VI.1 Ciò che è giusto

Caro Harvey,

Parigi è come sempre meravigliosa, eppure non riesce a scaldarmi il cuore come era solita fare un tempo.

Le luci della Ville Lumière sono impallidite e spente, la Senna non scintilla affatto sotto i raggi della luna, persino le pasticcerie del centro non diffondono il loro solito profumo.

Tutto quello a cui penso ormai è al tempo che perdo lontano da Londra, lontano da ciò che più anela il mio cuore.

Ho sempre con me la tua bussola; avevi ragione: ora posso sempre con assoluta certezza guardare nella tua direzione, non importa quanto siamo lontani. 

Ogni volta che rivolgo il mio sguardo a nord-ovest mi sembra di vederti, mentre torni a casa alla sera con la testa china, o con lo sguardo che segue le righe di una pagina al lume di candela, persino la mia preferita – al mattino, in piedi su una sedia a recitare, mentre una fiaba dei Grimm prende vita sotto lo sguardo attento di tua sorella.

Non è passata che una settimana e conto già i minuti che mancano al mio ritorno.

A essere del tutto sinceri, ho iniziato a contarli nel secondo in cui dal ponte della nave ho visto il porto sparire all’orizzonte, e te con lui.

Per sempre tuo,

Alex

P.S. 

Saluti alle signorine

Harvey riprese fiato e chiuse gli occhi, sdraiato sul suo letto, e si posò la lettera sul petto. Continuò con dei respiri profondi, nel disperato tentativo di calmarsi.

Quando aveva deciso di correre in porto prima della partenza l’aveva fatto per disperazione, certo che non ci sarebbe stato il tempo di ricevere una risposta e che quindi non avrebbe avuto nulla da perdere.

Era saltato fuori non solo che si era sbagliato e che il tempo non era finito, ma che nonostante tutto non aveva perso proprio niente. Anzi, la risposta che aveva ricevuto era tanto positiva che andava oltre le sue più rosee aspettative.

Dopo quelli che potevano essere stati circa cinque minuti di orologio, in cui cercò senza successo di rallentare i battiti del suo cuore, riaprì gli occhi e sospirò tanto forte da temere di essersi sgonfiato.

Sarah continuava a cucire seduta sullo sgabello, Lisbeth lo guardava confusa, la fronte aggrottata.

«Si può sapere che ti prende?»

Harvey aprì la bocca per rispondere, ma Sarah lo precedette. «È innamorato pazzo, come uno scemo, ecco cosa succede» disse annoiata, alzando gli occhi al cielo. «Dio, è così ovvio...»

A quelle parole, Harvey si alzò a sedere. «Cosa? Innamorato? Io? Come ti viene in mente?»

«Ti prego, smettila di negare, è già abbastanza ridicolo così.»

«Guarda che ti stai sbagliando di grosso!»

«Di chi è innamorato?» li interruppe di nuovo Lisbeth, che a quanto pareva si fidava più delle parole della sorella che delle deboli proteste di Harvey.

«Di nessuno» rispose lui risoluto.

«Non si può dire di chi» rispose invece Sarah, che aveva ripreso a cucire.

«E perché?» chiese Lisbeth, sempre più incuriosita.

«Sarah, non farlo.»

La ragazza lo ignorò. «Perché questo mondo ha delle regole, che a volte non sembrano giuste-»

«Sarah, ti prego...»

«-ma bisogna seguirle comunque, perché altrimenti sarebbe il caos.»

«Bisogna seguire anche le regole ingiuste?» incalzò la bambina.

«Certo che no» rispose Harvey.

«Ovvio che sì» fece eco Sarah, un millisecondo più tardi.

«E perché?»

«Perché» sospirò la ragazza, che pareva aver rinunciato a rammendare la camicia che aveva tra le mani, «ognuno ha una concezione diversa di ciò che è giusto e ciò che sbagliato e se ognuno seguisse solo le regole che ritiene giuste tanto varrebbe non averne nessuna. Ci sono persone che pensano che rubare sia giusto, ma non per questo dovrebbero farlo. Se ognuno potesse decidere quali regole seguire e quali no-»

«Rubare? Che c’entra rubare? Io non rubo! È… è una cosa del tutto diversa!»

«Quindi ammetti di essere innamorato» disse lei, guardandolo di sottecchi.

«No, io… è una discussione ipotetica!» rispose, accorgendosi di avere le guance in fiamme. Come sua madre, anche lui era del tutto avverso al mentire.

Sarah alzò le spalle. «Come vuoi. L’importante è che abbia capito ciò che voglio dire.»

«Forse sei tu quella che dovrebbe capire come farsi gli affari suoi.»

«Io parlo solo per il tuo bene, dovresti saperlo.»

«Tu non hai la minima idea di quello che sarebbe il mio bene.»

«Questa cosa ti farà arrestare. O ammazzare. Sono stata zitta sinché hai cercato almeno di fare finta di niente, ma adesso ti metti pure a sospirare come una ragazzina ed è solo questione di tempo prima che-»

«Non mi interessa cosa pensi tu! Per una volta che penso che forse riuscirò a essere felice anche io, ecco che tu devi sempre-»

«Basta!» esclamò Lisbeth, battendo le mani sul tavolo. Gli altri due sobbalzarono. «Non capisco una parola di quello che dite, e non ho nessuna intenzione di sentirvi litigare proprio adesso.»

«Scusa, Lizzie» risposero i due, in coro.

Sarah si ripiegò sulla camicia e non aggiunse una parola. Harvey si alzò in piedi. «Vado a fare un giro.»

«Oh, andiamo» sbuffò Sarah. «Non intendevo-»

«Ho solo voglia di fare un giro! Non ruota tutto intorno a te» abbaiò, e con due passi fu fuori, sbattendo la porta.

L’aria pesante e quasi densa della periferia gli schiarì la mente. Sbuffò.

Le parole di Sarah gli avevano fatto chiudere lo stomaco, eppure non riusciva proprio a rovinarsi del tutto il buon umore.

Il pensiero di Sarah che l’aveva capito – e chissà quanti altri avrebbero potuto capirlo – lo tormentava. Si guardava intorno osservando i passanti e chiedendosi se lo stessero fissando, se notassero in lui qualcosa di strano, con una sgradevole sensazione di mille occhi giudicanti puntati addosso.

Nonostante questo, però, si sentiva ardere di nuova energia. 

Si era esposto tanto correndo al porto in quel modo, questo era innegabile, ma non aveva incontrato un muro di diffidenza e disgusto come si era aspettato. 

A essere sinceri, non era affatto sicuro di riuscire a definire la reazione che aveva ricevuto. O meglio, lui era appena appena convinto di quello che avrebbe potuto significare, ma non poteva esserne certo al cento percento.

Sapeva che Alexander – Alex, il suo Alex – poteva essere molto affettuoso. In realtà quelle parole non erano poi tanto fuori dalla norma, considerando che da quando era stato male il ragazzo aveva iniziato ad avvicinarsi più a lui senza apparente motivo.

Harvey desiderava davvero che la ragione di quella lettera fosse ciò che lui immaginava, eppure una voce dentro di lui continuava a ripetergli che non era possibile, per mille motivi.

Primo, il fatto che Alexander era una persona perbene, e dunque le possibilità che fosse deviato come lui erano più che scarse; secondo, il suo ricoprire sua sorella di regali che aveva tutta l’aria di essere un corteggiamento; terzo, che se anche i primi due punti fossero sbagliati, Alexander era bello, ricco, dotato di talento artistico, colto e intelligente mentre Harvey era solo un tipo schivo che puliva bicchieri per vivere e a malapena sapeva leggere.

Non c’era nessuna ragione per cui una persona come Alexander potesse trovare il minimo interesse in uno come lui, il fatto che fossero amici era già del tutto insensato.

E poi c’era quello che aveva detto Sarah.

Perché anche nella remota eventualità che Alexander condividesse le sue devianze, che i fiori e i ritratti per Sarah non significassero nulla, che per qualche difetto mentale uno come lui fosse interessato al fallito del secolo, non avrebbe mai potuto dirlo ad alta voce.

Aveva sentito voci su club per gentiluomini un po’ particolari, in giro per Londra, ma non erano proprio fatti per persone come lui. E chi li frequentava finiva spesso dietro le sbarre, persino studiosi e nobili, persone di spicco, figuriamoci Harvey.

In realtà, per quanto la cosa gli bruciasse, Sarah aveva ragione. Il mondo aveva bisogno di regole, e chi era lui per decidere quali regole erano giuste e quali sbagliate? A quel punto chiunque avrebbe potuto, a quel punto ogni regola sarebbe stata messa in discussione, e il mondo sarebbe crollato.

Sì, sua sorella aveva ragione. Certe cose non si potevano dire e basta, perché il mondo funzionava così.

Eppure…

Non esistono amori sbagliati.

Forse era il diavolo che gli sussurrava queste parole all’orecchio, con la voce di Alexander. Suonava tanto allettante quanto dolce, ogni volta che ci pensava si sentiva mancare.

Arrivò su Holland Park Avenue e si sedette su un marciapiede, troppo scosso per continuare a camminare senza meta. Sospirò e chiuse gli occhi.

Non gli era mai pesato il pensiero di non avere l’amore. Non aveva mai trovato troppo ingiusto il fatto che non si sarebbe sposato, non avrebbe avuto dei figli, non avrebbe mai dato un bacio. 

Sapeva che il mondo andava così ed era sempre riuscito a prenderla con filosofia.

Erano bastati due occhi dolci e un valzer suonato al pianoforte ed era capitolato, caduto in ginocchio come un frutto troppo maturo, a struggersi come il peggior cliché delle peggiori tragedie.

«Sono davvero patetico» mormorò, arreso.

Anche se, in fondo, una piccola parte di lui proprio non riusciva a essere infelice.

Tutto quello a cui penso è al tempo che perdo lontano da Londra, lontano da ciò che più anela il mio cuore.

Per sempre tuo,
Alex.

Saltò in piedi tanto in fretta che la sua mente si annebbiò per qualche attimo. 

Sarebbe tornato a casa e avrebbe risposto alla lettera. Aveva detto ad Alexander che l’avrebbe fatto e non avrebbe infranto quella promessa.

C’era ancora tempo per decidere il da farsi, avrebbe almeno dovuto aspettare il ritorno del ragazzo, che non sarebbe avvenuto prima di due, tre settimane.

Aveva tutto il tempo del mondo.

*

Tre settimane.

Tre settimane erano passate, e lui non aveva ancora idea di cosa fare.

L’unica cosa che sapeva era che aveva un bisogno di vederlo tale da fargli venire voglia di urlare.

Avevano continuato a scambiarsi delle lettere, lettere scritte in elegantissima e svolazzante grafia che ogni volta gli pizzicavano le corde del cuore sino a farlo sanguinare.

C’erano giorni in cui Harvey era sicuro di sapere che il suo amore era ricambiato, giorni in cui avrebbe scommesso la vita sul fatto che era impossibile, giorni in cui nella sua mente c’era tanto baccano e tante voci contrastanti da stordirlo.

E poi ci fu il giorno che il suo cervello si svuotò da ogni pensiero. 

Era esausto, il tempo quel giorno era stato buono e aveva lasciato Maddie e Lizzie a giocare ad acchiapparsi per le strade, senza riuscire a resistere dall’inseguirle e giocare con loro. In più la notte di lavoro era stata problematica, aveva dovuto buttare fuori due clienti impegnati in una rissa a inizio turno e, non essendo più abituato a camminare per tutta quella strada, l’idea di dover tornare a casa per un’ora sotto i cieli grigi londinesi gli faceva venire il mal di stomaco.

L’unica cosa che lo mandava avanti era che, nel giro di qualche giorno al massimo, Alexander sarebbe tornato dal viaggio. Non avrebbe retto un altro mese senza di lui, anzi, neanche un’altra settimana.

Era troppo abituato a passare le serate con lui, ogni giorno senza saltarne nessuna; era abituato talvolta a ricevere qualche visita extra al pomeriggio, o a passare alla villa per qualche lavoro dell’ultimo minuto.

Ma soprattutto, ormai era abituato a fare ciò che nella sua vita non aveva mai fatto: ridere, svagarsi, condividere i suoi pensieri con qualcuno.

Tutto sembrava molto più grigio e noioso senza di lui.

La campanella suonò ma lui non alzò lo sguardo, bagnò un bicchiere nella tinozza colma d’acqua, lo svuotò, e cominciò ad asciugare.

«Un doppio brandy, grazie» sentì, e per poco il bicchiere non gli cadde di mano. Lo riacchiappò per miracolo  e lo posò sul bancone con forse troppa forza.

«Scusa, non volevo spaventarti.»

Il ragazzo lo guardava con un sorriso smaliziato, i capelli biondi acconciati, la camicia inamidata sotto il soprabito elegante e gli occhi più ardenti che mai.

Fu in quel momento che il suo cervello si svuotò, lo sentì liquefarsi in un brodino di giuggiole come ogni volta. 

«Alex» esalò in un filo di voce, perché era da settimane che aspettava il momento adatto a chiamarlo per nome di nuovo.

«Harvey» rispose lui, togliendosi il cappello e posandolo sul bancone con un sorrisetto divertito.

Aveva l’aria di uno che aveva appena ricevuto proprio la reazione che si aspettava e ne era rimasto delziato.

Harvey sorrise a sua volta. Era facile riprendere a sorridere quando Alexander era nei paraggi. «Sei tornato.»

«Un’ora fa! Non sono riuscito ad aspettare.»

Si guardarono per un attimo, senza parlare. Harvey aprì la bocca per dire qualcosa, poi ricordò dove si trovava.

«Ti porto il brandy.»

«Grazie» rispose, sfilandosi i guanti. Harvey dovette farsi violenza per riuscire distogliere lo sguardo. «A Parigi ho bevuto litri e litri di vino, ma niente batte il brandy che prendo qui.»

«Lo farò presente al signor Johnson, ora è sul retro a sistemare alcuni conti.»

Alexander si sporse sul bancone e il suo sorriso si allargò. «Non che il signor Johnson abbia nulla a che fare con la mia del tutto improvvisa passione per il brandy.»

«No?» chiese, voltandosi e afferrando la bottiglia. La testa aveva iniziato a girare e si sentiva come se fosse lui quello che si era fatto del brandy doppio.

Versò il liquido scuro in un bicchiere, quattro dita, e lo posò sul bancone accanto ai guanti. Alzò lo sguardo.

«No» rispose Alexander, come se quella semplice parola fosse abbastanza.

Per paura di essere ripreso dal suo capo e anche per qualcos’altro Harvey fece cadere la discussione tornando al lavoro, ma continuava a lanciare occhiate esitanti al ragazzo al bancone, trovandolo quasi sempre che lo osservava a sua volta. 

Il signor Johnson tornò al suo posto e Alexander mise su la sua solita faccia da gentiluomo educato, sorbendosi tutti i “Buona sera, Lord Woods”, “Parigi, eh? Delizioso, davvero”, “Sono felice che siete qui, iniziavo a preoccuparmi” del caso, in quanto ormai cliente abituale. 

Neanche durante il tempo che aveva passato a lavorare era riuscito a pensare a cosa fare quando sarebbero stati soli. 

Tutto quello che il suo cervello  intorpidito era riuscito a comunicargli in quei momenti era stato

Mi sta guardando?

Cielo, sì, mi sta guardando.

E ora?

Anche ora, Dio mi perdoni.

Sta sorridendo. Sto per morire...

Devo smetterla di fissarlo, o se ne accorgerà.

Ma se se ne accorgesse significherebbe che anche lui mi sta guardando.

Mi sta ancora guardando?

Sì. Sì, mi sta ancora guardando.

Quelle voci nella sua testa erano un rumore bianco che gli ronzava nelle orecchie e gli spegneva qualsiasi pensiero. Rischiò di far cadere un bicchiere sul pavimento almeno tre volte, e quando il turno finì Harvey non aveva idea di come ci fosse arrivato.

«Saluti, signor Johnson! Domani sarò qui puntuale! Non vi lascerò più solo tanto a lungo, sapete che non resisto al vostro brandy!»

«Buona notte, milord, ancora bentornato!» disse il signor Johnson, mentre loro si infilavano guanti e cappelli e lasciavano il locale. «A domani, Harvey.»

«Signore…» rispose lui, appena prima di chiudersi la porta alle spalle e uscire in strada.

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