VII.2 Gli uomini non piangono
Quando arrivò al Gabbiano Ubriaco, c'erano già alcuni clienti in sala. Gli avventori si girarono tutti a guardarlo con occhi straniti, non appena lo scampanellio della porta preannunciò il suo non troppo trionfale ingresso al locale.
Il signor Johnson lo osservava da dietro al bancone, con un'espressione neutra e uno sguardo freddo.
Harvey deglutì.
«Potresti venire sul retro un secondo, per favore?»
«Sì, signore» rispose, non sapeva neanche lui come aveva fatto a raccogliere abbastanza fiato per quella frase.
Lo seguì a testa bassa sul retro del locale, dove non andava quasi mai.
Era una stanzetta angusta, con la cantina dei vini e degli altri alcolici, una scrivania piena di carte dei conti, una sediolina e una piccola finestra che dava sul vicolo laterale.
Harvey si guardò intorno a disagio, allentandosi il colletto della camicia che era già stato slabbrato dalla rissa.
«Sei in ritardo. La settimana scorsa mi hai chiesto di poter lavorare con un'ora di anticipo perché avevi bisogno di soldi, io te l'ho concesso, e tu sei in ritardo.»
«Mi dispiace, signore» mormorò, senza alzare lo sguardo. «Sono stato aggredito lungo la strada.»
«Non mentire» rispose l'uomo, brusco. «Nessuno si sognerebbe di fermarti per derubarti, non conciato in quel modo.»
Harvey chiuse gli occhi. «Avete ragione. È vero, è imperdonabile, io…»
«Tu mi piaci, Harvey» disse il signor Johnson, e quelle parole lo spinsero ad aprire gli occhi e guardarlo in faccia. «Ma non posso continuare così. Sei stato malato il mese scorso e non ti ho licenziato, mi hai chiesto di poter lavorare di più e ho accettato anche se ogni centesimo che ti do esce dalle mie tasche, e tutto solo perché tu davvero mi piaci, sei un bravo ragazzo. Altri ti avrebbero mandato via, io non l'ho fatto perché, Dio mi perdoni, mi sono affezionato. Ma non posso continuare così, non puoi anche iniziare ad arrivare in ritardo coperto di sangue perché ti sei azzuffato con qualche idiota per strada. Non faccio elemosina, ho bisogno di un dipendente, non di un fastidio.»
Harvey si strinse nelle spalle. «È vero» rispose soltanto. «Avete ragione. Non so che dirvi, signore, davvero.»
Sentì che iniziavano a pizzicargli gli occhi ma si sforzò di non battere troppo le palpebre per non piangere, perché sarebbe stato davvero ridicolo.
Gli uomini non piangono, disse la voce di suo padre nella sua testa, poi quella del suo maestro, dei suoi compagni, e infine addirittura la sua.
Che idiozia. Tutti piangono, lo sgridò la voce di Alexander.
Philip aveva ottenuto quello che voleva. Le voci sul suo licenziamento sarebbero girate e lui avrebbe festeggiato, sicuro che fosse stato merito suo. Aveva vinto lui, perché Harvey era stato così idiota dal cedere alla provocazione anche se sapeva di fare il suo gioco.
A Harvey scappò una lacrima che gli bruciò la guancia, ma non si mosse di un millimetro, e continuò a trattenere le altre. La lasciò scivolare lungo il volto senza asciugarla.
«Smettila di fare scenate» commentò il signor Johnson, secco. Harvey non rispose perché se avesse parlato sarebbe scoppiato a piangere di sicuro. Non ricordava di essersi mai vergognato più di quel momento. «Prendi la tinozza, portala qui e lavati la faccia, poi vai a riempirla di nuovo. Oggi non avrai nessuno stipendio, non ti pago per farti prendere a calci.»
Harvey lo guardò confuso, senza capire cosa aveva detto. Visto che continuava a fissarlo immobile e in silenzio, il signor Johnson sospirò.
«Non ti licenzio, per ora. Ma arriva in ritardo un'altra volta e sei fuori. E smettila di piangere, non sei una ragazzina.»
Non ti licenzio, non ti licenzio, non ti licenzio, non ti licenzio.
Harvey annuì. «Subito.»
Corse fuori e afferrò la tinozza sotto gli sguardi confusi dei clienti, e vide che il signor Johnson usciva per iniziare a servirli e dare un'occhiata. Rovesciò qualche goccia sulle carte della scrivania ma non ci badò più di tanto.
Era un disastro, un maledetto disastro.
Si passò l'acqua in volto e questo gli diede una svegliata. Sentiva ancora male per la rissa, era stanco per la corsa e la paura del licenziamento gli aveva lasciato la tachicardia.
Avrebbe dovuto dire a Sarah e gli altri che non era stato pagato quel giorno, e avrebbero tutti dovuto saltare la cena il giorno dopo, se Maddie non avesse portato nulla al pomeriggio anche il pranzo.
Non credeva di riuscire a saltare il pranzo, ora che era almeno una settimana che saltava la cena e non lo sapeva nessuno.
Almeno, si consolò, aveva ancora un lavoro.
Strizzò gli occhi e gli sfuggì qualche altra lacrima che fu asciugata con le maniche, poi prese un profondo respiro.
Doveva lavorare, a qualsiasi costo, non poteva permettersi di cedere.
Era questa la sua vita, lo era sempre stata. Caricare l'insopportabile sulle sue spalle e sopportarlo lo stesso.
L’aveva sempre fatto, l’avrebbe fatto in quel momento.
Aspettò qualche secondo che il suo cuore si calmasse, poi uscì in sala, con l'espressione più incoraggiante che riuscì a tirare fuori, gli occhi che facevano male e pure il petto.
Quando passò accanto al signor Johnson, lui gli sfiorò il braccio con la mano. «Su, ragazzo» gli mormorò, vedendolo tornare al lavoro. «Sei migliore di così.»
Harvey tentò di sorridergli ma non era sicuro di esserci riuscito.
Sarebbe stato un lungo turno.
Quando alla notte camminò verso casa, andò più lento del dovuto. Non aveva nessuna voglia di farsi vedere con quello che era sicuro fosse un livido grande metà della sua faccia, e con la notizia che pur essendo uscito prima per lavorare un'ora in più in realtà non avrebbe portato a casa un soldo.
Quando arrivò a casa non se la sentì di entrare subito. Posò la schiena sul muro dell’edificio e si lasciò scivolare per terra, finendo raggomitolato sul ciglio della strada.
Sentiva Sarah e Lizzie parlottare dentro la stanza, ma non riconosceva le parole. Forse Sarah la stava costringendo ad andare a letto.
Gli parve di sentire il suo nome, e immaginò cosa potessero aver detto. Conoscendole, qualcosa come
Non voglio dormire!
Harvey ha detto che vuole trovarti a letto quando torna!
Non mi interessa cos'ha detto! Non ho sonno e a letto non ci vado!
Si chiese anche cosa stesse facendo Alexander. Leggendo o scrivendo, forse. Disegnando, magari. Pensò che se non ci fosse stato lui, un giorno in meno di paga non avrebbe pesato così tanto sulle loro spalle.
Si sentì tanto in colpa da quel pensiero che gli venne da vomitare.
Non aveva nessun diritto di pensarla così. Alexander quando aveva avuto tutto gli aveva dato ogni cosa di cui aveva bisogno. Aveva pagato il medico quando era stato male, non si era tenuto neanche una sola serata libera per non farlo tornare solo dal lavoro, quando aveva avuto bisogno di qualcosa non aveva mai rifiutato nulla.
Harvey era diventato un vero lavoro per lui, non aveva nessun diritto di lamentarsi se era venuto a chiedergli aiuto quando si era ritrovato senza una casa.
La testa gli faceva male, e l’orgoglio ancora di più. Nascose la testa tra le ginocchia, si abbracciò le gambe e strizzò gli occhi.
Si lasciò scappare un singhiozzo e da un momento all’altro esplose in un pianto scomposto e incontrollabile.
La verità era che Philip aveva ragione. Non era riuscito a mandare Lizzie a scuola, non era riuscito a restituire ad Alexander neanche un millesimo di quello che lui gli aveva dato, non era riuscito a garantire a Sarah nulla di quello che meritava e desiderava.
Aveva deluso i genitori che gli avevano chiesto di tenere le redini della famiglia prima di morire, aveva deluso il suo amico che si era rivolto a lui per avere un tetto sulla testa, aveva deluso le sorelle che ora avrebbero dovuto fare altri sacrifici perché lui non era in grado di fare niente e rischiava addirittura di farsi scappare il poco che aveva perché era un idiota.
Era nato fallito e sarebbe morto fallito.
Persino presto, se avesse continuato a non mangiare.
Iniziò a pensare che se lo sarebbe meritato.
Continuò a stare rannicchiato per terra per un po', non aveva idea di quanto. Sentì passanti camminare per la strada e rallentare quando gli passavano vicino, ma nessuno lo interpellò, e lui ne fu grato.
Le persone si fecero sempre meno, e la strada in breve fu deserta per l'ora tarda.
Faceva freddo, lui aveva quasi smesso di piangere ma ogni tanto gli sfuggiva un singhiozzo isolato, ogni volta che pensava che si sarebbe dovuto alzare ed entrare in casa.
Strinse le sue gambe più forte, la testa ancora sulle ginocchia e la schiena posata al muro.
Sentì distante un “basta, io vado a cercarlo”, e la porta di casa che si apriva.
Sapeva chi era uscito, perché aveva riconosciuto la voce.
Sperò che non lo notasse.
La porta si chiuse e sentì due passi, poi più nulla, come se la persona si fosse fermata.
Oh, no.
«Ma che... Harvey?»
Oh, no, no, no.
Sentì un rumore affrettato e poi avvertì che qualcuno si era inginocchiato accanto a lui. «Harvey, da quanto tempo sei qua fuori?»
Lui tenne gli occhi serrati e non rispose. Sentì che una mano gli si posava sulla schiena per dargli un po' di conforto.
«Harvey, dimmi qualcosa per favore.»
La voce di Alexander, che sino a quel momento era stata un po' infastidita, ora sembrava preoccupata.
Harvey non voleva spiegargli perché stava male, voleva solo essere lasciato in pace. Gli sfuggì un altro singhiozzo e prima che potesse farci nulla cominciò a piangere di nuovo.
Dio, era davvero un disastro.
«Okay, vado a chiamare Sarah» mormorò Alexander, e fece per alzarsi.
«No!»
Persino Harvey si stupì di aver parlato, ma non aveva nessuna voglia di vedere Sarah al momento.
«Entriamo almeno, qua fuori fa freddo, e se ti ammalassi di nuovo non potremmo-»
«No» ripeté Harvey.
La mano che Alexander teneva posata sulla sua schiena iniziò ad accarezzarlo per consolarlo, e lui sentì i respiri che si calmavano e i singhiozzi che si fermavano di nuovo.
«Perché non mi guardi in faccia? Fammi vedere come stai.»
«No.»
Sentì Alexander sospirare. «Ma non conosci altre parole, oggi?»
Harvey fece il primo sorrisino bagnato da quando aveva incontrato Philip. «No.»
«Sei insopportabile» mormorò Alexander, continuando ad accarezzargli la schiena. «Avverto Sarah che sei qui, è preoccupata. Le dirò di non uscire, non temere. Tu aspetta qui e non muoverti, capito?»
«Sì» sussurrò.
La mano che gli accarezzava la schiena gli diede due pacche di approvazione e sparì, lasciandolo vuoto e solo.
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