IV.2 All'inferno

Sparì, e Sarah spostò la candela e lo sgabello su cui era seduta dal lato del tavolo vicino al suo letto. Harvey la guardò con rimprovero.

«Non mi avvicinerò più di così» disse lei, riprendendo a cucire in silenzio.

Il fastidio alla gola aumentava, ma lui cercava di trattenersi dal lamentarsi, per non disturbare Sarah e non svegliare Lisbeth. Riuscì a toccarsi la gola e provò a massaggiarla, ma solo sfiorarla gli provocava delle brutte fitte, e la sentiva molto ingrossata.

Non passò più di un’ora e sentirono la porta che si riapriva piano, seguito da un breve «Non alzate la voce, mi raccomando.»

Harvey udì dei rumori ovattati e una figura sconosciuta entrò nel suo campo visivo. Era un uomo che sembrava andare per i cinquanta, con lo sguardo impettito e dei baffi a manubrio importanti. Lo guardò alzando un sopracciglio come l’ala di un falco e si avvicinò.

«Quando sono apparsi i sintomi?»

«Questa mattina» rispose Sarah.

Lisbeth si rigirò nel letto di nuovo. Se non si era già svegliata ci sarebbe mancato poco.

«Riuscite a parlare?»

Harvey fece segno di no con la testa. Vide che anche Alexander era entrato nel suo campo visivo, lo osservava apprensivo senza dire una parola.

«Capite quello che dico?»

Annuì.

Il medico guardò la mano che aveva ancora sulla gola. «Vi fa male?»

Harvey annuì più convinto, poi sentì una mano che afferrava la sua e la spostava in un gesto gentile per permettere al dottore di vedere meglio.  Si aspettò che poi la lasciasse, ma non accadde. Continuò a stringerla in silenzio.

Il dottore si chinò su di lui per osservarlo, ora che la via era libera. Lanciò una breve occhiata di sfuggita verso Alexander.  

«Non dovreste toccarlo, è contagioso» borbottò, toccando la gola gonfia con un dito.

Fu come se l’avesse punto con uno spillone e guaì dal dolore. La presa sulla sua mano si strinse.

«Vi pago per guarirlo, non per dirmi cosa fare» rispose Alexander, asciutto.

«Che cos’ha, dottore?» li interruppe Sarah.

Lui gli aprì la bocca e ci guardò dentro. «Scarlattina, senza dubbio. Avete caldo?»

Harvey scosse la testa.

«Freddo?»

Annuì di nuovo.

«Significa che la febbre sta ancora salendo. Bisogna abbassargli la temperatura. Togliete tutte queste coperte.»

Harvey aggrottò la fronte. Era già scosso da brividi, non aveva nessuna intenzione di crepare di freddo. 

Sarah notò la sua espressione di disappunto mentre spostava le coperte. «Non fare i capricci, avanti. è per il tuo bene.»

«Da quanto non beve? Sta sudando, sarà disidratato.»

«Non so» rispose Sarah, alzando la testa. «Da ieri, credo. Ha detto di non avere sete.»

«Ieri?» domandò il medico. «Cielo, bisogna dargli subito dell’acqua!»

Harvey scosse la testa. Non voleva nulla nel suo stomaco, era sicuro che qualunque cosa ci fosse entrata sarebbe risalita su per l’esofago in tempo di record, come quella mattina.

«Dice che bere lo fa vomitare» tradusse Sarah.

«La febbre lo sta facendo sudare da tutto il giorno. Se non gli fate mandare giù un po’ d’acqua questo ragazzo non vedrà l’alba di domani.»

Sentirono un singulto dal letto accanto, segno che Lisbeth faceva solo finta di dormire. 

La mano che stringeva la sua la strizzò tanto da stritolarla, ma Alexander non disse nulla. Si limitò a stringergli la mano come se volesse triturargli le dita.

«Oh, Signore» mormorò Sarah, che iniziava a dare i primi segni di cedimento. «Cosa… che dobbiamo fare?»

«Deve bere, molto. La temperatura deve abbassarsi finché non inizierà a sentire di nuovo caldo, allora andrà coperto di nuovo. Nel caso in cui superasse la nottata-» Sarah si coprì il volto nel tentativo di nascondere lo sconforto, e la mano che Alexander gli teneva venne stretta in una morsa di nuovo, «sarà tutto un po’ più facile. Domattina porterò l’occorrente per il salasso, e l’oppio per il dolore. Ha bisogno anche di arance, dovete spremerle, ne berrà il succo. Dato che i sintomi sono iniziati da un po’, è probabile che a breve spuntino macchie rosse sul corpo, non allarmatevi, è normale. Tenetelo idratato e domani vedremo.»

Sarah annuì, aveva le guance bagnate e le asciugò con la mano. 

«Non sarebbe meglio iniziare con l’oppio subito? Sembra stia soffrendo» disse Alexander, che per tutta la durata della conversazione aveva tenuto un’espressione neutrale. 

«No, meglio di no per stanotte. Potrebbe indebolirsi troppo. Domani mattina allo spuntare del sole sarò qui e vedremo un po’ com’è andata la nottata.» Si voltò verso Sarah e la guardò con la massima serietà. «Ricordatevi di farlo bere, a questo punto direi almeno un bicchiere ogni ora. Non addormentatevi, o rischiereste di saltare il turno.»

«E se lo vomita? Se non riesce a mandarlo giù?»

«Allora in quel caso domani ci sarà da chiamare soltanto il prete.»

«Capisco» mormorò Sarah. «Be’, grazie dottore. Ci vediamo domani, immagino. Milord-»

«Forse è meglio che resti» disse lui, esitante. «Il dottore verrà riportato a casa da George, non devo andare via per forza.»

«Voi passereste la notte qui dentro?» chiese il medico, con la fronte aggrottata. 

«Certo» rispose lui, candido. «Tutto quello che serve.»

«Non occorre. Cercherò di farlo bere ogni ora, come avete detto. Ce la caveremo. Una persona in più è solo un pericolo in più di contagio, al momento. Tornate pure a dormire.»

«Ah, dormire. Che buffa idea» rispose Alexander con un sorrisino. «Davvero, se avete bisogno di qualcosa posso anche-»

Un stretta di mano di Harvey lo fece voltare. Prese un profondo respiro e disse «Vai pure. Grazie.»

La gola gli bruciò di nuovo, e iniziò a lacrimare. 

Sentì che Sarah gli asciugava nuovamente le guance con la mano. «Non parlare, idiota» disse, con voce tremante.

Alexander non rispose. Si limitò a osservarlo, indeciso sul da farsi.

«Abbiamo tutto sotto controllo» aggiunse Sarah, schiarendosi la voce per darsi un contegno. «Andate a riposare. E se domani avete da fare possiamo arrangiarci. Se il dottore verrà comunque…»

Alexander gli lasciò la mano e il suo braccio cadde come un peso morto. «Ci sarò anch’io. Ci sono tanti affari da sbrigare. Domani al sorgere del sole sarò qui.»

«Grazie, davvero, io-»

«Non ditelo neanche. Andiamo, dottore. Per oggi non c’è più niente da fare. Signorina…» salutò, chinandosi ma evitando di baciarle la mano, questa volta. Probabilmente voleva evitare di toccarla, avendo toccato lui. Accortezza sottile ma che Harvey notò. «E, signor Connor… una volta vi ho detto che siete una delle persone più vive che conosco, non intendo rimangiarmi la parola. Se vengo a sapere che non avete voluto bere nulla questa notte, giuro su tutto quello che amo al mondo che vi farò resuscitare per ammazzarvi con le mie mani.»

Harvey alzò gli occhi al cielo, ma accennò un altro sorriso. 

«Buona notte» congedò, facendo cenno al medico di lasciare la stanza. 

«Signori» commentò l’uomo, con un mezzo inchino. Harvey lo sentì intimare a mezza voce ad Alexander di buttare i guanti che lo avevano toccato, se non voleva prendersi anche lui la febbre.

Quando se ne furono andati chiudendosi la porta alle spalle, Sarah sospirò. «Ti verso dell’acqua, forza.»

Harvey arricciò il naso. 

«Non ci provare. Non ci provare proprio! Il dottore ha detto che devi bere e berrai.»

Sentirono dei respiri affannosi venire dal letto opposto, e Harvey indicò con lo sguardo in quella direzione. Sarah capì.

Attraversò la stanza schiacciandosi per passare tra il letto e il muro – era tutto così angusto, e di notte lo sembrava ancora di più – e si sedette sul suo letto accanto alla sorella.

«Tesoro, guarda che lo so che sei sveglia» disse. L’altra restò zitta e immobile. «Avanti, Lizzie, so che vuoi dire qualcosa.»

«Berrai, vero? Non voglio che muori» pigolò.

Harvey annuì, anche se lei non poteva vederlo. 

Fu Sarah a rispondere per lui. «Ma certo, tesoro. Non morirà nessuno. Non avresti dovuto sentire quelle cose.»

«Le ho sentite, però» aggiunse, a voce bassa.

«Le hai sentite, lo so. Perché non torni a dormire?»

Quella nottata fu un incubo. Sarah lo aiutò ad alzarsi a sedere e gli diede da bere dell’acqua, ma la vomitò tutta, così come per il secondo bicchiere. Nonostante le proteste del fratello, ci provò una terza volta. 

Vederla così gli spezzava il cuore. Non se lo meritava.

La terza fu quella giusta, anche se pur di mandare giù qualcosa tutta la gola gli bruciava come se anziché dell’acqua ci avessero spinto una sbarra di ferro rovente. Gli parve che più acqua buttava giù più scendessero le lacrime, rendendo tutto inutile.

Moriva di freddo ed era scosso da tremori l’attimo prima, quello dopo gli sembrava di essere in fiamme e si sarebbe strappato i vestiti di dosso.

Due ore dopo, il respiro di Lisbeth si fece regolare, segno che si era addormentata. Harvey entrava e usciva da stati di deliri febbrili, mentre Sarah non chiuse occhio. 

Anche quella notte passò, e Harvey era abbastanza sicuro di non essere morto. 

Persino prima che il cielo si rischiarasse, la porta si aprì. Sarah doveva essersi scordata di farsi ridare le chiavi, perché nessuno bussò e non ci fu bisogno di andare ad aprire.

«Come sta andando?» fu la prima frase che si udì all’aprire della porta, senza il minimo accenno a un saluto.

Negli ultimi due giorni le supposte pratiche da veri gentiluomini parevano essere passate in secondo piano.

«Bene» rispose Sarah. «Cioè, male. Ma non è morto nessuno, quindi non malissimo.»

Alexander buttò il cappello e il soprabito sul tavolo senza neanche guardare, e in un attimo fu accanto al letto. Lisbeth mangiava un pezzo di pane duro del giorno prima, seduta su uno sgabello, con gli occhi spenti.

Il medico apparve sull’uscio, seguito da George che portava una cassetta di arance.

«Arance? Come avete fatto a trovarle così presto? Il mercato apre alle sette» mormorò Sarah, osservando la cassetta confusa.

«Il mercato sì» disse Alexander sovrappensiero toccando la fronte di Harvey per sentire la febbre, aveva guanti diversi dal giorno prima. Il medico gli lanciò un’occhiataccia ma non lo sgridò questa volta. «Ma al porto la Compagnia delle Indie Orientali sbarca alle cinque e trenta, e sono loro che portano quel genere di frutta a Londra. Chi le vende al mercato le prende da lì.»

«Oh, cielo» commentò Sarah, «Siete stato al porto così presto? È pericolosissimo!»

«È meno pericoloso che morire di febbre» rispose, sbrigativo. «Più tardi devo ricordarmi di passare al pub per assicurarmi che non venga licenziato, dovrò spiegare al signor Johnson cos’è successo, sperando che mi creda. Altrimenti, beh, cercheremo una soluzione dopo che sarà tutto finito. Serve che compri da mangiare?»

Sarah scosse la testa. «Eravamo riusciti a mettere su qualche risparmio, abbiamo tutto quello che serve.»

«Se cambiate idea-» iniziò Alexander, poi Harvey parlò.

«Ma dov’è andata?» chiese, a voce stentata. Tutti gli occhi andarono su di lui.

«Chi, tesoro?» chiese Sarah, passandogli una mano tra i capelli. «Lizzie? È proprio qui.»

«Mamma. Era qui sino a un attimo fa e-» fece una smorfia e si toccò la gola con frustrazione, tentando di ignorare il dolore. «Non ha tempo, capisci? Altrimenti poi se ne scorda e allora come si fa?»

Sarah sospirò. «Non dategli retta, sono un paio d’ore che non ci sta con la testa. Il momento prima dice qualcosa di sensato e quello dopo invece delira e basta. Sinceramente non so più che pensare...»

Il medico assunse un’espressione contrita. «Non va bene» mormorò. «Affatto.»

Sollevò la valigetta che aveva in mano e la posò sul tavolo. Lisbeth lo guardò a occhi sgranati senza dire una parola. Stava tremando.

«La bambina deve uscire. Subito. E fossi in voi, signorina, andrei a farmi un giro. Non sono scene adatte a una donna.»

«A me in realtà non dispiace. Insomma, non può essere poi così male» mormorò Harvey, guardando verso un punto nella stanza in cui non c’era nessuno. «Io gliel’ho detto, ma loro non mi hanno creduto.»

Alexander e Sarah si scambiarono un’occhiata preoccupata, poi lei si riscosse.

«Io da qui non mi muovo» sibilò.

«George, porta via Lizzie per favore» disse allora Alexander, sovrappensiero.

«No!» gridò, alzandosi in piedi sul letto. «Voglio restare anch’io! Se resta Sarah voglio restare anch’io!»

«Non si può» disse il dottore, fermo. «Devono esserci meno persone possibili, e non è un bello spettacolo. Non faccio certe cose davanti ai bambini.»

«Lizzie, piccola-»

«Ho detto no!»

Harvey sospirò. «Liz, tesoro, ascolta. Fa’ come ti dice il dottore, per favore. Fallo per me, okay?»

Lei si congelò sul posto e lo fissò. Sarah si piegò sul letto, trattenendo il respiro.

«Ehi, sei tra noi? Capisci cosa dico?»

Lui sbatté le palpebre e si accorse di avere ripreso a lacrimare. Guardò Sarah e disse, piano, «Fa male. Voglio che smetta.»

«Faremo subito» lo rassicurò lei. «Starai meglio presto, vedrai.»

Notò con la coda dell’occhio che Lisbeth si allontanava con George, uscendo in strada. Pensò di dirle di entrare in carrozza o avrebbe preso freddo, ma il suggerimento gli si impigliò in testa e non uscì. Era tutto ingarbugliato, là dentro. 

Si voltò e vide che Alexander lo fissava immobile senza muovere un muscolo.

«Secondo voi andrò all’inferno?» chiese, di punto in bianco.

«Oh, Signore» sussurrò Sarah.

«Voi non andrete proprio da nessuna parte» rispose Alexander, con una sicurezza inamovibile. «Altrimenti sarà la volta che mi vedrete davvero arrabbiato.»

«E Violetta? Secondo voi Violetta è andata all’inferno?»

Il dottore si voltò, e iniziò a tirare fuori i suoi strumenti dalla valigetta.

«Sta delirando ancora, vero?» chiese Sarah. «Ve l’ho detto, a volte ragiona e altre invece quel che dice non ha senso. Va e viene.»

«No, stavolta so di che parla» rispose Alexander, senza neanche guardarla. «Perché pensate che Violetta sia andata all’inferno?»

«Aveva un amore sbagliato. Anch’io ho il mio amore sbagliato. Sono abbastanza sicuro che mi farà andare all’inferno.»

Per un attimo fu come se qualcuno avesse passato sul suo volto un panno bagnato e avesse lavato via la sua espressione preoccupata come gesso su una lavagna. Sgranò gli occhi, aprì la bocca per dire qualcosa e poi la richiuse. 

Un battito di ciglia dopo era tornato quello di sempre. «Non esistono amori sbagliati» disse, con un sospiro. Sembrava più stanco di un attimo prima, quasi esausto. «Ma soprattutto, come vi ho già detto, oggi non andrete da nessuna parte. Men che meno all’inferno.»

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