Epilogo
30 giugno 1884
«Eccoci, non vedo l’ora di mostrarvela!»
Alexander si sfregò le mani soddisfatto, all’interno della carrozza. Dopo il trasferimento repentino in sud Italia, tutta la famiglia era dovuta alloggiare in albergo a Napoli per qualche tempo, in attesa di una sistemazione più confortevole.
Quando si era inginocchiato davanti a Harvey e lo aveva pregato di fuggire con lui, il ragazzo dopo un attimo di sconcerto si era mostrato entusiasta all’idea; Lisbeth, da parte sua, sembrava più che felice di tornare nel luogo della loro recente vacanza in cui si era divertita tanto; Sarah era quella che aveva fatto più resistenza, ma davanti alla prospettiva di vivere nel lusso in riva al mare circondata da nuovi e più disinibiti amici dei salotti italiani perbene, aveva ceduto anche lei.
In quel momento, così, si trovavano a Vico Equense, la ridente cittadina in cui Alexander aveva trovato una villa inerpicata su un delizioso promontorio vista mare.
«Sarò io la prima a scegliere la stanza, sappiatelo!» commentò Sarah, che si era mostrata piuttosto insofferente a quella traversata e al lasciare Napoli per il paesino.
«No! La stanza la voglio scegliere io!» si inserì Lisbeth, che non si sarebbe mai fatta sfuggire l’occasione.
«Non ci sarà bisogno di litigare. Ho già fatto una selezione delle stanze da letto e sono tutte state arredate di conseguenza. Sono certo che le riterrete più che soddisfacenti.»
Harvey gli passò una mano lungo la gamba, e quando arrivò al ginocchio strinse la presa. Gli aveva dato carta bianca per la loro camera, a lui sarebbe bastato poter dormire insieme sino al mattino, senza bisogno di svegliarsi all’alba per venire sostituito da sua sorella.
La carrozza si arrestò.
L’aria era intrisa del profumo dei limoni in piena fioritura, e il rumore della risacca portato dal vento li cullava, ipnotico e rassicurante. Lisbeth fu la prima a saltare giù per la strada in terra battuta, sollevando il volto verso il cielo terso. La mancanza della pioggia pareva averla rinvigorita in quelle settimane, mentre l’animo malinconico di Alexander provava nostalgia per l’uggiosa città che si era lasciato alle spalle.
«È splendida, non è vero?» domandò, osservando la villa stagliata contro il turchese intenso, avvertendo la sua pelle che assorbiva il caldo sole di fine giugno.
«Devo ammettere che sì, potrei adattarmi a vivere in un posto simile» cinguettò Sarah, lo sguardo che vagava per il viale trafficato di facchini che caricavano gli ultimi mobili e i loro bagagli.
«Signore» lo chiamò in italiano un giovane impegnato nel trasporto di un baule, che abbandonò per la strada e si avvicinò. Aggiunse qualche parola che Alexander non capì. Lui era in grado di conversare in italiano, in teoria, ma quello campano gli risultava difficile da comprendere per via dell’accento marcato e del diverso vocabolario.
Aveva impiegato almeno dieci giorni a decifrare la particella mo’ e capire che era l’equivalente di adesso.
«Perdonatemi, dovete parlare un poco più piano. Non credo di capire» aveva spiegato, cercando di risultare più chiaro possibile.
Il ragazzo non gli aveva risposto. Aveva posato gli occhi su Sarah, le aveva baciato il dorso della mano, e Alexander l’aveva guardata sciogliersi in un sorrisino languido che le aveva illuminato il volto.
La prima volta che lui le aveva fatto un baciamano, ricordò, la ragazza si era pulita il dorso sulla gonna come se l’avesse contaminato.
Immaginava che un aitante e abbronzato giovane mediterraneo con i bicipiti all’aria avesse per lei un’attrattiva diversa rispetto a un pallido sollevatore di libri britannico che aveva occhi solo per suo fratello.
«Oh, sì» sospirò la ragazza, sognante. «Sono certa che mi abituerò presto al panorama.»
Accanto a loro, Harvey abbozzò una tosse imbarazzata per scaricare la tensione.
Alexander batté le mani due volte, Lisbeth sobbalzò. «Ottimo! Vedo che siamo tutti contenti, allora. Sono davvero ansioso di mostrarvi la sala da tè. Oh, ha un affresco davvero delizioso…»
3 novembre 1887
«Ti ho portato un sandwich al cetriolo.»
«Non ho fame.»
«Alex» sospirò Harvey, e sentì il materasso che si piegava sotto il suo peso. «Non ti alzi da questo letto da tre giorni.»
«Mh.»
«Alex.»
«Cosa c’è?»
Una mano gentile gli carezzò la schiena, ma lui non si voltò. Sapeva che espressione aveva il suo compagno in quel momento, non aveva bisogno di vederla: compassione, pena, turbamento. Non stizza, non fastidio. Quello mai.
Il pensiero che non fosse neanche un minimo arrabbiato con lui gli strinse il cuore anziché alleggerirlo.
«Hector e Margaret sono appena arrivati da un lungo viaggio. Vuoi scendere con me a fare gli onori di casa?»
Sarebbe morto piuttosto che alzarsi dal letto. Voleva restare lì a non fare nulla, guardare verso il muro e aspettare di invecchiare e morire.
«Porgi a entrambi i miei più calorosi saluti» disse, asciutto.
«Perché non mangi almeno qualcosina? Solo un morsetto, non metti nulla sotto i denti da ieri.»
Alexander si sarebbe voluto infastidire per quelle insistenze, l’avrebbe voluto davvero, ma non riuscì neanche a farsi prendere dal nervoso.
Non sentiva niente.
«Non ho fame» ripeté.
Harvey sospirò di nuovo. Alex sentì il materasso piegarsi ancora e sentì che gli stampava un bacio sulla tempia, proprio sopra l'orecchio.
Quel gesto fradicio di tenerezza riuscì a fargli un po’ male al cuore.
Bene. Male al cuore era sempre meglio di nulla.
«Va bene. Te li lascio qui, tu mangia quando vuoi.»
«Mh.»
Lo sentì alzarsi, e neanche allora distolse lo sguardo dal muro bianco della sua stanza.
Tutto quello che voleva era stare lì a vegetare, stare lì abbandonato al suo letto ad ascoltare il senso di vuoto che gli aveva fatto esplodere il cuore.
«Sei amato. Tanto. Ricordatelo, okay? È solo un momento no, ti passerà. Ti passa sempre.»
«Quando esci chiudi la porta, per favore. Il chiasso mi fa venire mal di testa.»
Il ragazzo sospirò. «Tornerò tra un pochino per dare un’occhiata. Riposati. Per qualsiasi cosa, noi siamo qui.»
Qualche passo ovattato, e Harvey uscì dalla stanza.
20 dicembre 1892
Harvey Connor era nato per stare sul palcoscenico.
Per integrarsi con la nuova patria che l’aveva accolta, la famiglia Woods - Connor si era data un gran da fare.
Lisbeth aveva frequentato la scuola, diventando quella che parlava meglio l’italiano; Sarah aveva iniziato a frequentare qualche salotto importante; Alexander forniva lezioni gratuite di inglese e di pianoforte, e Harvey… Harvey aveva trovato una piccola compagnia teatrale ed era come sbocciato.
Non era riuscito a imparare bene la lingua, aveva difficoltà nell’esprimersi, perciò lo relegavano spesso a ruoli secondari con poche linee di dialogo... eppure il pubblico lo adorava. Riusciva sempre a bucare il palco e fare ridere e piangere come se fosse nato per farlo, e bastava che apparisse in scena per scatenare una vera ovazione.
Quella sera di dicembre, un tiepido dicembre come a Londra non si vedevano mai, era addirittura riuscito ad aggiudicarsi un ruolo da protagonista.
L’“Arlecchino Muto per Spavento” era il ruolo perfetto per lui, di pochissime battute ma centrale, lo portava a saltare sul palco e gesticolare, in grado di mutare espressione con una limpidezza sconcertante.
Lo guardò chinarsi davanti al pubblico e fare un inchino profondo che fece strisciare le ampie falde del suo costume sul pavimento del palco.
Gli spalti colmi del teatro ruggivano e applaudivano, ma non Alexander. Alexander teneva gli occhi puntati sull’uomo che amava, ascoltava le acclamazioni euforiche fuori di lui e i battiti impazziti dentro al suo petto e sorrideva.
Lo sguardo di Harvey si sollevò, ancora piegato in avanti, e lo trovò. Gli fece l’occhiolino davanti a tutta quella gente che lo fissava.
Harvey Connor continuava ad avere occhi solo per lui, dopo tutto quel tempo, solo nella loro stanza da letto così come al centro di una sala stracolma di persone concentrate su di lui, non faceva alcuna differenza.
Alexander gli aveva portato dei fiori, come faceva sempre alla prima di uno spettacolo, e glieli avrebbe dati dietro le quinte davanti alla compagnia perché non era più costretto a nascondersi da nessuno.
Era felice.
12 Aprile 1905
Dicono che, quando si ricevono brutte notizie, si senta qualcosa di sbagliato che vibra nell’aria. Dicono che tutto si faccia più elettrico, come prima di un temporale. Dicono che il cuore abbia un doloroso singulto, che il corpo si tenda e si prepari a scappare.
Non successe nessuna di queste cose, quando Alexander aprì la lettera di Hector.
Lesse il suo nome e il suo indirizzo nella sua impeccabile ed elegantissima grafia, prese il tagliacarte, aprì la busta passandola a fil di lama ed estrasse il foglio in attesa che gli venisse servito del tè. Era una bella giornata di aprile, sentiva il risciacquo del mare alla finestra, e lo stridìo dei gabbiani non gli arrecava più tanto disturbo come quando si era trasferito. Lesse le prime righe della lettera di suo fratello e ringraziò di essere già seduto, perché altrimenti le sue ginocchia non avrebbero retto.
«Cosa c'è?» chiese Lisbeth, notando che era sbiancato davanti al tavolo della colazione. «Stai male? Vuoi che chiami aiuto?»
Lisbeth Connor aveva la bellezza di ventisei anni e risiedeva a Londra. In quel momento era in visita in Italia per passare un po' di tempo coi fratelli e staccare dagli impegni di moglie e proprietaria di ristorante.
Aveva i capelli ricci come suo fratello, gli zigomi alti di Sarah e la stessa figura snella e slanciata che i genitori avevano donato a tutta la famiglia.
«Non è niente» buttò fuori, guardandola senza riuscire a metterla a fuoco. «Solo una frase un po’ triste, ecco tutto.»
Caro Alex,
Ti scrivo per comunicarti una dolorosa notizia. La mamma è morta. Se n’è andata nel sonno questa mattina, di morte improvvisa.
Scorse il resto del foglio in velocità per tutta la sua lunghezza, la scrittura di Hector sempre precisa e svolazzante, e non ebbe il coraggio di leggerlo tutto. Avvicinò la lettera al suo petto e la premette contro di sé, come se volesse nasconderla al mondo.
«Vuoi che vada a chiamare Harvey?»
«Non ci sarà bisogno, cara, grazie. Gradisci dell'altro tè?»
«Cielo, sì. Ultimamente a casa non ho mai tempo per me. Diventerò matta, dico sul serio. Il mese scorso, persino–»
Lasciò Lisbeth parlare dei suoi guai con suo marito e smise di ascoltare. Sua madre era morta.
Sua madre.
Scoprì di sentire un grande vuoto dentro, doloroso eppure liberatorio al tempo stesso. Fu come se si fosse appena tolto una grossa spina dal cuore.
Hector l’aveva raggiunto, in visita con la sua famiglia, più volte nel corso degli anni, e nei periodi in cui non erano riusciti a vedersi aveva intrattenuto con lui una fitta corrispondenza.
Sua madre non solo non era mai venuta a trovarlo, ma non gli aveva mai scritto, nemmeno una volta. Alexander aveva smesso di esistere, per lei.
«Mi stai ascoltando? Sicuro che vada tutto bene?»
«Certo! Continua pure...» la rassicurò, e sorrise, anche se non voleva farlo.
4 settembre 1909
«Ah.»
Il verso sfuggì dalle sue labbra prima che potesse controllarlo.
Harvey avvicinò le labbra al suo orecchio. «Ti faccio male?»
Il soffio delicato lo scosse di un brivido violento. «No. Continua» pregò, «continua.»
Chiuse gli occhi e abbandonò la testa al cuscino, senza forze. Le dita del compagno gli stuzzicavano nervi che nemmeno sapeva di avere, riducendolo a una pozzanghera di ansimi e gemiti del tutto priva di volontà.
«Fai piano, da bravo. Non vogliamo che Sarah torni a bussare alla porta e strillare di fare le nostre cose in silenzio.»
Sentì la lingua del compagno che passava lungo tutto il suo collo, e un verso osceno che gli vibrò in gola. Le mani di Harvey si strinsero intorno alle sue gambe e l’aria gli venne strappata via dal letto in un sospiro troppo forte.
«Harvey.»
Le sue dita erano la tortura dolcissima di sempre, gli impastavano un cervello e accendevano bisogni osceni che non sarebbe riuscito a controllare neanche volendo.
Il fatto che non volesse, era tutta un’altra storia.
«Shhhh. Sono qui.»
Lo sbruffone continuava a stuzzicarlo e stimolarlo con un sorriso sul volto, e non ebbe più modo di trattenere i versetti supplicanti che gli scivolavano via dalle labbra.
«Harvey–» prima che riuscisse a raggranellare abbastanza parole per una frase coerente, bastò che lo sfiorasse appena in un punto più sensibile e tutto si fece più forte. Soffocò un gemito con ogni energia rimasta e l’attimo dopo fu svuotato sul letto, la mente che tentava di riaccendersi dopo il picco di piacere improvviso.
«Carino» mormorò il compagno, poteva sentire il suo sorriso anche se non riusciva a vederlo. Due labbra gli stamparono affettuose un bacio sulla guancia, lui aprì gli occhi. «Sei davvero adorabile, lo sai?»
A settembre in sud Italia era ancora piena estate, e il sole entrava copioso dalla finestra sul mare. L’uomo più bello e dolce del mondo che gli aveva appena dato piacere lo stava coprendo di baci e attenzioni, era nudo sulle lenzuola fresche accarezzato dalla brezza incalzante che veniva da est e per un attimo il suo cuore fu tanto pieno di gioia che non riuscì a contenerla.
Allungò le braccia e tirò Harvey a sé, e quello cadde su di lui lungo disteso. Anche lui era nudo, e la pelle che sfregava contro la sua, dappertutto e senza il minimo accenno di pudore da parte di entrambi, gli sparò una scarica di euforia dritta al centro del petto.
Harvey strofinò il volto contro il suo, e Alexander si sporse in cerca delle sue labbra sinché non le trovò.
Baciare Harvey Connor sulla bocca dopo venticinque anni, nove mesi e ventinove giorni dalla prima volta che aveva mai desiderato farlo fu ancora potente abbastanza da lasciarlo senza fiato.
Ogni parte del suo corpo lo toccava, e quella lingua che tanto lo faceva impazzire tra le lenzuola lo ribaltava dentro, sino alle viscere.
«Stringimi» mormorò, tra un bacio e l’altro. «Per favore, stringimi.»
«Sempre, sempre, sempre. Lo prometto.»
Quel caldo dentro, la consapevolezza di essere al sicuro, il conforto di essere amato, l’impossibilità fisica di smettere di sorridere, l’euforia che gli faceva pizzicare il cuore nel petto... era la più pura, profonda espressione della felicità.
30 Giugno 1914
Alexander aveva i piedi nell'acqua, i pantaloni arrotolati sin sopra la caviglia. Faceva caldo, ma non torrido e insopportabile, e stava contemplando l'idea di farsi un bagno.
I suoi occhi erano fissi sul mare piatto che aveva osservato, vissuto e ritratto negli ultimi trent’anni.
Stava seduto sulla distesa di sabbia tiepida, coi piedi a mollo, aveva appena finito di albeggiare e lasciava la sua mente spaziare al tempo dello stridìo dei gabbiani che svolazzavano a pelo d’acqua.
Sentì un rumore di passi che si avvicinavano affondando nella sabbia, e le sue spalle si rilassarono. Vide con la coda dell’occhio Harvey che si toglieva le scarpe e le calze, si alzava l’orlo dei calzoni e prendeva posto accanto a lui.
Così si voltò e l’osservò alla luce del sole ancora basso, senza mascherare il suo sguardo. Aveva la stessa zazzera indomabile, striata di grigio; sul collo e sul mento spuntava un’ombra di barba, ispida al tatto; il volto si era inasprito, aveva qualche primo accenno di rughe, ma gli occhi erano rimasti i suoi, scuri e gentili.
«Buongiorno» salutò, con un sorriso caldo. Si sporse in avanti e premette le labbra sulle sue, sotto il sole cocente di fine giugno, in un gesto di libertà che riusciva ancora a sopraffarlo.
«Buongiorno a te» rispose, senza riuscire a trattenere il sorriso che gli fiorì sulle labbra. «Pungi, sai? Dovresti rasarti. Domani arriverà Helen e voglio che sia presentabile!»
Harvey ghignò. «Nah, la ragazza è abituata. Ormai si è arresa con me, se mi sistemassi finirei per sconcertarla.»
«Ti sgriderà di nuovo se ti trascuri così, sai?»
«E dove sarebbe la novità? Ci pensate tu e Sarah a bacchettarmi ogni volta!»
«Altrimenti dov'è il divertimento?» domandò, con un ghigno.
«Sei un diavolo tu. L'ho capito dal primo giorno che ti ho visto!»
«Bello e dannato» confermò, con un occhiolino.
Harvey rise buttando indietro la testa, una risata lunga e bassa, che veniva dal torace. «Sì, ti piacerebbe.»
Cadde tra loro un confortevole silenzio.
La ragazza, Helen Artemis Woods, era la primogenita di Hector. Nata quasi trent’anni prima, nell’ottantasei, ormai veniva in visita ogni anno per vedere lo zio e la sua strana famiglia.
Aveva ereditato da suo padre i capelli rossi e lo sguardo severo, ma aveva un grande cuore. Il secondogenito, Ulysses Theodore, era un ragazzo più ribelle dagli occhi dolci di sua madre.
Harvey fece un sospiro d’improvviso cupo, che lo impensierì. «Hai sentito l’ultima stamattina, al giornale radio?»
Scosse la testa. «Sono uscito che ancora dormivano tutti. Che è successo?»
«Hanno ammazzato Francesco Ferdinando. In Serbia c'è la guerra, a quanto pare. O almeno, ci sarà.»
«Sei preoccupato?»
«Un po’. Questo paese non è il più sicuro, non si è ancora assestato bene dopo l’unificazione. Ho paura che sarà un disastro...»
Alexander si strinse nelle spalle, leggero. «La guerra dovrebbe passare mezza Europa prima di arrivare qui. Non se ne è mai vista una tanto grande. Sono certo che non corriamo alcun pericolo.»
«Se lo dici tu...» vide Harvey prendere una grossa boccata d’aria di mare, profumata di fiori e salsedine e tanto diversa dall’aria densa di Londra tra le fabbriche e i rifiuti industriali. «Ce la siamo cavata, noi due, però.»
«Ce la siamo cavata, sì. E continueremo a cavarcela ancora a lungo.»
Nonostante il mal di vivere che non era mai guarito, che ogni tanto lo immobilizzava a letto e gli faceva desiderare di sparire, riteneva che sì: se l’erano cavata eccome.
Il Maggiore Vermouth aveva sempre avuto ragione. Alexander era riuscito a resistere, lo aveva fatto per tutto quel tempo e non aveva nessuna intenzione di smettere.
«Forse torna Lizzie il mese prossimo» continuò Harvey, con un sospiro. «Mi piacerebbe. Mi piace averla qui. Magari porterà Charles e i ragazzi...»
«Piacerebbe anche a me» rispose, lui che ormai si era affezionato alla più piccola dei Connor tanto da considerarla una sorellina.
«Posso farti una domanda? Ma non puoi mentire. Ti prego, Alex, solo per questa volta.»
«Mi sembrava di averti detto che puoi fare tutte le domande che vuoi.»
«A te piace la nostra vita?»
Lui restò pietrificato, sdraiato sulla sabbia in un istante che si dilatò all’infinito.
«Che domanda... complicata.»
«Quindi “no”» mormorò Harvey, con uno sbuffo. «Non è una domanda complicata. Se fosse stato “sì” mi avresti risposto e basta.»
«Se non è sì dev’essere per forza no?»
«Quindi non è un sì?»
Alexander ripensò a come sarebbe stata facile la sua vita se lui fosse stato diverso... anzi, normale. Ripensò alla sua famiglia, oltremare. Ripensò alle voci che giravano su di loro nei dintorni, agli sguardi di scherno, ai sussurri e alle risatine.
«È un “la maggior parte delle volte”» rispose. «Ma non vale per te, per te è un “sì, sempre”. A volte non amo la mia vita, è vero, altre volte sì... ma amo sempre te. Confido che tu lo sappia.»
Lo guardò, preoccupato, e per un attimo il volto di Harvey si sovrappose a quello di Hector, lo rivide davanti a lui come negli anni della sua giovinezza.
Li vide aprire la bocca nello stesso momento, dire “Era una domanda così semplice, Alex. Perché devi sempre rovinare tutto? Perché non puoi essere felice e basta?”
La risposta era che non lo sapeva. A volte gli prendeva così. Era tutto bellissimo, perfetto, ma lui non era felice comunque. Non poteva farci nulla.
Lui rovinava sempre tutto con le sue malinconie, era rotto, lo sapeva. Sentì un nodo alla gola farsi pesante e gli occhi bruciare.
Harvey non pronunciò quelle parole.
Gli rivolse un piccolo sorriso e si sdraiò accanto a lui, i capelli ricci e neri sparsi sulla sabbia bruciata dal sole. «Vorrà dire che, i giorni in cui non ti piace, me la farò piacere per entrambi» disse. «Non dovrebbe essere difficile per me. Io amo la nostra vita. Siamo insieme, non ho bisogno di nient’altro.»
Alexander non rispose, ma lo fissò. «Ti sporcherai la camicia così.»
Tra le poche cose che non erano cambiate, c’era il fatto che non riusciva proprio a distogliere lo sguardo.
«In quel caso troverò un gentiluomo altruista e disinteressato disposto a sgrullarmela di dosso» rispose con un ghigno. «Sai, la sabbia ha il vizio di infilarsi proprio dappertutto. Ho bisogno di una mano d’aiuto per i posti più difficili da raggiungere...»
Ad Alexander venne da ridere. «Sei proprio un pagliaccio» lo sgridò, senza riuscire a smettere di guardarlo. «Grazie. Davvero.»
Anche Harvey gli sorrise. «Grazie di cosa?»
«Di essere ancora qui con me, dopo tutto questo tempo.»
«Non vorrei essere da nessun’altra parte, con nessun altro al mondo. Mai.»
E Alexander, contro ogni suo istinto, ogni fibra del suo corpo che gli urlava che non era vero, non poteva esserlo, gli credette.
Così si rigirò nella sabbia, salendogli in grembo e riempiendolo di granelli dorati. «Ehi! Mi sporcherai tutto, così!»
Lo guardò, sotto di lui, l’uomo che era diventato. Il volto maturo, la barba, il grigio nei capelli.
Non gli occhi. Gli occhi erano ancora quelli infuocati del ragazzo coraggioso e buono saltato addosso al ladro quella sera lontana di novembre, solo perché lui, un allora sconosciuto, aveva avuto bisogno d’aiuto.
Si sporse verso l’uomo che amava, all’aperto sotto al sole, chiuse gli occhi e lo baciò senza paura.
Note autrice
E così termina il nostro cammino insieme.
Per quelli di voi che non hanno fatto caso alle date e che non hanno unito tutti i puntini... il 28 giugno 1914, a Sarajevo, viene ucciso da Gavrilo Princip il duca Francesco Ferdinando. Questo evento viene universalmente considerato la causa scatenante della prima guerra mondiale.
Harvey è preoccupato che la guerra arrivi anche in Italia, e ne ha ben donde: accadrà eccome! E anche Alexander ha in parte ragione, quando dice, per rassicurarlo, “la guerra dovrebbe attraversare mezza Europa prima di arrivare qui, non se n’è mai vista una tanto grande”.
In effetti la prima guerra mondiale, allora nota come Grande Guerra, ha fatto la storia in questo senso.
Abbiamo visto che Alexander e Harvey, tra alti e bassi, hanno comunque avuto una vita libera e piena d’amore.
Alexander è depresso, ogni tanto ha delle crisi che lo costringono a letto, però resta sempre tanto amato e la possibilità di poter stare con Harvey senza doversi nascondere gli ha regalato finalmente un’esistenza serena.
Cosa porterà la guerra nelle loro vite?
Questo non ci è dato saperlo. Purtroppo, aver creato Alexander e Harvey come giovani ragazzi alla fine dell’800 non poteva che significare la loro età adulta all’inizio del ‘900. In realtà, sono proprio dell’età giusta per incappare anche nella seconda guerra mondiale... certo, le cose si complicherebbero non poco visto il poco lusinghiero parere dei fascisti riguardo le coppie omosessuali (e riguardo gli inglesi, lol) però questa è un’altra storia. Per quanto mi riguarda, potete anche immaginare che il giorno dopo questa conversazione Alexander ha deciso di dare retta al sesto senso di Harvey e li trasferisce tutti in Svizzera che resterà neutrale e vissero tutti felici e contenti sulle alpi a giocare con lo slittino.
Chi può dirlo!
Mi andava di dare a questi due una vita per quanto possibile felice, libera, al sicuro dalle trame e le invidie della nobiltà britannica, ma non ho potuto evitare di parlare della grande ombra che aleggiava in Europa in quel tempo. Farlo sarebbe stato incredibile e assurdo.
Quel che gli riserva il futuro nessuno lo sa, ma questi trent’anni insieme gli hanno regalato tanto amore e una famiglia.
Noi, invece, ci sentiamo presto su questi schermi.
Sto lavorando su un fantasy enemies to lovers basato sulla mitologia swahili, un thriller romance ambientato nella tarda Repubblica Romana, e qualche altra storiella contemporary più corta che mi piacerebbe mostrarvi.
Chissà quale avrà la luce prima... lo scopriremo solo vivendo!
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