Capitolo 7

Il sangue continuava a colare, sui piedi, lunghe scie calde, impossibili da fermare. Bucky aveva chiamato Natasha, lei glielo aveva raccomandato mille volte di cercarla quando la situazione gli sfuggiva di mano. I sedili posteriori dell'auto della donna erano imbrattati di rosso, chiazze larghe, come sulla maglietta di James, gocce schizzate persino sul suo viso, a tingerli il petto, e a colorargli i pantaloni.
Natasha parcheggiò l'auto difronte all'entrata del pronto soccorso, mentre Loki continuò a premere forte il groviglio di stoffa sporca creato dalla proroga giacca sulla ferita di Bucky.
Il ragazzo c'era ricaduto ancora, d'altronde, come avrebbe potuto smettere?
Era sempre colpa di quello specchio in bagno, scheggiato ai bordi, offuscato dal calore, e macchiato dalle gocce d'acqua secche. Quando Bucky lavava il viso con l'acqua fredda, o spazzolava i denti, o ancora, accorciava di poco la barba, non puntava gli occhi sul suo viso, ma immediatamente vagavano più in basso, sulla spalla incriminata.
Quella sera sul lavello dai bordi bagnati, vicino al dentifricio, era poggiata una lima per unghie dalla punta affilata. La mano destra l'aveva stretta dal liscio manico di plastica azzurro, fino a coprire quasi del tutto la lunghezza piatta e sottile. Poteva fermarsi, se solo avesse ragionato, sarebbe bastato semplicemente posare quel piccolo oggetto e scappare via da quello specchio. Ma attraverso quel riflesso, in quell'altra dimensione, Bucky vedeva se stesso, fatto a malattia. Ventisette pugnalate alla spalla, ripetitive, cariche di forza e isteria. Ventisette singhiozzi, ventisette paure, ventisette vergogne, ventisette colpe.
Altri ventisette secondi da sopportare della propria vita.
Aveva colpito così in profondità, sempre nello stesso punto, da aver reso la ferita di una larghezza più o meno sottile, ma dalla profondità pericolosa. Alla fine, dopo ventisette colpi dati con una forza immonda, la lima si era spezzata in due, e la parte superiore di questa era rimasta incastrata nel profondo squarcio innacquato di sangue. Bucky si percosse altre due volte ancora prima di capire che l'attrezzo si era rotto, sentendo la lama muoversi nella profondità del muscolo. Urlò a denti stretti per la collera ed il nervosismo, gettando il manico della lima dentro al lavandino, schizzando così varie gocce di sangue tutte sulla parete. Si aggrappò al bordo del servizio liscio con la mano sinistra, stringendo con il massimo delle sue forze la superficie. Sapeva che quell'oggetto non sarebbe potuto rimanere lì dentro, e che in un modo o nell'altro avrebbe dovuto tirarlo fuori. James conficcò due dita nella ferita, allargandola gradualmente, così da aumentare la perdita copiosa di sangue che ormai gli aveva imbrattato tutto il braccio. Spinse le dita più in fondo, le chiuse quando la durezza della lima gli scivolò sui polpastrelli, ma ogni volta che gli pareva di averla finalmente afferrata, in procinto di tirarla fuori, a Bucky scivolava via, per rimanere ancora incastrata dentro di lui. Bollente di frustrazione, con gli occhi lucidi e le labbra martoriate da morsi, il ragazzo si precipitò in cucina, sedendosi a capo tavola, con un coltello in mano. Poggiò il braccio sinistro sulla tavola, accanto ad un pacco di sandwich ancora lì sopra dalla cena. Strinse il pugno, incollò il mento sulla spalla, e con quello strumento da cucina lucido e poco affilato, riprese a scavarsi la carne, per allargare la ferita, così da prendere meglio il pezzo della lima per unghie. Dopodiché lavorò ancora tra la propria carne, ad infilarci dentro quasi tutte le dita, fino a quando non fu in grado di togliere quell'intruso. Tirò un sospiro di sollievo quasi felice, quando osservò tra le proprie mani quel ferretto arrugginito intriso di sangue.
Di sangue però la casa era piena, più del solito.
Per terra, tutto sotto il tavolo, sulla tovaglia, sui suoi abiti, sulla sedia, e poi continuava a uscire fuori, come se provenisse da un rubinetto. James ne lasciò uscire ancora un po', con un sorriso stanco e speranzoso in viso. La prima cosa che pensò fu quella di una copiosa perdita di sangue, magari qualche terminazione nervosa non avrebbe retto, non si sarebbe potuta riparare, così finalmente avrebbero tolto via quel braccio.
Però squillò il cellulare, lasciato poco tempo prima proprio sul tavolo. Bucky scorse il nome di Natasha sul display, ed impallidì di colpo. Era come se la ragazza sapesse esattamente quando cercalo al momento più opportuno. Lasciò squillare a vuoto il proprio cellulare, più volte la rossa lo telefonò, mentre Bucky rimaneva inerme, a fissare un punto indistinto difronte a se e a pensare. Il sangue scendeva ancora, tanto, ma lui non cercava di consolarsi nemmeno coprendosi con il palmo, sulla ferita.
Quando Natasha smise di tentare a rintracciarlo, e il suo braccio sinistro diventò del tutto rosso come se fosse avvolto da una manica calda e umida, Bucky trasalì, e si rese conto di ciò che aveva fatto.
Prese il cellulare, chiamò l'amica, e le spiegò per telefono tutto ciò che era successo, con voce apparentemente calma e immune al dolore, lievemente frastornata dal rimorso e dalla sofferenza dei continui errori. Il morso al braccio non era ancora guarito, i tagli profondi sulla mano si mostravano rosei e sbalzati, mentre i diversi lividi gli coloravano ancora il gomito e il bicipite. Solo che tutto era sporco di sangue, e non si vedeva più.
Era sempre la solita storia, che si ripeteva in continuazione.
  Una squadra di infermieri lo accoglieva all'entrata del pronto soccorso; due o quattro, quando era più grave. Facevano sdraiare Bucky su di una barella, anche se diceva di poter camminare da solo, che ce la faceva a stare in piedi. Pulivano il sangue su tutto l'arto, gli infilavano qualche ago nelle vene per le analisi, e gli stringevano al polso un braccialetto di plastica con i propri dati personali.
James Barnes.
Condannato a morte, ma non ancora processato.
Era stato sottoposto ad un'antitetanica, avrebbe dovuto subire un intervento in anestesia locale per riparare le lesioni più profonde al muscolo, ma James si era rifiutato, e così gli infermieri del pronto soccorso si erano adoperati a medicarlo lì sul momento, su un lettino in uno spazio che ricreava una stanza dalle pareti fatte dalle tende per separare i pazienti.
Una vistosa benda gli avvolgeva la parte alta del braccio, fatto a brandelli; il centro della candida medicazione era rosso, mentre il resto della pelle più o meno pulita dal sangue ormai secco, e sfregiata dalle cicatrici, era tinta di un colore arancione e puzzava di quel disinfettante liquido e scuro. Natasha era entrata e uscita da quella piccola stanza almeno una ventina di volte, durante e dopo l'applicazione dei punti, per parlare con i medici della patologia di Bucky, per spiegare la sua storia clinica, e per comportarsi come quel familiare sempre pronto a gestire la situazione. Loki invece era rimasto con l'amico. Le due infermiere di mezza età che avevano controllato James avevano lasciato soli i due, così il ragazzo dai lunghi capelli neri si era alzato dal proprio sgabello vicino al letto di Bucky, per sporgersi meglio verso di lui.
Barnes era sdraiato supino con i capelli scompigliati lungo il cuscino bianco, coperto fino al petto con un lenzuolo leggero, e il braccio sinistro disteso lungo il materasso.
«Ti rendi conto di quello che stai facendo?» disse, rompendo il silenzio.
«Non ho bisogno che tu mi faccia la predica.» mormorò in risposta Bucky, voltando il capo da un lato.
«Porca puttana, davvero, non so più cosa fare con te.» imprecò Loki, passandosi una mano tra i capelli e agitandosi sul posto.
«Non voglio essere un peso per nessuno, ve l'ho già ripetuto altre volte, potete benissimo anche allontanarvi da me.»
«Credi davvero che ne saremo capaci? Stupido coglione, lasciarti da solo mentre ti sbrani quel fotutto braccio e aspetti di morire. Cristo Bucky, perché non ti lasci aiutare? Perché non possiamo accompagnarti da uno psicologo? Perché non puoi cercare di vivere?»
«Tutto sarebbe diverso senza.»
Loki fu sul punto di rispondergli, ma si limitò a mimare delle parole senza voce, nervoso ed esasperato, consapevole del fatto che qualsiasi cosa avrebbe potuto dire l'aveva già detta in passato, e che prendersela con Bucky non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. Sospirò sonoramente, avvicinandosi di nuovo al letto, vicinissimo, si sedette sullo sgabello e poggiò i gomiti sul letto, prendendo la mano destra di Bucky.
«Ti prego Jamy, ti prego smettila, non possiamo più vederti così.» sussurrò Loki, portandosi le mani alle labbra, tra cui era racchiusa quella di Bucky. Il moro lo guardò negli occhi celesti, un nodo alla gola quasi lo strozzò, e gli fece male continuare a guardarlo.
«Lo so, e vi chiedo perdono, ogni singolo giorno di questa vita, io spero di ottenere il vostro perdono.» rispose con un filo di voce, rauca e abbattuta dal dispiacere.
«Non c'è nulla da perdonare, tu non hai nessuna colpa, ma ti scongiuro, smettila, provaci almeno, noi non ti abbandoniamo, anzi. Lasciati aiutare, lasciacelo fare.» lo pregò Loki, increspando la fronte con tenerezza apprensiva. James si inumidì le labbra screpolate con la punta della lingua, alzando gli occhi verso l'alto per trattenere le lacrime.
«È difficile Loki, sul serio, lo è da morire.»
Quando il ragazzo si accorse che la resistenza di Bucky stava per crollare, si sporse verso il suo viso, stringendogli le guance tra le mani morbide e ossute, adornate con qualche anello in argento, e dalle unghia smaltate di nero. Gli avvicinò le labbra sottili alla fronte sudata e gelida, e poi gliela baciò con amorevole affetto, facendo sorride il moro sotto di lui.
«Lo so tesoro, lo so.» Loki gli si allontanò, continuando a tenere la su attenzione verso di se con le mani ancora sul viso; «Però tu sei forte, sei tanto forte. Come pensi di far colpo su quel bel partito di Steve se continui così?» scherzò con il suo solito fascino brillante, facendo appassire ancora di più Bucky.
Quel suo impulsivo attacco era stata parecchio più invasivo e grave delle sue solite crisi autolesioniste. Bucky aveva ricevuto una trasfusione di sangue per reintegrare i globuli persi e permettere di somministrare il medicinale per prevenire il tetano, visto che in totale aveva perso quasi due litri di sangue. Non sarebbe potuto tornare a lavoro prima di quattro giorni, senza contare la cura dei punti e delle infezioni. Una ferita tanto grave per uno come Bucky era più pericolosa in una fase di guarigione, che sul momento. Qualcuno avrebbe dovuto tenerlo sotto controllo notte e giorno per impedirgli di togliere i punti, o infettare la ferita, prolungando da se il proprio calvario. E Steve?
Da quando lui e Bucky erano stati a cena fuori, e Rogers aveva parlato al moro con la sua solita dolcezza di universi paralleli, di storie inventate su loro due, e aveva disegnato, James proprio non era riuscito a toglierselo dalla testa. Era una di quei pensieri esclusivi che a pensarci lo facevano sorridere piano.
Bucky non era innamorato di lui, il suo scopo non era portarselo a letto, oppure giocare a flirtare come dei ragazzini. Non aveva sicurezze nel suo disastro di vita, però aveva Steve, e adesso avrebbe dovuto spiegargli il motivo della sua assenza e del suo infortunio.
«Non voglio far colpo con nessuno, sai benissimo com'è andata a finire con Brock.» rispose Bucky, fissando severamente l'amico negli occhi.
«Oh ti prego, ancora quello stronzo?» si lamentò Loki, infuriato.
«Consoci la storia...»
«Quel bastardo, giuro che...»
«Cosa? Sta calmo, ormai non c'è più nulla che tu possa fare.»
Loki annuì in silenzio, con gli occhi assottigliati e l'espressione sospetta, preoccupato e allo stesso tempo pieno di rabbia. Il tema riguardante Brock, l'ex ragazzo di Bucky, era taboo, anche peggio della sua malattia. Il loro rapporto era stato malsano, marcio e violento, e né Loki né Natasha amavano particolarmente quell'uomo. Il ragazzo dai capelli lunghi lanciò un'occhiata minacciosa a Bucky, per poi essere distratto dalla presenza di Natasha che finalmente era ricucita ad andare nella stanza dall'amico.
Gli si precipitò incontro, preoccupata e stanca. Anche lei, in un gesto protettivo come aveva fatto poco prima Loki, strinse tra le mani il viso di Bucky e gli lasciò un bacio rumoroso su una guancia. Il moro chiuse gli occhi quasi fosse un bambino, e poi si lasciò squadrare da capo a piedi.
«Ti fa male?» domandò la ragazza, le labbra carnose ed il naso all'insù, pallida dallo spavento. Bucky scosse la testa in rispsota, ma lei parve star peggio.
«Avresti dovuto rispondere prima alle mie chiamate.» aggiunse, sedendosi ai piedi del letto.
«Non ho sentito il telefono squillare.» mentì.
Natasha si passò una mano tra i folti capelli rossi, lisci e lunghi fino alle spalle, con la riga al centro. Roteò gli occhi chiari e ritornò rivolgersi al moro;
«Clint sta sistemando la stanza degli ospiti, tra poche ore verrai dimesso, e i medici mi hanno raccomandato di tenerti sotto controllo.» spiegò Natasha.
«Non voglio disturbare te e Clint.» la voce di Bucky aveva un tono amaro e mortificato.
«Disturbarci? Sei sempre silenzioso, forse saremo noi a disturbare te.» la ragazza sorrise, accarezzandogli una gamba attraverso il lenzuolo.
In quei momenti di fuga dalla malattia, in cui alla fine Bucky veniva sempre sbattuto in ospedale da quest'ultima, quando le ferite venivano richiuse e il sangue smetteva di colare, i tre amici sempre riuniti intorno ad un lettino dimenticavano tutto e tornavano ad essere amici, complici di qualche sorriso stanco.
Però Bucky aveva un pensiero fisso, un macigno che gli opprimeva il petto.
«Natasha, potresti spiegare tu a Steve? Per il lavoro insomma.» le disse, intimorito.
«Sta tranquillo, non c'è alcun problema.»
«Grazie.»

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