Numero 13
"Bene, sei pronta?", Claudia Santarossa accende il registratore, osservando Demetra mentre le accenna un impercettibile sì.
La stanza è in penombra, una condizione ideale perché l'ipnosi possa avvenire con successo; le tapparelle sono state abbassate, lasciando filtrare solo un debole filo di luce.
"Ricorda gli esercizi di respirazione, ok?".
Silenzio.
Siamo alla seconda seduta di ipnosi.
"Se un ricordo diventa troppo vivido, tu inizi a fare lunghi e profondi respiri; io ti richiamerò a me".
Ancora, nessuna risposta.
"Ok, cominciamo".
La sua stanza è buia, fredda. Demetra può vedere il suo respiro; le dita sono congelate, ma riesce ancora a muoverle. Tenta di scaldarle il più possibile, sfregando le mani per riscaldarle, per poi poggiarle sui piccoli piedi sudici.
Da quanto tempo si trova nel bunker?
All'inizio aveva provato a contare le ore, i giorni, ma subito si era accorta che lì, in quel buco puzzolente, il tempo non esiste.
Il tempo è davvero solo un'invenzione degli esseri umani.
Quando le prelevano il sangue, per tutto il seguente giorno può dormire in un letto caldo, mangiare cibo decente e farsi un bagno.
Lei ha ceduto prima delle altre.
Ha capito che è inutile urlare, mordere, piangere, supplicare o minacciare; loro le tengono lì, per i propri scopi, e non le lasceranno andare.
Forse per questo a lei, fino a quel momento, hanno solo tolto il sangue.
Certo, con lei riempiono delle sacche intere, e ogni volta fa sempre più fatica a riprendersi.
Ma non l'hanno ancora operata.
Quel ricordo è così vivido, il giorno in cui li ha aiutati a sedare Amanda; sì, doveva essere quello il suo nome.
Doveva essere poco più grande di Demetra, non aveva fatto altro che piangere per le prime settimane.
Non parlava italiano, e nemmeno francese.
Forse era Slovena, non riusciva a stabilirlo.
Tuttavia, Demetra era riuscita a guadagnarsi la sua fiducia.
La dottoressa Santarossa aspetta pazientemente che Demetra risponda alle sue domande: sa che sta ricordando, lo percepisce dal modo in cui la giovane respira, e dal labiale che si muove, come se stesse parlando con qualcuno nella sua mente.
Quando nota il tremore alla mano destra, la psicoterapeuta capisce che Demetra sta iniziando ad agitarsi.
"Demy, dimmi che cosa vedi?", la incalza la dottoressa, faticando a trattenere la curiosità.
La giovane paziente inizia a rabbrividire in tutto il corpo, ad avere i sudori freddi.
"Demy, adesso respira".
Ora la stanza dove la tenevano rinchiusa è piena di sangue.
Dalle pareti, cola il sangue.
Il suo corpo è zuppo di sangue.
Ha fame, ha tanta fame.
Si sono dimenticati di lei.
Morirà lì, in quel buco, lontano dal sole, dalla sua famiglia.
La bambina che le hanno messo in cella, la piccola zingara; lei non sopravvivrà fino alla prossima settimana.
La dottoressa Santarossa telefona immediatamente al pronto soccorso; la sua paziente sta avendo un attacco di panico. Il corpo emaciato è scosso da violenti tremiti.
Demetra è ancora lì, in quel buco nero, la piccola zingara tra le braccia.
Il suo corpicino è esamine.
Le è bastato coprirle la bocca e il naso con la mano, e stringere.
Ha fame, ha veramente fame.
Se non farà quello che vogliono, loro non andranno a riprenderla; la lasceranno lì.
A marcire.
Claudia Santarossa osserva i paramedici mentre sollevano il corpo della giovane, ancora scossa dalle convulsioni, e la sistemano sulla barella, davanti agli occhi increduli dei genitori.
Nella sua mente, Demetra rivive quel giorno, il giorno in cui è morta.
La bambina non sarebbe sopravvissuta a quel digiuno forzato; con la sua vita ne avrebbe salvate molte altre.
Demetra si è rifiutata, all'inizio: ha detto che non poteva, non potevano chiederle questo.
Fino a quel momento, aveva fatto tutto quello che volevano.
Ma ora ha fame, non vuole morire laggiù.
Quando i suoi sequestratori entrano nella sua cella, trovano le pareti ricoperte del suo sangue: Demetra si è tagliata i palmi delle mani, e ha iniziato a picchiarli sul muro; poi, si è tagliata i polsi.
È riversa a terra, le mani in grembo.
Ricorda quel giorno, lo ricorda molto bene Demetra, e lo ripercorre con la mente mentre il paramedico la carica in ambulanza.
Si è pentita di essersi passata la punta acuminata di quella pietra sulle vene nell'esatto momento in cui il sangue ha iniziato a sgorgare impietoso; a nulla è valso tentare di bloccare l'emorragia premendoli sul proprio corpo.
Lei vuole vivere, lei vuole sopravvivere.
I volti contorti delle sue compagne si sovrappongono, producendo mostri dai mille occhi, con bocche spalancate in gridi rabbiosi.
"Brutta puttana! Facci uscire! Di loro di farci uscire!".
"Ti prego Demetra, ti prego aiutaci".
"Perché lei? Perché soccorrete solo lei? Che Dio vi maledica tutti!".
Dalle celle emana un tanfo insopportabile, ma Demetra non ci fa caso.
Dopo essere stata medicata, e aver sonnecchiato per qualche ora, avverte una mano accarezzarle la testa.
"Era necessario", sussurra la voce baritonale.
Demetra annuisce: "Era...necessario", biascia, il tono incerto.
"Ora sei pronta, numero 13", le sussurra il padre.
Così lo chiamano, gli adepti.
Colui che plasma le menti, colui che ha dato inizio a tutto.
*****
Noemi piange tutte le sue lacrime.
Quello nella foto non è Darryl, non può proprio essere lui.
Le sue amiche sono delle troie, delle gelose.
Ha scritto un unico messaggio, delirante, in cui dice di non avere nessuno al mondo, che le sue amiche, la sua famiglia, tutte le persone che la circondano la odiano.
Il giovane non ha tardato a risponderle: Darryl verrà a prenderla domani, finalmente conoscerà l'uomo che le sta cambiando la vita.
Sono quasi le due di notte, sono passate ormai diverse ora da quando Noemi è rincasata, ma non riesce a dormire.
Ad un tratto, sente uno strano rumore fuori.
Qualcuno sta battendo alla finestra.
Scocciata, si solleva dal letto, gli occhi ancora gonfi, e per poco non lancia un urlo: Darryl è sotto casa sua, nascosto dietro il trattore di suo zio.
Noemi ha un tuffo al cuore, non può crederci!
Il giovane deve averle voluto fare una sorpresa, partendo non appena si erano disconnessi; quel cuore d'oro ha capito subito che lei stava male, e si è precipitato da lei.
Dopo essersi vestita in velocità ed essersi calata giù dalla propria stanza, Noemi corre fuori e si fionda fra le braccia del giovane, che un po' sorpreso e un po' felice, ricambia la stretta.
Stando attenti a non fare rumore, i due si dirigono verso la macchina del giovane, parcheggiata in uno spiazzo isolato, il cuore in gola.
"Darryl, tu sei pazzo!", esclama Noemi in preda all'euforia, mentre osserva i lineamenti del suo salvatore.
Sì, è proprio lui: stessi occhi, stesso naso, stessa bocca e stessi capelli; persino le fossette, sono le sue.
I due salgono in macchina, tenendosi per mano.
"Dove mi porti? Per le sei torniamo però eh!", prosegue Noemi, e Darryl le punta gli occhi cerchiati dagli occhiali spessi nei suoi: "sorpresa, vorrei trovare un posto tranquillo dove parlare", le fa lui, gentilmente.
"E guardare le stelle!" aggiunge lei, complice, ma la risposta che riceve è glaciale.
"Non ci saranno stelle nel posto dove stiamo andando".
Subito, Noemi cerca istintivamente la maniglia della porta, e scopre con orrore che è stata staccata.
"Che significa?", chiede, la voce tremante.
Darryl guida tranquillo, la voce monotona e bassa: "non mettevo piede da queste parti da due anni, ed è un grande rischio per me. Non siamo così lontani da Nova Gorica, qualcuno potrebbe riconoscermi, e chiamare i miei per dire che sono vivo e in circolazione".
La fotografia stampata da Giada colpisce Noemi come uno schiaffo rovente.
"Tu...ti chiami Javor?", sussurra la ragazza, ingoiando una lacrima.
"No, ti sbagli. Il mio nome non è Javor, non lo è più da due anni. Quando sono rinato, Javor è morto con me".
"No...", Noemi si sente in trappola, si guarda intorno in cerca di vie d'uscita, ma non ce ne sono.
Nota che Darryl, o meglio Javor o chiunque sia quel pazzo che l'ha segregata in macchina, sta aumentando sempre di più la velocità, forse per impedirle di rompere il vetro del finestrino col gomito e gettarsi dall'auto in corsa.
"No senti, non arrabbiarti. Ok? A me non importa chi sei, se te ne sei andato di casa o se hai cambiato nome; io voglio conoscere il vero te, il dolce e sensibile ragazzo che mi inviava quelle poesie meravigliose e che sapeva sempre cosa dirmi per tirarmi su", supplica lei.
L'uomo, per tutta risposta, le lancia uno sguardo benevolo: "Oh, ma io non ti ho mai scritto nulla di tutto questo".
Noemi trema, comprende che qualcosa di terribile sta succedendo.
Javor, intuendo la sua perplessità, le spiega: "Io ho solo prestato la mia immagine, perché tu avevi bisogno di un volto amico per fidarti davvero. Ma io non ti ho mai scritto, non so nulla di quello che ti è stato inviato".
"Eh...eh allora con chi cazzo ho chattato nell'ultimo mese?!", Noemi urla così forte da sentire la gola bruciarle.
Il giovane increspa le labbra in un sorriso a bocca chiusa, prima di risponderle in un soffio:
"Con numero Tredici".
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