo braccio, gli occhi che pizzicavano. «Se mi hai mai voluto un po' di bene, Hector, ti prego, smettila.»
L'uomo esitò. Ancora nell'abito in cui si era sposato, abito che avevano scelto insieme, abito che aveva portato accanto ad Alexander all'altare, attendendo la sua sposa. Alex sentì gli occhi bruciare ancora e poi una lacrima rovente, la prima di tante, gli attraversò la guancia.
«Colpisci lui e colpisci me» aggiunse, con voce rotta.
«Piangi anche come le donne ora» commentò, con disprezzo.
«Io non ho smesso di piangere da quando sono al mondo, sei tu a non essertene mai accorto.»
Sentì movimento dietro di lui e percepì che Harvey si stava rialzando. Aveva un labbro spaccato e due sottili strisciate di sangue gli colavano lungo il mento giù per il collo, sino alla camicia. «Lascialo in pace» disse, col fiato corto. «Lascialo in pace o giuro su Dio che troverò un modo per rovinarti. Mi siete tutti testimoni.»
«Non ti è bastato andare al tappeto due volte?» chiese Hector, con lo sguardo infuocato del lottatore.
«No. Non mi è bastato affatto. Se vuoi che smetta di difenderlo dovrai uccidermi.»
Per un attimo, negli occhi di Hector luccicò uno sbalordimento che gli cancellò la smorfia dal volto, poi scosse la testa come per riprendersi e la sua rabbia mutò in disprezzo. «Sei fortunato che non posso denunciarti senza denunciare lui. Ma fai un solo passo falso e troverò un modo per sbatterti in galera, te lo garantisco.»
«Fai come cazzo ti pare» rispose Harvey. Alexander lo guardò a occhi sgranati, quando sbatté le palpebre più lacrime gli colarono lungo il volto.
«Hector, esci di qui» disse poi, con le ultime forze che gli rimanevano. «Adesso.»
Suo fratello restò immobile, guardò prima uno e poi l'altro per molti secondi senza dir nulla. Poi si voltò e tornò indietro, avviandosi verso l'uscita della stanza.
«E tanti auguri per nozze felici!» gridò Harvey, mentre imboccava l'uscita.
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