IV.1 E poi muori

A Napoli ognuno vive in una inebriata dimenticanza di sé. Accade lo stesso anche per me. Mi riconosco appena e mi sembra di essere del tutto un altro uomo. Ieri pensavo: «O eri folle prima, o lo sei adesso».

(Johann Wolfgang Goethe)


Alexander uscì di soppiatto dalla cabina e si infilò sul ponte esterno. Non si vedeva quasi nessuno, solo qualche gentiluomo infreddolito che si era avventurato sin lassù per via dell'insonnia e caracollava sul ponte con aria impigrita e troppo poco interessato allo spettacolo.

Il giorno dopo le sue nozze si era svegliato al sollevarsi del materasso e al suo riabbassarsi sotto il peso di Sarah – da quel momento si sarebbero svegliati sempre insieme, per essere trovati dai domestici al mattino a dividere il letto come qualunque coppia di sposi – per poi mettersi in viaggio per mare, su un battello a vapore diretto in Sud Italia.

Era mattina presto, ancora l'aurora, e il giorno si colorava di turchese a sostituire il nero notturno.

Si avvicinò verso il bordo del ponte e si affacciò al parapetto di ferro mentre iniziava a intravedere la costa e il turchese sfumava a sua volta in un celeste intenso.

Il vento del mare aperto sferzava, pizzicandogli il volto, tanto forte che era stato costretto a lasciare il cappello sottocoperta. Si strinse nel cappotto nero da viaggio e si sporse sul parapetto per guardare giù. Le acque del Mediterraneo erano ancora nere come il cielo a ovest, e battevano sullo scafo di metallo nel ritmico tentativo di ghermirlo e tirare giù la nave nell'abisso con le sue lingue di schiuma.

Eccola, la soluzione a tutti i suoi problemi. Si guardò  intorno, nessuno sembrava interessato a lui. Si chiese se qualcuno si sarebbe accorto di una sua eventuale caduta in mare.

Improbabile, a dire il vero. E che fine poetica sarebbe stata, quella. Preso dalle braccia affamate della grande distesa d'acqua, come Icaro. E anche lui, come Icaro, aveva puntato troppo in alto. Anche lui aveva cercato di essere troppo felice, rischiando di rovinare negli abissi più profondi in un rovinoso fallimento.

Hybris.

Iniziò a intravedere il profilo del Vesuvio e sospirò. Forse si sarebbe buttato davvero, forse al mondo davvero non importava–

D’un tratto, qualcosa o qualcuno strattonò il suo cappotto e si ritrovò sbalzato due passi indietro.

«Ma che diavolo-»

«Non ti sporgere così» lo sgridò Harvey, asciutto. «È pericoloso. E non so nuotare, se cascassi giù finirei per annegare per ripescarti.»

Quella frase che diceva più di quel che appariva gli fece tenerezza nella sua semplicità. «Non fare il fratello maggiore con me» mormorò, ma sorrideva.

Sapeva che la sua sarebbe stata una richiesta inutile. Alcune donne nascevano con la vocazione di madre, alcuni uomini con quella di padre, Harvey no. Harvey aveva sempre avuto la vocazione di fratello più grande, il che gli dava una naturale tendenza a essere autoritario ma non paternalista, apprensivo ma non soffocante.

Tutto quello che Alexander aveva sempre odiato con Hector, da parte di Harvey lo rendeva una pozza di brodo tiepido.

«Sei mio cognato» gli ricordò lui, «Sei mio fratello acquisito adesso.»

Alexander arricciò il naso. «Cielo, non dirlo neanche per scherzo. L'idea mi fa rabbrividire…»

L'espressione severa sul suo volto si incrinò e lui rise, il che significava che il mondo era ancora un bel posto. «Appoggiati dai, ma non sporgerti troppo.»

Alexander obbedì, facendo di nuovo i due passi che lo separavano dal parapetto e appoggiandovi i gomiti. Harvey lo seguì, le loro spalle si sfiorarono.

«Che facevi qui tutto solo? Se vuoi startene per conto tuo posso anche tornare dentro…»

Alexander alzò le spalle. Se avesse risposto davvero che meditava di saltare in acqua, Harvey non l’avrebbe perso di vista per almeno un secolo e mezzo. «Mi godevo il panorama. Che ora, detto fra noi, è notevolmente migliorato.»

Il ragazzo tossicchiò per mascherare la voce e gli diede una spallata. «Shhhhhh, sei pazzo? Ti farai sentire così!»

Alexander lo guardò di sottecchi e notò che era arrossito. «Questa gente a malapena sente i suoi pensieri, figuriamoci se ha l'energia mentale per ascoltare me.»

Harvey non rispose. Stava osservando il panorama anche lui, e sembrava parecchio assorto.

L'aurora copriva quasi metà del cielo, era ormai tempo di albeggiare. Il profilo del Vesuvio si stagliava sull’orizzonte a sud-est, insieme ai profili delle isole, Capri, Ischia e Procida.

Napoli si estendeva stiracchiata sul golfo, ancora addormentata, in tutte le direzioni. I gabbiani, ormai svegli, già volavano a pelo d'acqua e stridevano coi loro versi affamati.

«Vedi quel monte, laggiù?» chiese Alexander, indicando il Vesuvio col suo guanto di seta color cenere. «È un vulcano attivo. L'ultima volta che ha eruttato ne è saltato un pezzo, per questo la punta è mozza. Non si sa quando erutterà di nuovo, si sa solo che succederà. E allora si porterà via tutta questa gente…»

Harvey fece una smorfia. «Perché restano qui? Perché non andare da qualche altra parte?»

«Gli italiani non sono come noi. Loro sono… vivono la vita come arriva. Plinio il vecchio, uno storico romano, è voluto scendere dalla nave durante l'ultima eruzione per documentarla. Voleva essere parte della storia. È stato così che è morto…»

«Che idiozia» borbottò Harvey. «Morire per cosa?»

«Beh, ancora ci ricordiamo di lui, no?»

«Preferisco vivere per passare il tempo con le persone di cui mi importa, che morire per la memoria di quelle di cui non mi importa niente.»

Alexander si morse il labbro, pensieroso. «È un modo interessante di vederla» disse. «Vedi, molti degli scrittori che amo sono venuti qui. In città c'è la tomba del poeta Virgilio per esempio, lo sapevi? Anche Andersen amava questo posto, l'autore della Sirenetta. Anche Stendhal... e poi c'è Goethe, ovvio. Lui una volta ha detto: “Vai a Napoli e poi muori”. Significa che una volta che sei stato qui puoi anche morire, hai già vissuto una vita degna di questo nome.»

«Non mi piace» borbottò lui di rimando.

«Suvvia, un po' di animo! Non siamo neanche ancora scesi a terra.»

«Non Napoli, Goethe. Non mi piace. Non mi piacciono le idee che ti mette in testa.»

Alexander sospirò. «Non avresti mai dovuto leggere quelle cose.»

I dolori del giovane Werther, il romanzo dei suicidi, uno dei suoi preferiti. Harvey riteneva che l’avesse influenzato troppo. Eppure, quel libro non aveva messo nessuna idea in testa ad Alexander. Quelle idee c'erano già, il mostro che lo aspettava agli angoli della sua mente, pronto a divorarlo.

Il libro l'aveva solo fatto sentire capito, normale.

«Ma non è normale» disse Harvey, e Alexander capì di aver pensato ad alta voce. «Non lo è, Alex.»

Alexander alzò le spalle. «Vorrà dire che non sono normale.»

«Scusami. Non volevo turbarti. Io voglio solo… io sono felice quando tu sei felice.»

«Ma io sono felice in questo momento» disse Alexander, e sentì che era vero. In quel momento, accanto a Harvey, osservando l'aurora sulle coste mediterranee, era felice.

«Per ora mi basta» rispose lui, con un sorrisino.

Non avrebbe mai potuto ringraziare il cielo abbastanza per Harvey, che tornava sempre sui suoi passi quando capiva che non era ora di insistere.

«Sai, c'è una ragione se Andersen, Goethe, tantissimi altri sono venuti a rifugiarsi qui. In realtà…» esitò. «È una sorpresa. Non vedo l'ora di mostrartela. E stavolta penso… no, sono sicuro. L'adorerai. Te lo giuro.»

«Dovresti smetterla di comprarmi le cose…»

«Non è una cosa che si compra. Ti ho detto che l'adorerai, fidati di me.»

«Mi fido» sussurrò lui, poi accadde.

Il sole, rosato e splendente, fece capolino sul golfo. Lunghe dita dorate e di pesca si fecero strada sul cielo, tingendolo di mille sfumature riflesse nell'acqua. La città, ora più vicina, sembrava una alta ragazza addormentata, dalle gambe lunghe e pallide e i capelli dorati che brillavano alla luce dell'alba. Si stiracchiava lungo il golfo, enorme e assonnata, Partenope.

Riusciva a vederla nei particolari: Posillipo, il colle del Vomero, i Quartieri che si inerpicavano su per il pendio, persino la Reggia caduta dei Borbone, ormai da più di vent'anni dimenticata e inglobata dalla città dopo l'unificazione. I raggi del sole la conquistavano dopo il freddo della notte ancora una volta, occupandola come un fiume scappato dagli argini.

Si voltò verso Harvey per commentare quella visione, ma lo trovò con lo sguardo non più diretto verso la città che si avvicinava, ma verso di lui.

«Dovresti guardare il panorama» lo sgridò.

«È quello che faccio» rispose.

«Ruffiano.»

«Sincero» sentenziò, poi gli sfiorò la mano, entrambi ancora fianco a fianco, appoggiati al parapetto di ferro. «Lo sai, eh, Alex?»

Alexander non distolse lo sguardo. Continuò a fissarlo come sempre, l'alba specchiata nei suoi occhi neri, riflessi dorati nell'oscurità.

«Lo so. Tu lo sai?» Gli sfiorò la mano con le dita di nuovo, in modo discreto, per non farsi notare.

«Lo so» rispose, e il mostro di Alex non poteva essere più lontano.

Che ruggisse quanto voleva, non riusciva più a sentirlo, non si ricordava neanche più della sua esistenza.

«Mi basta.»

 *

Sarah convinse Lisbeth a cambiarsi dopo varie proteste, e Harvey la prese in braccio, stringendola al petto.

Alexander lo fissò, come capitava ogni volta che sollevava un peso, poi a malincuore distolse lo sguardo e porse il braccio alla sua signora.

«Cavaliere» gli disse Sarah, prendendolo a braccetto con una mano e posandosi l'ombrellino parasole sulla spalla con l'altro.

Sembravano passati secoli da quando erano andati al parco per la prima volta e Alexander le aveva comprato il suo primo ombrellino. Ora eccola là, con il suo abito color carta da zucchero e l'ombrellino merlettato abbinato, la gonna dai bottoni in argento, i capelli ben acconciati e la cipria per sbiancare la carnagione un po' abbronzata. Una vera signora.

Scesero dalla nave, un facchino prese i loro bagagli e affittarono presto una carrozza che li avrebbe portati all'albergo non troppo lontano, con vista sul mare.

Lisbeth continuava a dormire tra le braccia di suo fratello, benché avesse albeggiato ormai da più di un'ora. La vita da piccola Lady ormai l'aveva abituata a svegliarsi più tardi del solito, giusto in tempo per la scuola alle nove.

Alexander si batté la mano sulla giacca per assicurarsi che il portafoglio fosse ancora al suo posto – abitudine che suo padre gli aveva insegnato, da tenere in viaggio – e si rilassò contro il sedile della carrozza. Aveva cambiato le sue sterline in lire italiane già a Londra, non avrebbe avuto problemi.

La città, ormai sveglia, brulicava di vita. Era più piccola di Londra, ma ben più chiassosa. I venditori ambulanti di pesce, ninnoli, verdura, dolci, cornini, gridavano per attirare l'attenzione dei clienti. A gridare erano anche i bambini e le bambine che giocavano a rincorrersi sul lungomare, e i genitori all'inseguimento. Persino i gabbiani stridevano più forte, ormai liberi dal sonno.

«Che posto delizioso» sospirò Sarah sognante, osservando il mare fuori dal finestrino.

Giunsero all'albergo, sul lungomare Santa Lucia, e fecero portare i bagagli nelle loro stanze. La suite matrimoniale per gli sposi, e una camera doppia confortevole destinata a Harvey e Lisbeth – se poi nella notte i maggiori dei Connor si fossero scambiati, la bambina non sarebbe mai venuta a saperlo.

Harvey mise a dormire la sorellina, Sarah ordinò una colazione inglese in camera – Dio solo sapeva quale fosse l'idea che gli italiani avevano della colazione inglese – e Alexander parlò.

«Se permetti, mio caro, mi piacerebbe portarti a vedere una cosa. Possiamo fare colazione più tardi, o magari fuori, se davvero hai fame.»

Harvey era seduto sul letto di Lisbeth e le rimboccava le coperte, mentre Sarah esplorava l'interno della stanza, ispezionando il letto libero e osservando la rifinitura delle pesanti tende che coprivano la vista sul lungomare.

Alexander era appoggiato allo stipite della porta, una mano sul bastone, l'altra su un fianco, pronto a infilarsi il cappello e uscire in strada.

Harvey si voltò dopo aver dato un'ultima carezza ai capelli riccioluti della sorella, che spuntavano a malapena da sotto il copriletto di raso color crema.

«Che dobbiamo vedere?»

«È una sorpresa» esclamò Alexander, già pregustando il momento.

«Arrivo» rispose, si alzò e gli andò incontro.

Sarah rovesciò il contenuto della sua borsa sulla toeletta, per allinearvi la cipria e le lozioni di bellezza. «Fate i bravi e divertitevi. E buona luna di miele, amore mio!»

Alexander rise a quelle parole. «Buona luna di miele, tesoro! Sarò di ritorno prima che ti accorga della mia assenza!»

«Ci conto» rispose la ragazza, senza neanche voltarsi per salutare. «Sai che mi manchi sempre, quando non ci sei.»

Harvey sgusciò via con lui, attraversando i corridoi imponenti dell’albergo. Le finestre sulla sinistra davano sul lungomare, sulla destra busti che Alexander presunse essere dei Savoia, i reali italiani insediati da poco. I pavimenti erano neri lisci, in pietra vulcanica - l’intera città ne abbondava, per ovvi motivi - e i muri del celebre tufo giallo tipico della zona. Attraversarono il corridoio con le vetrate, poi l’ingresso dell’albergo, e si ritrovarono sul lungomare.

«Allora?» incalzò Harvey, «Dov’è la sorpresa?»

«Ovunque» rispose Alexander, sorridendo sotto i baffi. «E da nessuna parte. Ma soprattutto di fronte a un carabiniere.»

«Carabiniere?» ripeté Harvey, confuso. «Cos’è un carabiniere?»

«I carabinieri sono  la Scotland Yard di qui, quelli che fanno rispettare la legge. E, se mi permetti, hanno anche una discreta presenza» aggiunse, sottovoce. «Beh, alcuni, certo. Immagino ci siano anche carabinieri di presenza mediocre. Benché, a essere onesti, l’uniforme aggiunga quel non so che che mi stuzzica.»

«Taci, per l’amor del cielo» sibilò l’altro.

Alexander alzò le spalle. «Nessuno capisce la nostra lingua. E comunque, anche questo è parte della sorpresa. Vedrai.»

Il lungomare Santa Lucia era pieno di gente, e a  mollo nell’acqua ragazzini di tutte le età si tuffavano e schizzavano, inseguivano e nuotavano, nonostante fosse appena il mese di marzo.

Harvey li osservava interessato, come si osserva una strana creatura nel suo ambiente naturale.

«Quello è Castel dell’Ovo» disse Alexander, indicando la fortezza alla loro sinistra. Separato dal lungomare solo da una lingua di terra, Castel dell’Ovo stava arroccato sul mare, largo e imponente. «É il castello più antico di Napoli, da quando la città era un insediamento romano.»

Vide Harvey che si mordeva il labbro mentre osservava ciò che lui gli indicava.

«E quello» esclamò, il cuore che iniziava a battergli troppo veloce nel petto, «È il nostro carabiniere.»

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