Capitolo 12

Frida Kahlo era nata a Coyoacán il 6 luglio 1907. Pittrice, figlia di una fotografo tedesco, ebbe una vita travagliata. Le piaceva dire di essere nata nel 1910, poiché si sentiva profondamente figlia della rivoluzione messicana di quell'anno. Affetta da spina bifida, scambiata per poliomielite, fin dall'adolescenza aveva manifestato una personalità molto forte, combinata con un singolare talento artistico e uno spirito passionale, riluttante verso ogni convinzione sociale. Frida fu vittima di un terribile incidente all'età di diciotto anni, che le cambiò drasticamente la vita. Prigioniera del suo copro scuoiato dal dolore, l'unica finestra verso la libertà era stata l'arte. L'autobus su cui viaggiava finì schiacciato contro un muro, e le conseguenze dell'incidente furono gravissime per la pittrice; la colonna vertebrale le si spezzò in tre punti della regione lombare. Si frantumò il collo del femore e le costole; il piede destro rimase slogato e schiacciato, mentre la spalla sinistra restò lussata e l'osso pelvico spezzato in tre punti. Inoltre, il corrimano dell'autobus le entrò nel fianco e le uscì dalla vagina. Nel corso della sua vita subì ben trentadue operazioni chirurgiche.
Steve raccontò l'inizio di quella storia sotto il rumore elettrico della macchina per tatuare. Bucky rimase in silenzio, e lo ascoltò come fosse la melodia più soave del modo.
L'amore tormentato con Diego Rivera, i numerosi aborti, gli amanti, la sua bisessualità, gli idoli precolombiani, le mostre, i dipinti, Steve parlò di ogni cosa, quasi stesse raccontando la storia della sua vita stessa. E Bucky iniziò ad essere percorso dalla pelle d'oca, ad ogni singola parola, da un lato perché era proprio la voce di Steve a pronunciarla, dall'altro, per la scioccante storia di quella donna.
Furono tantissime le cose che lo colpirono, ma più di tutte, l'amputazione della gamba destra poco prima della morte di Kahlo. Steve gliela descrisse come un lunghissimo calvario di disperazione, rabbia e dolore.
«Frida ormai era dipendente dagli antidolorifici, non capitava mai che fosse in se'.» gli disse, rifinendo meglio il bordo del disegno sulla pelle del suo cliente.
«Fu un'enorme perdita per lei, che mai riuscì ad accettare, anche se la protesi che studiò per rimpiazzare la gamba la rese alquanto fiera.»
Le sue sopracciglia descritte come lunghe ali di gabbiano nere marchiarono l'immagine che James si era fatto di quel viso intravisto rare volte in qualche disegno, tutto contornato da fiori.
Steve si definiva un suo allievo, diceva di appartenere a lei come figlio, fratello e amante. Los fridos era il nome che gli alunni di Frida si erano dati, e Rogers mostrò a Bucky uno dei suoi centosette tatuaggi, posto sopra il gomito. Aveva tatuato in un corsivo sottile e fluente quelle due brevi parole, che spiccavano in mezzo alla cornice di colore degli altri disegni.
Bucky lo guardò con stupore, sicuro che tra tutti i tatuaggi che aveva visto fino a quel momento su di Steve quello fosse il più bello. Il ragazzo si sfilò i guanti neri di plastica, strappando un pezzetto di carta dal suo album da disegno poggiato su di uno sgabello. Con una sottile penna a china nera ricopiò quel carattere, consegnando nelle mani di James il ritaglio bianco su cui era stato scritto lo stesso richiamo di lettere sulla sua pelle.

Rogers gli sorrise, passando -con le mani disinfettate- una pomata sul grosso ed arrossato tatuaggio del ragazzo sdraiato sul lettino. In fine, dopo quella lunga sessione di colore nero, Steve terminò il suo riassunto della storia con una frase tratta dal diario di Frida.
«"Spero che la fine sia gioiosa e spero di non tornare mai più" furono le ultime parole che scrisse sul suo diario.»
Bucky sentì un pesantissimo nodo alla gola scendere poi al centro del petto. Increspò la fronte e riuscì per miracolo a regolare il respiro, tramortito dal significato che per lui avevano quelle parole. Fece passate tra le dita il sottile pezzetto di carta datogli da Steve, che dovette prestare attenzione al suo cliente, fortunatamente per Bucky, non accorgendosi così del sottile equilibrio emotivo suscitato in lui.

«Deve avere un grande significato quest'artista, per te.» Bucky gli si avvicinò, mentre Steve salutò il ragazzo eccitatissimo per il nuovo tatuaggio.
«L'ho conosciuta durante un viaggio in aereo, un suo autoritratto era sulla copertina di una rivista. L'ho notata immediatamente, come ho fatto con te. Tutti e due avete quella tendenza di colore unica che mi dà alla testa.» gli rispose con mezzo sorriso.
«Posso prendere un pezzo di lei anche io?» gli domandò il moro, timido e angoscioso.
«Naturalmente, Arte è ciò che tutti possono sentire.» Steve corrugò la fronte.
«È normale che in questo momento, però, riesco a sentire più te che lei?»
Rogers sorrise, allungando una mano appena su di una guancia ruvida di James. Rimasti nella solitudine di quella piccola stanza per tatuare, Steve si permise di accarezzargli il viso dolcemente.
«Direi proprio di sì. Io poi sono in carne ed ossa davanti a te.» gli rispose con tono di voce basso e sereno.
«È un invito a far qualcosa?» il moro si indispettì, da un lato tentato con sfrontatezza dal suo istinto, ma dall'altro imbarazzato e rallentato dal braccio sinistro teso e distante dal resto del corpo di Steve.
«Può darsi.» l'unica cosa che si limitò a risponde fu quella. Bucky si aspettò da un momento all'altro il viso di lui spinto contro il proprio, ma con sua indiscussa delusione, Steve si tenne sulle sue, e fece durare quella bellissima carezza giusto il tempo di un battito di ciglia.
Dirigendosi verso lo stretto corridoio che portava all'ingresso dello studio, Bucky si tenne due passi indietro alla corporatura massiccia di Steve.
Gamora, magrissima, ostentava verso la porta aspettando che Sam la seguisse. Si era tutta attorcigliata in uno sciarpone di lana prestatogli dal ragazzo di colore, che con il suo giubbotto di pelle indosso sistemava le ultime riviste in disordine sul bancone.
«Andate già via?» domandò Steve scherzosamente.
«Esatto capitano; sono le 18 passate, ricordi l'orario di chiusura di questa catapecchia, no? Riaccompagno la signorina a casa e faccio un salto da Peter per accordarci su alcune bozze per il tatuaggio di T'Challa.» Sam abbottonò la cerniera del giubbotto scuro, facendo rendere conto a Bucky della fioca luce per le strade della città. La sera era quasi del tutto giunta, il rosso del tramonto che si internava nei palazzi si stava via via dissolvendo.
«Allora andate, ci vediamo domani. Io e Bucky resteremo a disinfettare gli attrezzi. Salutatemi Quill!» Steve diede una pacca amichevole sulla spalla di Sam, che sorrise con in volto un cenno di provocazione.
«Mi raccomando voi due, non fatevi scappare qualche piercing ai capezzoli...» a quella frase Gamora gracchiò una risata difficilissima da trattenere, portandosi una mano sulle labbra. Il tempo che Steve potesse controbattere quella provocazione buffa, che i due amici sgattaiolarono via dal negozio salutandoli con un gesto della mano.
La campanella sopra la porta suonò, mentre il cartello contro il vetro venne voltato verso closed.
Bucky aprì e chiuse il pugno della mano sinistra, sentendola formicolare, sudando. Si sentiva tremendamente nervoso, anche se non era di certo la prima volta in cui lui e Steve si trovavano insieme da soli.
Si aspettò un secondo tentativo di avvicinamento pericolante alle sue labbra, vedendo Steve andargli incontro, ma con fortissimo batticuore, quello gli passò accanto, iniziando a contare il gruzzoletto di soldi incassato quella giornata.
Bucky sospirò, ritenendo che fosse l'ora di riprendere il suo vero lavoro che effettivamente lo teneva ancora lì. Si armò di guanti di plastica, pezze pulite e prodotti dall'odore pungente. Fu felice di aver trovato quel paio di guanti in lattice usa e getta, si sentì al sicuro nel poter nascondere con quel guscio sottile tutte le ferite sulla mano.

Con olio di gomito e attenzione minuziosa, passò la pezza inumidita di disinfettante tutta tra i tubetti di inchiostro colorato. Steve gli fece compagnia, con la scusa di catalogare i diversi piercing esposti in una teca, per ordine di grandezza, e non più di modalità.
Sentirlo alle proprie spalle, mentre i capelli lunghi gli andavano davanti agli occhi, fece sorridere Bucky. Gli piaceva la presenza di Steve, a dire il vero, tutto di lui gli piaceva, e aveva avuto abbastanza tempo per capirlo e ammetterlo a se stesso.
Rogers, dritto e falsamente immutato, stette di profilo con il capo basso a guardare i brillanti argentei tra le dita, ma non riuscendo a cedere alla tentazione di voltare lo sguardo verso James, di spalle.
Tutti e due sorrisero senza guardarsi, però capirono comunque di avere la stessa espressione.

«Sai qual è il mio dipinto preferito di Frida?» domandò improvvisamente Steve, posando il lungo ago incartato nella confezione medica. Bucky smise di pulire, voltandosi verso di lui, come se fosse stato attirato da un richiamo dolce.
«Quello della ragazza gettatasi da un palazzo?» quell'ipotesi da parte del moro fece sorridere il ragazzo tatuato, che gli si avvicinò con mascolina sensualità.
«No, anche se trovo Il suicidio di Dorothy Hale una delle sue opere più macabre e crude, quello che amo di più è Ricordo di una ferita aperta.» rispose, abbassando lo sguardo. Parve illuminarsi ad un pensiero improvviso. Steve accelerò il passo e invitò Bucky a seguirlo nel suo studio, il piccolo stanzino da lavoro. Il tatuatore alzò lo sguardo ed indicò al ragazzo una tela incorniciata, grande al massimo 77 cm x 55;
James socchiuse le labbra e restò immobile a fissare la copia identica di un piccolo fotogramma in bianco e nero appeso accanto al quadro.
Il soggetto, che era proprio Frida Kahlo, stava seduta su una sedia, a gambe larghe, in maniera quasi sfrontata e perversa. Sollevava la balza bianca della sua gonna per mostrare due ferite, la prima al piede bendato e poggiato su uno sgabello, e la seconda, un lungo taglio sulla parte interna di una coscia. La ferita aperta gocciolava sangue sulla sottoveste bianca, e accanto ad esso una pianta ricca di foglie. Frida guardava Bucky dritto negli occhi, con brutale impudenza. Lui non seppe più quale occhi guardare, se quelli grandi e vividi della copia dell'immagine, o quelli piccoli e scuri dell'originale.
I colori che riempivano quella tela risultavano lirici e brillanti, simili alla tradizione messicana: rosso, rosa, arancione e nero.

«Quello originale andò perso durante un incidendo, è rimasta solo una fotografia. È il mio preferito proprio perché è andato via, è morto. Sappiamo che c'è stato, ma adesso possiamo solo immaginarci i colori. Ho cercato di riportarlo con i colori descritti dai critici d'arte, anche se mai nessuno sarà capace di rendere una copia all'altezza della vera arte. Vedi la mano sotto la gonna? Frida disse schiettamente ad un suo amico che la ritraeva nell'atto di masturbarsi.» Steve spiegò ancora i particolari di quell'artista, indicando però la piccola fotografia, invece che il più chiaro dipinto sgargiante.
James si sentì sommerso da emozioni tutte paragonabili alle corone di fiori di Frida. Vivi ed enfatici.
Rimandò alla vita di quella pittrice tutti i suoi martiri, e fu quasi felice di poter paragonare i loro dolori simili, senza però dirlo ad alta voce. In poco più di due ore Steve era riuscito a fargli da insegnate, e a urlargli contro quasi tutta l'importanza pensosa che aveva riguardo Frida.
Bucky si sentì come la diciottenne tra le lamiere dell'auto, nuda e coperta di sangue, con il dolore che le mangiava la carne, e la morte che le danzava intorno. Solo che il suo personale scenario apocalittico non aveva masi smesso di durare, perché nessuno era mai corso a soccorrerlo.
Però forse era arrivato Steve.
Steve era come Diego Rivera, e Bucky l'ossessiva e innamorata Frida.

«Mi lasci senza parole.» mormorò, voltandosi piano a guardare Steve. Lui gli sorrise, ma un'ipotetica risposta venne ammutolita sul nascere da un forte tuono proveniente da fuori. Entrambi si voltarono, dirigendosi all'entrata dello studio, dove dalla vetrata principale, oscurata dal buio, un acquazzone si scatenava per le strade.
L'espressione di Steve parve quella di una bambino emozionato, il suo sorriso diventò euforico e buffo, mentre alzava le spalle. James lo guardò divertito, con timidezza strinse la mano sinistra in tasca, ormai priva dei guanti.
«Merda, guarda un po' che diluvio!» esclamò il tatuatore, guardando ancora fuori.
«Una gran scocciatura, tornare a casa a piedi.» commentò James con meno entusiasmo.
«Cosa?! È un fottuto divertimento!»
«Per te forse, che sei in auto.» Bucky quasi si sentì a disagio a dover ammettere con sottinteso imbarazzo che lui la macchina non poteva permettersela, e che non l'aveva.
«Auto? Quale auto? Non ho nemmeno l'ombrello!» suonò in una risata divertita, che contagiò anche Barnes.
«E quindi, come si fa?» domandò il moro aggrottando le sopracciglia.
«Si scappa in mezzo all'acqua.»

I piedi che picchiavano contro le pozzanghere si unirono al fruscio veloce della pioggia, che a goccioloni quasi allagava le strade. Poco più che le otto di sera, e già si era fatto buio pesto, la temperatura abbassata improvvisamente, in un vortice autunnale. Solo alcune macchine veloci illuminavano e animavano le vie, tutto il resto della gente aveva già chiuso i propri negozi, addormentando i quartieri di periferia.
E poi, a correre da un marciapiede all'altro, c'erano Steve e Bucky.
Il tatuatore sgambettava molto più velocemente, avanti a James, che con il fiato pesante riuscì però a tenergli il passo. L'acqua gli aveva ormai inzuppato tutti i vestiti, i capelli appiccicati alle tempie e alla fronte, più scuri, completamente bagnati.
Le ciglia umide fingevano lacrime impersonate dalla pioggia, che scese giù dal viso, fino al collo, e poi sotto i tatuaggi di Steve.
Risero, talmente tanto che Bucky resistette a fatica nel ridere e correre allo stesso tempo. Come due ragazzini spensierati, ingenui e folli, si pulirono da ogni pensiero con l'acqua piovana che nemmeno freddo gli fece sentire.
Si fermarono davanti ad un semaforo rosso, stanchi ma in trepidazione sul posto. Si guardarono negli occhi, l'espressione storpiata dalla fatica e dall'acqua sul viso, ma l'entusiasmo sulle labbra alte ben visibile.
«E adesso? Che idea hai?» domandò James ad alta voce, per colpa del rumore insistente della pioggia, e di qualche tuono lontano.
«Se voltiamo l'angolo a questo isolato» disse Steve indicando una strada con l'indice «possiamo ripararci a casa mia. Peter mi ha lasciato gli avanzi italiani della serata a tema che ha fatto al locale, riscaldiamo un arancino e guardiamo un film.»
«Che film?» chiese Bucky divertito.
«Puoi scegliere tra Frida oppure una maratona di Stranger Things!»
Bucky scoppiò in una risata enfatica, annuendo con le mani raccolte in una conca, per riscaldarsi.

Inizialmente il moro mantenne tutto l'entusiasmo che quella corsa spensierata gli aveva messo addosso, ma quando si rese conto di essere propio davanti la porta dell'appartamento di Steve, iniziò a pentirsi, e a palpitare di imbarazzo. Avrebbe tanto voluto riuscire a star calmo, a non pensare esclusivamente ai più disperati modi per nascondere la propria mano sinistra, e a star lontano da Steve per non farsi toccare, però rimase codardo. Non ebbe coraggio di essere Bucky Barnes.
Salirono le scale strette, velocemente, che portarono al terzo piano, in cui la casa di Steve si distingueva dalla porta in legno su cui era attaccato, al posto di un cartellino con il proprio cognome, un disegno geometrico di decine di triangoli e circonferenze tutte incastonate.
Con le mani bagnate fece un po' fatica ad infilare la chiave nella serratura lucida, che tentennò allo scatto della maniglia aperta.
James si tenne indietro, anche dopo che Steve entrò spedito all'interno della caloria accogliente dell'appartamento. Asciugò i piedi sullo zerbino, e poi si decise ad entrare.
Bucky si strinse le spalle, rigido ed infreddolito, con i capelli bagnati che scivolavano sul capo, e le labbra quasi viola per il freddo degli abiti zuppi in dosso.
I suoi occhi vagarono velocemente per l'entrata della casa, che era il salotto; le pareti bianchissime presentavano dei graffiti e altri disegni a tempera tutti realizzati esclusivamente da Steve; cornici di fotografie e dipinti bilanciavano perfettamente il resto dell'arredamento.
I particolari che più saltarono all'occhio di Bucky furono i disegni sui muri, libri e colori sparsi su ogni mobile e mensola, e due gabbie poggiate contro il muro.
Una era enorme, alta quasi un metro, dalle sbarre nere e sottili, ricca di corde colorate, ciotole con frutta fresca e rami. La seconda, delle dimensioni di una gabbietta per criteri, stava poggiata sul tetto di quella più grande, bianca e gialla, molto più arieggiata.
James si avvicinò con curiosa lentezza, attratto dall'animale che stava riposando cautamente all'interno della grande voliera. Si chinò in avanti, e vide un pappagallo completamente nero, con delle macchie tendenti al dorato, grosso quanto un cagnolino di piccola taglia. L'uccello parve sparigliare, spalancano il becco, ad occhi chiusi. La cresta scura si alzò lievemente sul suo capo, e Bucky vide come quelle sfumature più chiare brillassero sotto la luce delle lampade nella stanza.

«Lui è Spiritum. Ti ho già parlato di lui, la piuma che ti ho regalato è caduta dalla sua coda.» Bucky si voltò con uno scatto veloce alle sue spalle, dove Steve si era fermato. In testa aveva un'asciugamano bianca e morbida, che si passava nei capelli, mentre in mano ne teneva un'altra ancora piegata, da passare a Bucky. Lui si inumidì le labbra con la punta della lingua, sorridendo con imbarazzo.
«Non lo immaginavo per nulla in questo modo.» commentò, abbassando lo sguardo.
«Ha quasi sette anni ed è ancora nel fiore della sua giovinezza. Quando è particolarmente felice chiacchiera un po' e dice un sacco di parolacce che gli ha insegnato Sam.» Steve rise, infilando le dita tra tre sbarre della gabbia. Spiritum allungò il collo verso di lui e gli pizzicò leggermente i polpastrelli.
«E quello?» James alzò lo sguardo ad indicare la gabbia più piccola, riempita da una specie di cuccetta di lana rosa appesa, su cui un piccolo animaletto era appollaiato.
Steve prese la gabbia, che tra le sue mani parve ancora più piccola. La aprì strinse tra le mani un altro, piccolissimo pappagallo. Aveva il manto grigiastro e metà del viso bianco. La coda corta e arruffata, le ali della stessa lunghezza, e poi James notò la strana posizione in cui l'animaletto si reggeva.
«Ha le zampe storte.» constatò con dubbio. Il pappagallo rimase sul palmo della mano di Steve poggiato con la pancia e il petto, tenendo le zampette completamente aperte ai lati del corpo, in maniera quasi buffa.
«Ha una displasia alle anche, da quando è nato. Me lo hanno regalato da piccolo, altrimenti i fratelli lo avrebbero ammazzato.» spiegò accarezzando il capino dell'uccello, che cinguettò.
«E come si chiama?» Bucky sorrise dolcemente, divertito e intenerito da quella storia.
«Sterzo, come quello della motocicletta.»
Il moro scoppiò a ridere; «Sei davvero uno stronzo.» disse scherzosamente.
«Lo apprezziamo per ciò che è.» Steve rise, allungando una mano. Cercò di porgere Sterzo a James, che non si rese disponibile all'inizio.
«Prendilo, non morde.» Rogers cambiò il proprio tono di voce, sensibile e tenero, in una maniera tale che Bucky non seppe paragonare a nulla di più bello che avesse mai ascoltato.
La mano sinistra ritornò nella tasca fradicia, gelida e tremolante, stretta in un pungo. Così allungò il braccio destro, e con il palmo aperto e rivolto verso l'alto, lasciò che Steve poggiasse il piccolo pappagallo caldo e morbido tra le sue dita.
Entrambi si sedettero sul morbido divano color sabbia, uno accanto all'altro. Bucky continuò a tenere Sterzo in mano, prestando attenzione a non farlo cadere, e questo, docile e tranquillo, non svolazzò e continuò a mordicchiare piano le dita del ragazzo, solleticandole con la lingua.
Fu talmente incantato da quel piccolo animale storpio, da non curarsi più del proprio nervosismo, o del fatto che stava tremando di freddo, ancora tutto bagnato.
Steve sorrise intenerito da quella scena, poggiandosi l'asciugamano sulle spalle, e riprendendo il proprio pappagallo.
«Credo che per il momento possa tornare nella sua gabbia mentre tu ti dai una ripulita. Fradicio per come sei rischi di prendere l'influenza.» Rogers pose con delicatezza Sterzo all'esterno della propria gabbietta, e passò a James l'asciugamano che profumava ancora di ammorbidente.
Il moro la prese e la usò per nascondere e riscaldare le proprie mani;«Hai ragione, sto congelando.» rispose con un sorriso.
Steve increspò le sopracciglia e gli spinse i capelli bagnati dietro alle orecchie, usando la propria asciugamano per tamponare la sua, di testa.
Bucky rise, contento per quella vicinanza che pochi instanti prima aveva inutilmente temuto. Si riscaldò le mani, ancora, e poi guardò negli occhi di Steve. Accanto a lui, il tatuatore aveva poggiato dei vestiti ben piegati.
James li guardò, e subito prese a farsi inghiottire dall'ansia.
«Indossa qualcosa di asciutto, se vuoi per stanotte puoi restare da me.» gli propose gentilmente, senza malizia o sfrontatezza.
Bucky impallidì, terrorizzato dal semplice fatto di doversi spogliare in quella casa, rischiando di essere visto da Steve.
«N-no, davvero, ti ringrazio.» balbettò in risposta.
«Fuori il tempo è un inferno, probabilmente pioverà per tutta la notte. Ho una camera per gli ospiti più che accogliente, per favore, rimani.» Steve tentò di prendergli le mani, ma con un movimento brusco e terrorizzato, Bucky le ritrasse.
«Perdonami, ti prego, ma non posso...io non posso.»
«Ti ho suggestionato troppo? Merda, sapevo di essere un disastro.» Steve sospirò, pensando ad alta voce, con una mano sul capo bagnato.
«No, non è per colpa tua. Tu sei perfetto, sono io che...sono io quello che rovina sempre tutto.» gli occhi di James si fecero lucidi, si allontanò da Steve, indietreggiando sul posto.
«Cosa? Che stai dicendo?» Rogers simulò un sorriso severo, stranito.
Bucky fu convinto di star già piangendo, anche se dai suoi occhi traspariva soltanto l'enorme angoscia e vulnerabilità che in quel momento lo afferrarono. Si portò la mano destra sulle labbra, ne morse piano il dito per la frustrazione, e sentì pulsare le orecchie.
Era quello il momento, non aveva via d'uscita, ogni parte di se lo obbligava a parlarne con Steve.
«C'è una cosa che devi sapere, su di me.» mormorò, deglutendo.
«È grave?» Steve si allarmò quasi quanto Bucky, lui lo capì, vide quanto fosse terrorizzato.
«Direi di sì.»
Rogers gesticolò con insicurezza, tentando di accarezzare le spalle di Bucky, ma tenendosi ben lontano per non metterlo in ulteriore difficoltà.
«Voglio che tu sappia, che a me puoi dire qualsiasi cosa.» si limitò a sussurrare quel ripetere di timori.
Bucky trasse un profondo respiro. Chiuse gli occhi ma li riaprì quasi subito, era la prima volta in vita sua che prendeva l'iniziativa di parlarne, raccontare della propria malattia.
Natasha e Loki lo sapevano già, a scuola tutti parlavano dello strano tipo gay che si maciullava il braccio, con il tempo erano stati loro a spronarlo nel confessarsi, e a capire davvero la gravità della situazione, dopo anni.
Con Steve invece erano passate poco più che un cumulo di settimane, senza che un segnale significativo lo turbasse, eppure Bucky doveva dirglielo.

«Sono affetto da una patologia.. Si chiama Body Integrity Identity Disorder, quasi nessuno la conosce, è difficile da spiegare...» la sua voce fu un una lama brillante che squarciò l'attenzione.
«In cosa consiste, cioè, si può curare, oppure peggiorerà...?» Steve si mangiò le sue stesse parole, nervoso.
«No, non posso curarla, è una condizione perlopiù psicologia. Non significa che io sia pazzo, è qualcosa di involontario, una vera e propria malattia. Non so proprio da dove cominciare.» Bucky abbandonò tutta la forza che lo teneva lucido, sul punto di cadere in quel profondo crepaccio dove il suo braccio vinceva sempre.
«Prova a spiegare, cercherò di capire in qualsiasi modo.»
Il viso colpito da un pugno di angoscia, gli occhi rossi e i capelli tutti bagnati che gli appesantivano l'immagine;
«Tu ci credi, al Diavolo? Perché io sono stato toccato da lui.»

Bucky si sfilò piano la felpa pesante, che a strizzarla avrebbe gocciolato acqua sul pavimento. Il corpo lucido e contratto dal freddo furono l'anestetico alla paura di Steve.
Bello, possente, giovane e mascolino, il busto nudo di James si prosperava senza troppo timore dinanzi a Rogers, che per un istante non si accorse dell'omicidio rude e scioccante nell'arto sinistro di quella pelle.
Il braccio, dalla spalla alle dita, mostrava quasi una tonalità completamente diversa dal resto del corpo. Profondissime cicatrici rosee sfiguravano i muscoli, lividi e segni differenti di oggetti creavano macchie sanguinolente di capillari infranti, e tessuto cicatrizzale continuamente disturbato.
Nessuno sarebbe stato capace di descrivere quella mattanza, nemmeno l'artista che era Steve, capace di riprodurre dipinti morti.
Steve fece silenzio, e Bucky iniziò ad andare nel panico.
Era in assoluto la prima volta che si mostrava così a nudo davanti a qualcuno, nemmeno con Brock era stato così diretto. Quando facevano sesso, Bucky nascondeva sempre quel braccio sotto alle lenzuola.
Anche se in quel momento desiderò ardentemente di rimanere morto in quell'incidente, non trovò il coraggio di mentire a se stesso riguardo al pentimento di ciò che aveva fatto.
A Steve doveva dirlo, doveva farlo vedere, doveva e basta.

«Adesso penserai che questa sia la solita storia del ragazzo malato con il mondo che gli crolla addosso. Disgustoso, spaventoso, patetico.» Bucky si coprì il braccio con l'asciugamano, autocommiserandosi con aggressività.
«Oh no.» Steve non fu in pena, non finse che tutto andasse bene; «Io penso che la tua storia sia molto più ampia, la tua malattia è soltanto un colpo di scena. Aspetta, forse non riesco a spiegarmi bene; tutti sono malati, nessuno è clinicamente sano nel corso della propria vita, ma ancor di più, tutti siamo malati nell'anima. Sto dicendo una marea di stronzate, ma il dolore fisico e mentale vanno all'unisono. Tu per me non sei "il ragazzo malato", cazzo, tu sei Bucky. La tua malattia viene dopo, come il tuo orientamento sessuale o qualsiasi altra cosa. Tu sei Bucky, la bellissima persona che porta i capelli dietro le orecchie e che quelle rare volte che sorride strizza gli occhi e gli si disegnano sotto dei raggi di sole. E per la cronaca -so che è così- se pensavi che non ci avrei più provato con te per questa sorpresa, ti sbagli di grosso.» Steve sorrise, come se non fosse successo nulla.
Bucky smise di respirare, l'asciugamano gli cadde di dosso, ma lui la lasciò sulle gambe.

«A questo punto, dato che dici che tutti sono malati, lo sei anche tu.» James si angosciò, ancora di più.
«Si.» rispose Steve.
«E di cosa? Di cosa soffri?» replicò Bucky con insistenza bisognosa.
«La mia malattia sei tu, ma non fraintendermi, è una cosa fantastica. Ci sei sempre, sotto la mia pelle, non te ne vai mai, non c'è cura. Mi causi problemi al cuore, allo stomaco, alla tetsa, ai polmoni, persino al movimento. In poche parole, tu sei quell'insopportabile sintomo che domina il mio corpo. Per me, però, non è una sofferenza, anzi, sei la malattia che mi fa guarire.»

Bucky non ricordò molto gli istanti che precedettero quelle parole. Ebbe in testa l'immagine di tre lacrime sulle sue guance, di cui una fatta d'inchiostro. L'iniziativa del suo corpo di avvicinarsi, le sue mani che strinsero delle braccia forti, senza il timore di toccarle con la parte malata di se'.
Non ci furono altre parole, solo bocche, incastonate, saldate e bagnate.
Lingue che si toccarono con innocenza spedita, e occhi al buio che non videro altra cosa se non amore.
Steve quando accolse il bacio di Bucky non imitò la sua posizione, non gli toccò il braccio sinistro, perché sapeva che non era il momento.
Gli toccò la vita nuda che si contrasse scaturendo un formicolio bellissimo.

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