"Tu cosa ne pensi?"
La stanza era immersa nella penombra, quel lunedì di novembre. Solo timidi raggi di luce fluivano sottili e sicuri tra una fessura e l'altra delle tapparelle: le piastrelle di marmo, d'un colore tenue tendente al marrone sfumato, accoglievano quelle frange di luce con naturalezza, lasciandole adagiare su di sé nella maniera più silenziosa possibile.
Nella stanza non si udiva nulla se non il fruscio di qualche pagina spiegazzata, ogni tanto, ed il ticchettio nervoso della tastiera del tablet, che segnava la sorte imminente di tutte le persone che si trovavano lì.
Nessuno osava fissare quegli occhi, che eran d'un colore che univa il grigio all'azzurro dell'acqua marina nelle spiagge di sabbia quando c'è il sole, stretti come non volessero lasciar intravedere alcuna emozione, esausti, carichi di chissà quali pensieri, imperscrutabili. Quegli occhi da cui tutti erano terrorizzati venivano coperti dai suoi capelli color del rame antico, sparsi apparentemente a caso, sciolti: parevano tantissimi e non eran neppure troppi né troppo lunghi. Il sole non osava illuminarli, in quella mattina di quel lunedì di novembre. La bocca invece sembrava masticare silenziosamente una gomma, senza sosta, come stesse meditando qualcosa: infatti era così.
In diciotto saremmo dovuti esser, ma non c'eravamo mai tutti: tutti saltavano almeno uno di quei giorni, a parte me, che in due anni non ho perso neppure una di quelle ore. In ogni caso eravamo schierati innanzi a quella figura, che si stringeva nelle spalle e parlava piano, anche se la mattina inizialmente non diceva nulla, se non raramente. Per i primi quindici o venti minuti taceva sempre, non c'era alcuna distrazione: sempre dietro i libri, dietro lo schermo, dietro i capelli, dietro le lenti dei suoi sottilissimi occhiali da vista. A volte sbuffava e guardava lo schermo, implorando quest'ultimo con voce malinconica: "Dai, sii buono! Ti prego...". Con queste stesse parole, ogni volta.
E noi lì, zitti, immobili. Il respiro era un optional. Non respiravamo ma tremavamo e basta. Nell'aula vicina si sentiva quella solita voce meridionale interrotta da un vociare di molti ragazzi: "Allora, ragazzi, coseno di x per seno di x...".
Si parlava delle stesse cose ma pareva davvero un altro mondo. Là, a qualche passo da noi, i ragazzi parlavano, ridevano anche durante la spiegazione. Veniva richiamato il silenzio quando da noi sarebbe dovuta esser richiamata la confusione: almeno un tenue brusio sarebbe bastato a renderci più vivi. E noi ci guardavamo terrorizzati, tenendo in una mano sola due libri, senza sapere cosa sarebbe stato di noi di lì a poco. E non sempre avevamo il coraggio di guardarci. Vivevamo nel silenzio, con quei due libri in mano, senza sapere quale aprire, senza sapere se il nostro nome sarebbe stato chiamato oppure no e senza sapere come saremmo stati interrogati, quali sarebbero state le domande e come queste sarebbero state poste.
Nessuno se non noi conosceva quelle ore nella loro essenza.
C'erano diversi modi di affrontare la situazione: c'era chi stava fermo, con sguardo rassegnato, annodandosi le dita intorno alla manica della felpa come fosse un rosario, e non aprendo nessun libro, sapendo di essere pronto a tutto come un samurai; chi, avendo il cuore a mille, iniziava a fare gesti improbabili verso la prima fila, simulando un attacco cardiaco perché, esonerato dall'ora di religione, non poteva appellarsi ad alcuna divinità; chi stava assente, strategia decisamente comoda, o entrava due ore dopo, strategia sfacciatamente disonesta; chi aveva finito la possibilità sia di entrare due ore dopo sia di giustificarsi in entrambe le materie, sapeva di non essere preparato su nulla, con l'aria tipica di rassegnazione di chi si sente una vittima sacrificale del destino; chi nascondeva il viso nella borsa quasi piangendo, continuando nevroticamente a ripetere: "no no no, non me, non me, non oggi, non me"; chi non aveva compreso che si trovava in una situazione di estremo pericolo e si guardava le scarpe come fossero la Nike di Samotracia; chi si lanciava in una serie di imprecazioni dicendo che il mondo sarebbe potuto finire, se fosse stata chiamato; chi, infine, come me, adorava quelle interrogazioni perché finalmente riusciva a capire qualcosa di quelle discipline ma allo stesso tempo sapeva che avrebbe fatto una figuraccia perché dopo mesi di studio sapeva che si sarebbe fatta prendere dall'angoscia di non sapere, ed era l'unica a fissare quegli occhi, voltando le pagine dei due libri senza leggerli, quasi in ipnosi, scandendo con le labbra: "non oggi, ti prego, non oggi.".
Ma quegli occhi non guardavano avanti.
E poi quelle mani hanno preso quell'agenda rossa. E lì sono iniziati i guai seri. Tutti sapevamo che in quell'agenda rossa da cui straripavano fogli di ogni tipo c'erano i nostri nomi, con numeri e annotazioni di ogni tipo, scritti ai lati o negli angoletti più remoti della pagina.
I nostri calcoli erano ben fondati. Le sue mani spostavano lentamente i libri sulla cattedra, ne prendevano uno, lo sfogliavano e lo chiudevano per aprirne subito un altro. Quella danza era lugubre e infinita.
"Allora, interroghiamo...".
Queste parole, pur dette piano e con estrema dolcezza, risuonavano forti e intensissime nell'aria tesa. Chissà perché la prima persona plurale, poi... Me lo chiedevo sempre. Stavo attenta ad ogni movimento degli occhi, coglievo lo stato d'animo dal modo in cui scostava i capelli dal viso e, soprattutto, dal maglione che metteva.
Eravamo in completa apnea. Poi aprì l'agenda. Per arrivare sulla pagina con i nostri nomi stava circa un minuto e mezzo. Ormai avevamo esaurite le preghiere, tutte quelle possibili, e iniziavamo il momento di follia assoluta in cui aprivamo pagine a caso di libri a caso, pur di non stare fermi e ascoltare il nostro cuore impazzito.
Ed ecco, con le stesse parole di sempre, mai che cambiassero nell'ordine sintattico: "Ci sono persone che si giustificano?", con una lieve aspirazione nella lettera enne, che poteva tranquillamente esser confusa con una acca, e con la esse che, come era suo solito, era identica ad una effe, e la lettera c pareva non esserci. "Ah sì, quindi fis..." e tutti appoggiavamo il libro di matematica, "matematica..." e tutti a riprendere quello di matematica, "ma forse..." e riprendevamo entrambi i libri, "ma sì, matematica." ed esausti, appoggiavamo quello di fisica.
Tutti iniziavamo a guardarci intorno. Era un rituale magico, inquietante, folle, che racchiudeva il timore di sentir risuonare il proprio nome nell'aria. Poteva chiederci qualunque cosa, di tutti gli argomenti dell'anno, collegandosi anche all'altra materia: quella era la fregatura. O ad altre materie, persino a greco.
Così iniziava a chiamarci in ordine alfabetico. Conviene, a chi è fra i primi dell'elenco, giustificarsi, perché non si sa ma cosa diranno gli altri che seguono nell'elenco. Il problema è che ci sono due sole giustificazioni a quadrimestre per materia, se va bene, altrimenti una o nessuna.
Questo era un metodo davvero infallibile, come abile tecnica di diffusione del terrore. Cognome, nome e "ti giustifichi?", dal primo all'ultimo, senza cambiare mai modo di chiederlo. E si susseguivano i sì e i rari no, tra cui il mio, fortunatissima: essendo la terzultima dell'elenco avevo in mano la situazione dell'intera classe.
Che non pensiate che io fossi particolarmente intelligente: un giorno tutti quelli prima di me dissero di sì ed io stessa sulle dita li avevo contati ma ho detto di no lo stesso, i due dopo di me han detto di no ma eran gli unici già interrogati da tempo e così venni interrogata da sola -anche se, devo ammetterlo, forse fu una delle interrogazioni non solo più umilianti per me ma anche più istruttive di tutta la mia vita-.
Così non c'era via di scampo.
Il bello era che nella scelta apparentemente non c'era un criterio e doveva apparire così, perché lei non doveva affatto apparire comprensibile. Una stessa persona poteva esser chiamata quattro volte di seguito in due settimane: credetemi, è successo.
Il suo era un metodo a vecchio stampo, ovvero il dito che scorre sull'elenco. Su e giù, poi fermo al centro, poi su di nuovo e di botto giù.
E poi la formula ordinaria: "sì", nome, cognome e "vuoi venire tu?". Sempre così. Che domanda assurda, poi.
C'erano diversi modi per alzarsi ed andare alla lavagna: chi si alzava di scatto e sussurrava parolacce contro di sé; chi sbuffava come lo sapesse dall'inizio dell'ora; chi, come me, prendeva un bel respiro, immobilizzandosi sul momento, diceva "sì", socchiudeva gli occhi e si alzava, piano, scostando la sedia per non rompere quell'atmosfera. Insomma, così amava descrivermi la mia vicina di banco, che si divertiva alquanto.
Gli interrogati si spiaccicavano uno dopo l'altro contro il termosifone, in ordine di chiamata. Potevano venir chiamati in due come in cinque o sette: a noi non era concesso saperlo. Finché il suo dito non si sollevava dall'agenda, noi non potevamo respirare, non ci riuscivamo proprio. Era un'atmosfera folle, anche se a me non dispiaceva: io riuscivo sempre a capire quando mi avrebbe interrogata, esclusa una volta, in cui sarei scoppiata a piangere quando ho sentito il mio nome accanto a quel "vuoi venire tu?": l'unica volta che nella teoria ho fatto praticamente scena muta ed ho fatto bene la parte pratica, aggrappandomi con le unghie ad uno stentato sei.
Poi chiudeva l'agenda, e più di una decina di sospiri si levavano nell'aria ormai priva di tensione. In realtà, come diceva sempre lei stessa, c'era una linea che separava chi era al posto e chi era alla lavagna, una linea oltre la quale incomprensibilmente non si riusciva a capire nulla ed era per questo che a volte ci incoraggiava a fare qualche passo indietro.
Incredibilmente, con quei passi si capiva non dico tutto ma qualcosa sì.
Poi si voltava verso gli interrogati, dopo aver chiuso l'agenda dicendo: "bon", per far capire che aveva finito di chiamare. Faceva parte del rituale anche quello in fin dei conti. Amenamente friulana.
Si voltava lentamente, scostava i capelli e guardava in alto. Poi prendeva il libro della materia prescelta. "Vediamo... Una scemenza come sempre, chissà cosa vi chiederò...mah proprio non so..." e noi lì, immobili. Nessuno osava parlare, tutti erano concentrati sulla sua interrogazione. Avrebbe potuto chiedere qualsiasi argomento trattato dall'inizio dell'anno e anche alcuni non trattati ma a cui si poteva arrivare con il ragionamento. Cose che nelle altre classi non sarebbe mai avvenuto.
"Anna, senti...". Con qualunque nome posticipato da "senti", sempre così. "Sapresti dirmi qualcosa sulla prima equazione fondamentale della trigonometria?". Sceglieva lei da chi partire, non si sapeva mai con quale criterio.
E gli altri zitti, pensavano, riflettevano. Qualunque cosa dicesse l'altro, dovevano rifletterci, perché la domanda successiva sarebbe potuta vertere su qualunque sfumatura, tutti dovevamo sapere dove quello interrogato sbagliasse: tutta la classe, nessuno escluso, a nessuno era permessa la minima distrazione. Quel che più era vietato era la risata per l'errore di qualcuno: diventava d'un tratto freddissima e intrattabile, e si riusciva ad accorgere anche delle risate nascoste da noi dietro le mani gelate.
Quel che voleva sapere però non era solo la dimostrazione come in tutte le classi è richiesto. Voleva sapere il perché, il senso di ogni cosa, diceva che per quello è bello insegnare al classico: si possono chiedere cose che nelle altre scuole non saprebbero, si può andare a fondo negli argomenti perché ci sono allievi capaci di farlo, si può capire il perché senza svolgere soltanto meccanicamente il procedimento come, diceva lei, ad esempio fanno in America.
Nessuno poteva permettersi di non stare attento, se non si prendeva appunti secondo lei automaticamente si aveva capito tutto e l'interrogazione futura sarebbe stata per questi non scriventi un massacro. Se l'interrogato non sapeva rispondere, lei chiedeva: "Anna, tu cosa ne pensi?". Sempre così: nome seguito da "tu cosa ne pensi?". Quel "tu cosa ne pensi?" era pericolosissimo: da un altro errore l'interrogazione avrebbe potuto cambiare totalmente rotta. Tutti temevano quel "tu cosa ne pensi?".
E se quell'altra persona non sapeva rispondere, allora esordiva con: "Classe?". Se nessuno parlava, era la fine. Tanto valeva provare a ipotizzare qualcosa: apprezzava molto e capitava che in alcune occasioni mettesse dei +. Ma era raro, poteva succedere semmai a giugno.
E non si poteva non parlare, perché in quel caso iniziava a parlare lei. Faceva di quei discorsi da raggelare il sangue che non facevano una piega: il clima di collaborazione era pessimo, disinteresse spudorato della maggior parte delle persone verso le discipline in questione, dialogo educativo inesistente così come quello tra di noi.
L'interrogazione non si evolveva mai allo stesso modo: dipendeva dagli errori commessi, da chi era interrogato, dal suo umore anche. Ho visto interrogazioni divertentissime dove un'equazione trigonometrica non risolta veniva chiamata addirittura "quella roba ibrida" e interrogazioni raggelanti, dove il sorriso non appariva neppure nella forma più forzata.
La cosa incredibile è che studiare come in tutte le classi non bastava: bisognava dialogare con quelle equazioni, bisognava tracciare i rami delle iperboli con consapevolezza piena e capacità di orientamento e parlare di James Joule e di Lazáre Carnot come fossero i migliori amici, come li si avesse conosciuti di persona.
Non importava quanto si fosse sicuri nell'esporre ma più di tutto lo era l'aver compreso studiando davvero con impegno, senza superficialità, andando a fondo e con curiosità, l'ingrediente principale che, secondo lei, non poteva mancare.
Quando si aveva finito, paradossalmente non si poteva mai esser sicuri che fosse tutto finito. Lei si alzava e mentre ti interrogava, ovviamente dieci minuti dopo il suono della campanella, riponeva i libri uno sopra l'altro con il tablet e li abbracciava, per portarli via con sé -secondo me era un fattore di fascino e carisma, che andava in voga nel corpo docente, quello di portare i libri così: si aveva l'aria maggiormente autoritaria- e mentre usciva dalla porta ti chiedeva l'ultima domanda, oppure ti poteva chiedere di seguirla o addirittura, se dopo ti incontrava in corridoio, ti faceva qualche altra domanda last minute.
L'altro attimo di maggiore tensione che da noi si sentiva era quando bisognava andare a chiedere il voto, perché non c'era altro modo per conoscerlo. Il che implicava un commento più o meno dettagliato per ciascuno.
Si capiva benissimo chi fossero i suoi allievi perché solo loro durante una ricreazione normalissima, in due o più a testa bassa e quasi senza respirare rantolavano verso la classe davanti alla quale dovevano aspettare e aspettare e ancora aspettare. Quell'attesa sembrava non aver mai fine perché ovviamente dentro c'erano altri interrogati che subivano circa la stessa sorte. Questo provocava la perdita non solo dell'intera ricreazione ma anche l'incapacità di ingoiare qualsiasi merenda e la perdita di almeno un quarto d'ora della lezione successiva. Se l'interrogazione invece avveniva dopo la ricreazione, o si andava a chiedere il voto alle 13.05 o il giorno dopo. Quasi tutti sceglievano la via dell'agonia. Io, al massimo, rischiavo di non pranzare.
Però, credetemi, ne valeva la pena. Sì, pare assurdo ma chi andava bene non riceveva quasi mai commenti con più di tre parole. Per quanto mi riguarda, i commenti su di me hanno raggiunto i quaranta minuti. Ed erano lezioni sulla dignità e sulla sicurezza, sul coraggio e sul metodo di studio, sul modo in cui affrontare i problemi, sull'ordine mentale, sul vivere in società, sulla fiducia e sul dare il meglio di sé. Commenti dopo i quali era difficile sentirsi scoraggiati.
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