VIII.3 Vivere Possum
Una volta raccolte un po’ di forze, Harvey aprì la porta e tirò fuori il sorriso migliore che riuscì a mettere insieme.
«Buone notizie!» annunciò, a bassa voce. Lisbeth era già a letto, negli ultimi tempi era diventata più ubbidiente, era raro che lo aspettasse alzata.
«Hai un aspetto orribile» commentò Sarah.
La frase onesta e brutale lo colpì come un ceffone. Restò fermo qualche attimo, turbato, poi decise di ignorarla.
«Mi danno un aumento. Almeno il doppio dello stipendio, forse più. Potremo affittare un vero appartamento e mandare Lizzie a scuola. Avrò il giorno libero e lavorerò di giorno e non di notte» disse Harvey, tutto d'un fiato.
Sarah sgranò gli occhi, sbalordita. «Dici sul serio?»
«Sì.»
«E dov'è la fregatura? Sembra che sia appena stato a un funerale. Hai cambiato lavoro? Ti devi prostituire o roba del genere?»
«Cosa? Ma che cavolo dici? Come ti viene in mente?»
«Che ne so, io? Quelli come te lo fanno, a volte. Almeno, ho sentito così. E non urlare, Lizzie sta dormendo.»
Le parole “quelli come te” dette in quel tono gli fecero chiudere lo stomaco.
«Fingerò di non averti sentito, per il bene di tutti. Non sono proprio... non sono proprio dell'umore adesso.»
Sarah alzò gli occhi al cielo. «Qual è la fregatura, quindi? Lo so che c'è.»
Harvey sospirò. «Ci trasferiamo a Liverpool. Il lavoro l'ho trovato lì. Il signor Johnson ha aperto una catena di ristoranti laggiù e mi ha chiesto di venire con lui.»
«Oh» disse Sarah, e non passò che un attimo e capì cos’era che lo turbava. «Oh, Harvey. Mi dispiace.»
«Non è vero» sospirò lui, togliendosi il soprabito e sfilandosi i guanti, poi si sedette sul letto come svuotato. «Non ci credo che ti dispiace.»
«Sai che non approvo molto certe tue scelte–»
«Guarda che io non ho scelto niente. Non è una cosa che si sceglie. Anzi, al massimo ho scelto di allontanarmi, quindi...»
«–ma ti voglio bene. Sei mio fratello. Ed è vero... è vero che ti rende felice. Non posso odiare qualcosa che ti rende felice, anche se non la capisco. Scusami se non te l'ho detto prima.»
«Ormai è tardi, non trovi? Non importa più quello che pensi di certe... cose.»
«Non per forza. Non è che ora che andrai a Liverpool sarai guarito. Incontrerai di nuovo qualcuno e-»
«Guarito? Ma come parli? Sono sano come un pesce, io!»
«Scusami, io non so proprio come dirlo. Senti, ci sto provando okay? Ci sto provando davvero. Io voglio solo che tu sia felice e che non ti succeda nulla di male, tutto qui.»
«Se ti può consolare non credo che conoscerò nessuno. Non mi era mai importato di qualcuno prima, non credo che mi importerà di qualcuno anche dopo. È stato un caso isolato, tutto qui.»
«Noi siamo fatti così. Stiamo bene da soli» disse Sarah. «Fosse per me, tutti gli uomini della terra a parte te potrebbero smettere di esistere e non me ne accorgerei nemmeno.»
«In realtà sei un po' storta anche tu» commentò Harvey con un ghigno.
«Allora ammetti di essere storto!»
«Oh, eccome. Solo non per i motivi che pensi tu. O forse anche, chissà. Forse hai ragione, sono solo storto. Però non posso farci niente. E comunque non è che faccio male a qualcuno.»
«Solo a te stesso.»
«Tanto ci trasferiamo, nessuno si farà male, men che meno io. Andremo a Liverpool e ricominceremo da capo, da persone normali.»
«Mi dispiace, Harvey.»
«Questo l'hai già detto.»
«Ma tu non mi hai creduto.»
«Hai ragione» sospirò. «Non l'ho fatto. Ma se è per questo non ti ho creduto neanche adesso.»
Nei giorni che mancavano al trasferimento, Alexander si limitò a dire che ci stava lavorando.
Harvey non indagò oltre, sapeva che qualunque cosa aveva in mente non avrebbe funzionato.
Si limitarono a passare il tempo insieme come sempre, solo che qualcosa di minuscolo era cambiato, come appena dopo che Harvey si era ammalato di scarlattina o dopo che Alexander era tornato da Parigi.
In carrozza si sporgevano sempre un po' più avanti del dovuto, le spalle, le mani, le ginocchia si sfioravano un po' più spesso di prima, quando Alex andava a trovarli al mattino con una scusa gli stava un po' più vicino del solito.
Domenica sera Harvey gli disse che il giorno dopo sarebbe partito alle tre in punto da King's Cross, e che se avesse voluto Alexander sarebbe potuto passare a salutarlo lunedì mattina.
Lui rispose che avrebbe avuto altro da fare, e gli intimò di avere fiducia.
Harvey, che di fiducia di natura non ne aveva per niente, prima di scendere dalla carrozza quella domenica gli accarezzò la guancia e gli disse solo “addio”.
Alexander gli rispose “a domani”.
E in quel momento erano a King's Cross, tutti e tre, insieme al signor Johnson, suo fratello Frederick e gli uomini che avevano pagato per aiutarli con i bagagli.
La stazione era piena di gente, ognuno con la sua valigia e borsone al seguito, i treni sbuffavano del vapore lattiginoso intenso e l'aria era densa di fuliggine.
Harvey stava caricando sul treno un baule che conteneva l'interno di quella che era stata la loro credenza, e benché stesse andando ad affrontare la sua nuova vita aveva il morale a terra.
Il fatto che il giorno prima Alexander si fosse rifiutato di salutarlo, che quella mattina non si fosse presentato, gli bruciava.
In verità una parte di lui, sepolta dietro le macerie delle sue ansie e le sue certezze inalienabili, in silenzio e con titubanza, gli aveva creduto.
Una lontana, debole parte di lui aveva sperato che arrivasse quella fantomatica soluzione che Alexander aveva millantato. Quel Deus ex Machina che come nel teatro greco sarebbe dovuto piovere dall'alto e gli avrebbe permesso di poter vivere bene e allo stesso tempo di restare a Londra.
Eppure era in stazione in quel momento, e l'orologio che Alexander gli aveva dato, quello da cui non si era più separato, segnava le tre meno dieci.
Dieci minuti, e il treno sarebbe partito.
Dieci minuti, ormai sarebbe servito un miracolo.
Era fatta, ormai si sarebbe dovuto arrendere all'evidenza. La soluzione, come lui aveva immaginato, non esisteva.
Sarebbe almeno potuto venire a salutarlo, questo era quello che più faceva male.
In quel momento, lo sconforto perché non l'avrebbe mai più visto superava di gran lunga le gioie derivate dalla sua nuova vita.
«Che dici, è tutto?» chiese Sarah, non appena Harvey ebbe tirato su il baule. Il signor Johnson era appena andato a controllare i posti, e Lisbeth stava aggrappata alla gonna di Sarah, incuriosita e un po' intimorita dal caos della stazione.
«Mi pare di sì, gli operai sono già andati. Rimane solo da-»
«Ehi! Non si può entrare con quello!»
Il grido del poliziotto superò il rumore dei treni fermi ai binari, poi sentirono un tonfo forte e qualcuno gridò.
«Guardate!» esclamò Lisbeth, indicando un punto vicino all'entrata.
Harvey e Sarah si voltarono nello stesso momento, giusto in tempo per vedere Alexander che aveva appena fatto il suo ingresso, ancora in sella al suo cavallo, nella stazione, rovesciando una panchina, urtando l'orologio di uno dei binari e facendo scappare gran parte di quelli che affollavano il binario otto.
Un poliziotto lo rincorreva a perdifiato, raggiungendolo proprio mentre saltava giù e consegnava le redini a uno sventurato passante.
Harvey osservava la scena a corto di parole. Era tutto così surreale che si chiese se si stesse trattando di un sogno assurdo.
«Signore, per l'amor del cielo! Niente cavalli in stazione!» esclamò il poliziotto, col fiatone per la corsa.
«Fatemi la multa, allora, e lasciatemi in pace» rispose lui, senza neanche degnarlo di uno sguardo e correndo verso i tre fratelli che stavano davanti alla porta aperta del treno.
«Grazie a Dio, sono arrivato il tempo! Scusate, ma mi sono deciso all'ultimo e non trovavo niente di adatto.»
«Alex, che diavolo stai facendo?» sibilò Harvey. Tutti i presenti stavano osservando la scena tra occhiate perplesse, bocche spalancate in un'espressione sbalordita e risatine.
Il signor Johnson si affacciò giù dal treno.
«Che cos'è questo chiasso? Salite dai, il treno sta per partire» disse, poi i suoi occhi trovarono Alexander e aggrottò la fronte, confuso. «Lord Woods, siete venuto a salutare?»
«Non proprio. Sono venuto a fermarvi, in effetti» disse, aggiustandosi il colletto della camicia come se avesse problemi a respirare. Aveva le guance in fiamme e sembrava parecchio nervoso.
Sarah e Harvey si scambiarono un'occhiata sconvolta, mentre Lisbeth sembrava deliziata, come se si stesse divertendo un mondo.
Sarah allungò la mano, afferrò quella di Harvey e la strinse. Lui rispose alla stretta come se l'unica cosa certa in quel momento fosse che quell'incertezza la stavano affrontando insieme.
«Ho pensato molto a quello che ci siamo detti l'altra sera, e sono giunto a un'unica conclusione. Non sono disposto a rinunciare a te, non adesso.»
Il treno fischiò.
«Ma che state dicendo?» chiese il signor Johnson. «Ora dovremmo proprio andare.»
«Non interrompete, voglio sentire!» disse Lizzie, lanciandogli un’occhiataccia.
«Non so quando sia successo, forse addirittura il primo giorno che ci siamo incontrati, forse il giorno dopo, ma non tanto di più. Fatto sta che non puoi chiedermi di stare a guardare te che lasci la città per sempre. Non lo permetterò, capisci?»
Harvey si sentì mancare. Quello era davvero troppo, era pieno di gente, qualcuno avrebbe capito.
Anche lui aveva fatto una follia del genere, era corso al porto per vederlo un'ultima volta prima che andasse a Parigi, ma non così.
Non era entrato a cavallo in stazione, non era stato tanto esplicito, non aveva parlato a voce alta facendo ascoltare tutti, non l'aveva fatto di fronte alla polizia.
Ebbe paura che gli stessero cedendo le gambe, di stare per svenire.
«Non andate a Liverpool. Venite a vivere con me, posso mantenervi tutti. Non dovrai lavorare più un giorno in tutta la vita, nessuno di voi dovrà farlo. Penserò a tutto io.»
Harvey non sapeva neanche cosa rispondere. Non solo quella era una pessima idea in generale perché le persone avrebbero potuto fare insinuazioni, ma da quel momento in poi non ci sarebbero neanche state insinuazioni da fare. Era tutto lì, pronunciato ad alta voce, alle orecchie di tutti.
Non erano più pettegolezzi, erano fatti.
Il controllore si avvicinò di corsa. «Signore, devo chiederle di andarsene. Sta creando disordini, e non può partire il treno.»
Alexander sbuffò. «Fatemi una multa anche voi, allora! Non vedete che sto facendo un discorso?»
«Sarah, mi sto sentendo male. Sarah...» sussurrò Harvey.
Lei non rispose, si limitò a stringergli la mano più forte. Là intorno al cavallo si era creata una piccola folla di spettatori.
Alexander sembrava intimidito, ma anche che stesse cercando di non darlo a vedere. Era paonazzo, aveva gli occhi che brillavano ed era persino più elegante del solito col suo soprabito grigio chiaro, il cappello nero, le scarpe tirate a lucido e un bastone elegante in legno scuro che non portava quasi mai. Dava l'idea di uno che si era preparato a lungo e con attenzione a quel momento.
Si schiarì la voce. «Stavo dicendo che non posso lasciarti trasferire e che dovreste venire tutti a vivere con me. E che mi è venuto in mente il modo migliore di farlo! È fantastico, a ben pensarci. Un po' definitivo forse ma beh, diciamo che non programmo di cambiare idea a breve. È inattaccabile, sono molto fiero di me. Non so come possa essermi venuto in mente solo adesso. Comunque...» si frugò con furia nelle tasche per qualche secondo, poi tirò fuori qualcosa che strinse nel pugno.
Guardò verso Harvey per un momento, con occhi tanto intensi che quando i loro sguardi si incrociarono tutto il resto svanì.
Distolse lo sguardo e intorno a Harvey si rimaterializzò la stazione e tutto il resto.
Ora Alexander stava guardando Sarah e si era buttato con entrambe le ginocchia sul pavimento sporco e annerito della stazione.
Harvey capì quello che stava per succedere solo un attimo prima che succedesse. Poi il mondo e tutto quello che conosceva venne ribaltato e la terra gli venne strappata da sotto i piedi con violenza.
«Sarah Connor, mi fareste l'onore di diventare Lady Woods? Mi fareste l'onore di diventare mia moglie?»
L'anello era sottile e di colore chiaro, Harvey non aveva idea se si trattasse di oro bianco o di argento, e sopra aveva una pietra preziosa di colore giallastro che immaginò essere un topazio. Quello di cui era certo era che quell'oggetto era senza dubbio l'oggetto più costoso che avesse visto in tutta la vita.
Per un attimo Harvey fu convinto che quello che vedeva non poteva essere reale. Di certo si trattava di un incubo.
Un incubo che comprendeva ogni cosa che lo terrorizzava di più.
La sensazione di essere scoperto, la polizia, la rivelazione che in realtà aveva sempre avuto ragione e Alexander era solo un tipo affettuoso e un po' strano che in tutto quel tempo aveva solo fatto la corte a sua sorella.
Era convinto che le cose non potessero andare peggio, poi successe una cosa ancora più sorprendente.
Sarah gli strinse la mano in una morsa, tanto che temette che gli avrebbe fracassato le dita. Guardò l'anello come se stesse guardando giù verso un abisso, indecisa sul buttarsi o meno.
Prese un profondo respiro e disse,
«Sì.»
Note autrice:
Evviva gli sposi!
Insomma, con Alexander e Sarah uniti in matrimonio, anche Harvey e Lisbeth si potrebbero trasferire a Villa Woods insieme a loro, non era raro per le famiglie allargate di vivere assieme in quel modo.
Purtroppo Harvey ha una leggerissima coda di paglia, qualche problemino di insicurezza e... qualcos’altro che scoprirete nel prossimo – e penultimo – capitolo. Di cosa si tratterà mai?
Il prossimo capitolo è il più corto di tutti, perché ha visto un pesante taglio a posteriori. L’ho dunque diviso, in via del tutto eccezionale, in due parti anziché tre.
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